domenica 29 maggio 2011

I pazzi siete voi

Il presidio fornisce certamente un punto di osservazione privilegiato sulla città e sul nostro presente in generale. Davanti alla scalinata della Sala Borsa si può incontrare ogni genere di passante, ma non si tratta solo di uno snodo per il movimento: è anche uno snodo simbolico, luogo dove si svolgono le celebrazioni e le feste, in cui si esprimono nella forma più compiuta molti dei rapporti di forza che attraversano la società. Possiamo scorgere il braccio di ferro tra istituzioni e associazioni di categoria, tra grandi aziende e cittadini comuni, tra il più povero dei poveri e tutti gli altri. In questi primi otto giorni qui davanti è passata l'umanità più varia, e abbiamo potuto sbirciare il modo in cui ciascuno si rapporta con la società e la città, nella sua rappresentazione più classica: la piazza. Seguendo il consiglio di Luca, ho fatto delle lunghe ore trascorse al presidio un'esperienza antropologica.

Gli anziani bolognesi o quelli che vivono qui da molti decenni, solitamente camminano a testa alta e con il passo sicuro di chi in qualche modo ha già la propria riga nei libri di storia. I migranti liberi dal lavoro si radunano in capannelli per discutere e mangiare insieme, ritrovando i propri compaesani. Ricreano in piazza un pezzetto del loro paese d'origine. Oppure passano veloci nelle prime luci del mattino, per scomparire nelle cucine dei bar del centro. I ragazzi molto giovani invece attraversano la piazza a torme, guardandosi l'un l'altro per darsi sicurezza, senza riuscire a trovare un posto tutto per loro.

Quelli che hanno i problemi più grossi, a volte, non possono accontentarsi del selciato della piazza e devono salire più in alto. Arrampicarsi sulla statua del Nettuno e restare lì fin quando qualcuno non li viene a prendere, per esempio. Da quando siamo qui, c'è un uomo che ha compiuto quest'impresa due volte. Non ha mai dormito al presidio né ha partecipato a un'assemblea, però è passato, come molti altri. E' un caso che abbia scelto questa strana modalità espressiva proprio adesso che ci siamo noi? Non sarà che il nostro presidio, anche in quella che alcuni anni fa si chiamava psico-geografia, ha davvero scombinato le carte in tavola?

Rispetto al primo episodio che ha avuto come protagonista l'arrampicatore di statue, la situazione è molto più serena. Il tizio è vestito, e non più in mutande come la prima volta. Ha un megafono, segno evidente della sua volontà di esprimersi, piuttosto che di farsi del male. Le forze dell'ordine si avvicinano senza fretta, e solo dopo più di mezz'ora la zona intorno alla fontana viene cintata ed evacuata. Attorno al monumento o nelle immediate vicinanze, le persone ridono, riprendono con i cellulari, invitano l'arrampicato a buttarsi. Persino noi, che ci sentiamo perseguitati, ci lasciamo scappare qualche risata.

Peccato che questo sia anche il giorno in cui la Madonna di San Luca, seguita da un'affollatissima processione, scende dal santuario sui colli e giunge nella cattedrale cittadina, all'inizio di via Indipendenza. Il tragitto della sacra statua, malauguratamente, passa ogni anno proprio sotto lo sguardo del Nettuno.

Poco dopo che il tizio è salito sulla statua, sedendosi sulle sue spalle e stringendo le gambe attorno al collo del dio, la musica sacra ha iniziato a diffondersi dagli altoparlanti della piazza, invitando la popolazione al raccoglimento. La Madonna, dentro un baldacchino ornato di fiori e di broccati, appare all'imboccatura di via d'Azeglio e fa il suo ingresso nella piazza, scortata da centinaia di tonache in rappresentanza delle innumerevoli chiese cittadine. A passo cadenzato, la sua marcia procede e tutta la parata sfila, come in una specie di performance surreale, sotto i piedi penzolanti del matto appeso al Nettuno. Tra le migliaia di persone radunate nel flusso, solo i bambini seduti sulle spalle dei genitori si chiedono esplicitamente che succede. Forse riconoscono in quel pazzo, anch'egli seduto su imponenti spalle, un po' di sé.

Il presidio rimane ammutolito. Inutile negare che un po' di sconforto, di fronte a tanta follia colletiva, attraversa gli animi. L'unica certezza che riesce a emergere dallo sbigottimento è questo mantra bifronte, dove i pazzi sono sia coloro che lo pronunciano, sia coloro a cui è indirizzato: i pazzi siete voi.


Ps: I pazzi siete voi, ovvimente, è anche qui.


martedì 24 maggio 2011

La mia prima notte in piazza Maggiore

Non avete idea di quanti scarafaggi ci sono di notte in piazza Maggiore. Sono ovunque, corrono lungo le fessure tra le pietre del pavimento, passeggiano nei cessi dei pochi bar aperti, si infilano sotto i mucchi di cartone e tra gli zaini ammucchiati negli angoli della piazza. Traspirano dalle mura dei palazzi, come sudore nero.

Verso le tre, annebbiata dalla stanchezza, inizio a pensare che forse più tardi, quando tutta la città dorme, apriranno il portale di palazzo d’Accursio e insedieranno il loro sindaco, un esemplare alto tre metri e lungo come un autobus. Allora tutto sommato mi rassicura il fatto che alle cinque ancora ci sia gente sveglia. Immagino che sotto gli sguardi degli umani certe cose non avvengano, e poi più avanti, con la luce del sole, certamente il sindaco non si farà vedere.

Chi invece si farà vedere - a giorno inoltrato e, immaginiamo, ulteriormente rischiarato dagli spot della ribalta - sarà Virginio Merola, alla sua prima mattinata da neoeletto primo cittadino. L’assemblea ha già deciso che ignorerà deliberatamente la questione.

A parte gli scarafaggi, che mi mettono addosso un certo disagio, in piazza Maggiore di notte si sta proprio bene. Io e una mia amica apparecchiamo un bel giaciglio a due posti davanti alla Sala Borsa, e il materassino che mi sono fatta prestare attutisce alla perfezione le poche asperità del granito.

Alla faccia di chi considera questo presidio una faccenda da studentelli spagnoli in erasmus, la situazione è piuttosto variegata. C’è un pasticcere cinquantenne che si addormenta con le braccia conserte e il viso rivolto alle stelle, per nulla infastidito dai rumori e dalle luci della città. C’è chi una casa, probabilmente, non ce l’ha per nulla. Ci sono alcuni migranti con la voglia di chiacchierare. C’è un ragazzino che avrà più o meno quattordici anni, che forse stanotte si sente meno solo a dormire per strada.

Verso l’una, una ragazza fa girare una vaschetta di patatine di Mc Donald’s. Alle sei si alza e, dopo aver dato il buongiorno ai pochi già svegli, si mette a pulire la piazza. Ha i capelli coperti da una sciarpa a righe. Dev’essere una delle famose donne islamiche – segregate e represse – di cui si parla tanto.

Mi hanno detto che stanotte a dormire siamo tre più di ieri. Non è molto, ma non è neanche male. All’assemblea serale, com’è ovvio, l’incremento è stato molto più grande. Mentre le rondini volteggiano attorno a San Petronio per la loro consueta parata mattutina, noi sistemiamo il banchetto della biblioteca di strada e innaffiamo la piccola pianta di erica che qualcuno ci ha regalato. Alcuni passanti ci salutano mentre vanno al lavoro, come si fa tra buoni vicini di casa.

mercoledì 18 maggio 2011

Tu rimuovi il problema

Questo post nasce a quattro mani, ma vorrei che ne coinvolgesse molte di più. Nasce da una lunga telefonata, finita quando è finito quel poco credito comprato con i soldi guadagnati via paypal, grazie a uno sconosciuto spagnolo che paga i miei articoli un centesimo di dollaro a parola.

La rabbia non da buoni consigli, dicono, e il sangue freddo è meglio di quello caldo. A me sembra che i nostri peggiori consiglieri, attualmente, siano sentimenti ben più civilizzati e modesti. L’apatia, per esempio, la sensazione di essere troppo piccoli di fronte a un’enormità, di avere le mani legate, di essere soli ad affrontare l’imponderabile. Siamo sfiniti dalle frustrazioni e dalla bruttezza di ciò che ci circonda. L’apatia è un sentimento lucido, è saggia e razionale, per questo è una condanna così difficile da ribaltare. Sappiamo che non ci porterà niente di buono, ma sappiamo anche che è giusta, proporzionata e pesante di motivazioni inoppugnabili.

L’horror vacui è un’emozione a prima vista meno negativa, perché si abbina perfettamente alla morale in cui siamo immersi. Persino l’estetica del nostro mondo ne rispecchia i principi. L’horror vacui è barocco, è il sentimento di un’epoca fiorente e produttiva, piena di sane aspirazioni. E’ ciò che rende il nostro mondo e noi stessi così dinamici e assetati di cose nuove, che ci fa sentire vivi.

Il panico ci coglie quando scopriamo di essere in realtà disorientati, insicuri, incapaci di tenerci saldi e di mantenere il controllo sul nostro minuscolo, fragile timone. Dicono che se ne sia avuta una vera e propria epidemia a partire dalla seconda metà del ‘900. In quel caso, come per la televisione di Berlusconi e le merendine, siamo nati dentro il suo tempo; come si vivesse prima possiamo solo farcelo raccontare.

Come formiche guidate da una chimica di impulsi irrefrenabili, ci affatichiamo alla ricerca del nostro chicco di grano, della nostra particella di mondo da caricarci in spalla. Brulichiamo impazziti tra lavori che odiamo, corvée dagli sbocchi più o meno illusori, stage da affrontare con spirito da pitbull addestrati. Ci accontentiamo di una cosa qualunque, basta che ci faccia sentire impegnati e che ci dia l’impressione di essere capaci di guadagnarci il pane. Ci sbattiamo anche, per averla. Ci sottoponiamo a lunghi training per apprendere il nulla, ci facciamo rimproverare da qualunque saltimbanco abbia un briciolo di potere in più di noi, compiamo abominevoli sforzi di autodisciplina per assomigliare a quello che gli altri ci suggeriscono. Finiamo inghiottiti per mesi e anni, dentro uffici nei quali ci manca il respiro e in cui non siamo nulla, se non ingranaggi di macchine inutili, buone solo a issare in alto pezzi di ruderi di un tempo andato, per farli pendere sulle teste del popolo lì fuori.

Tu rimuovi il problema. Proprio tu. Io? Proprio io.

Ma quale problema? Berlusconi? Lui sta cadendo, non lo vedi? Ha perso Milano e da mesi non fa altro che consumarsi le suole nel tentativo di frenare gli energumeni che, uno per braccio, lo trascinano via. La gente non ne può più, il vento sta cambiando.

No, non quel problema, l’altro. I preti pedofili? Il Ruby-gate? No, quella cosa che noi non abbiamo futuro, che non riusciamo neanche a tirare su i soldi per pagarci una stanza. Non una casa, una stanza. E quando ci riusciamo, è perché facciamo da tappabuchi in un’azienda, un’associazione, un negozio o un giornale che prima o poi ci butterà fuori, senza averci insegnato nulla, lasciandoci a piedi con l’angoscia di dover ricominciare tutto da capo. Ah quello? Beh sì quello è un bel guaio, però guarda a Napoli va al ballottaggio De Magistris.

Precario significa “ottenuto con la preghiera” e noi questo siamo: lavoratori per grazia ricevuta. I nostri miseri ex voto li fabbrichiamo ogni giorno, con la nostra fatica e gli anni che regaliamo per portare avanti le più inutili delle imprese, avendone in cambio solo la certezza del tempo che passa.

Che faremo quando smetteremo di essere “giovani” e non saremo più papabili per fare i commessi, i PR dilettanti, i segretari, gli scrittori a cottimo? Quando magari ci servirà qualche soldo in più di quella miseria con cui campiamo? Dai, ci penseremo più avanti, per adesso facciamo un altro corso di formazione, altri tre mesi di contratto, un altro giro coi curriculum.

Prendevo la terza media e andavo a fare il meccanico, mi dice il telefono.

sabato 14 maggio 2011

Pane, Twitter e fantasia: l'Egitto in rivolta visto da qui

Venerdì scorso, dopo aver ascoltato dal palco di Piazza di Porta Ravegnana alcuni interessanti interventi di lavoratori ed altri meno interessanti interventi di dirigenti sindacali, decisi di cercare un posto comodo e all’ombra per mangiare un panino. Lo sciopero generale era andato benone, a giudicare dai due lunghi cortei con cui avevo attraversato il centro della città; sicuramente meglio di quanto si aspettavano gli organizzatori, che per prudenza o scaramanzia avevano deciso di far confluire la manifestazione nello stretto imbuto di via Rizzoli, invece che in Piazza Maggiore. In piazza, mentre i partecipanti allo sciopero andavano disperdendosi, si formavano piccoli capannelli di delusi, pronti a rimproverare i lavoratori stessi perché a mezzogiorno già mollavano gli striscioni per scapparsene al mare.

Gli scioperi non servono più, ormai sono delle pagliacciate, sono solo un ulteriore disagio. Sembra questa la vulgata più quotata al momento, sposata in toto da una moltitudine interclassista e intergenerazionale di italiani. Una buona parte di essi aggiunge che la speranza sono i giovani, la speranza sono Twitter e Facebook. Avete visto Piazza Tahrir, no?

Ebbene, io Piazza Tahrir l’ho vista, ma mica tanto bene. Da qui, mi pareva che le immagini e le voci ci giungessero un po’ disturbate, un po’ perse nella grana grossa degli speciali di Repubblica Tv. Non ci si capiva niente. Ma chi erano questi rivoltosi? I giovani! La generazione di Twitter! No, gli affamati! I laureati! I borghesi!

Per fortuna, in tanto caos è giunto ancora una volta con salvifico tempismo un post di Giap, questa volta a firma di Wu Ming 2, intitolato “Disintossicare l’Evento, ovvero: come si racconta una rivoluzione?”. Vi si dice, in parole poverissime, che una rivoluzione è qualcosa di intricato, complesso, plurale, che deve la sua forza all’impossibilità, per lunghi periodi di tempo, di recintare entro precisi schemi di cronaca ciò che sta accadendo. Quando si finisce per ingabbiare gli eventi entro cronologie deterministiche, entro timeline verticali come quella elaborata dal Guardian, ecco che la rivoluzione è già mezza che fottuta, ecco che il suo potenziale eversivo, di rottura della linearità, è già stato ricondotto alla norma. Non c’è niente di peggio, per una rivoluzione, che vedersi affibbiato un nome, un fiore, un colore, una data che ne catalizzino la portata simbolica, rinchiudendola in una scatola che chiunque, se è abbastanza bravo, può prendere e portarsi via con sé. In Iran, ad esempio, i khomeinisti ebbero gioco facile quando decisero che i comunisti e i liberali, nella rivoluzione, in fondo non avevano dato un gran contributo, che erano quattro gatti e li si poteva liquidare perché non erano di nessuna utilità per la neonata repubblica: ci riuscirono perché le date e le ricorrenze simbolo di quel processo che aveva portato alla caduta dello Shah ricordavano quasi sempre una scadenza religiosa, le mani insanguinate dei manifestanti feriti o uccisi dalla polizia erano facilmente assimilabili alla simbologia sciita del martirio e l’aggressione da parte dell’Iraq sembrava ricalcare la mitica battaglia di Kerbala tra la dinastia Ommayyade e l’Imam Husseyn.

Sul fiume di persone sfociate in Piazza Tahrir, di nomi ne sono piovuti parecchi. Inizialmente, si usò l’inflazionato “rivolte del pane”, paradigma buono per tutte le stagioni purché si riferisca a sommosse di gente dalla pelle scura, o almeno un po’ brunita (quelli che George Carlin chiamava “brown people”). La rivolta del pane è tipica di popolazioni pre-moderne, proto-umane quasi; è qualcosa di medievale e selvaggio, che fa venire voglia, a noi creature del mondo avanzato, di destinare il nostro cinque per mille alla costruzione di un pozzo in Africa. E’ un evento che ci disgusta, ma a cui guardiamo da lontano; che ci permette di compiacerci della sua ferocia, di provarne una salutare e gradevole paura, pur senza farcene sentire culturalmente ed etnicamente partecipi, e che ci fornisce una realistica parabola educativa per insegnare ai nostri bambini quanto sono fortunati. La rivolta del pane è uno scandalo, ma è lo scandalo che capita sempre altrove, sempre ad opera di altri, di brown people appunto, ed era perciò, fino a non molto tempo fa, il massimo della vita: faceva gocciolare nel nostro cuore l’orgoglio del primo mondo, di chi ha meritato il benessere e, per ricordarsene, deve ogni tanto gettare uno sguardo in basso, tra quelli che ancora, come nelle pestilenziali epoche antiche, si contendono il cibo. Al massimo, recuperando il famoso motto, possiamo rimproverarci di non avergli insegnato a pescare.

Il secondo paradigma è certamente quello della “rivolta dei giovani”, che viene spesso usato in modo interscambiabile con quello di “rivolta del web”. Secondo questa narrativa, esiste una “generazione Facebook” la quale, in virtù dell’integrazione nell’Occidente, avrebbe la chiarezza di visione, le capacità organizzative e i buoni sentimenti per opporsi al vecchio regime. Qui, i giovani sono rappresentati come esseri puri, sognatori, limpidi, che è esattamente il modo in cui un mondo ricco di mezz’età desidera guardare alle nuove generazioni (ad esempio, ne parlai in questo post). I giovani sono le forze neutre del bene, sono belli e innocenti come in un musical per teenager. Grazie a internet, essi si sono emancipati dalle lordure della politica, il cui sporco è esemplificato dalla tetraggine delle vecchie sezioni di partito, dalla cupezza fumosa e odorante di birra dei centri sociali, dalle esalazioni acri di sudore degli scioperi. La Rete è oggettiva, dice la verità, genera ragazze e ragazzi scevri dal rozzo materialismo delle lotte di classe e spinti solo da rivendicazioni nobili e universali come la libertà di stampa, la democrazia, la fine della corruzione. La rivolta del Web ci rassicura e permette di assimilare quei giovani a noi e noi a loro. Se la loro battaglia e bella e vittoriosa, lo sarà anche la nostra. Anche noi usiamo Facebook, anche noi frequentiamo i blog, anche noi clicchiamo su siti e campagne per la libertà di stampa e la democrazia. La loro vittoria è la promessa che la nostra idea di vita politica può funzionare, che l’attivismo da pc è davvero allo stesso tempo comodo, pulito e fruttuoso, che non è necessario confrontarsi fisicamente con gli altri se non nel momento cruciale, quando potremo abbattere il tiranno portandoci il pranzo da casa.

Il terzo paradigma è quello della “rivolta di Piazza Tahrir”. L’Evento, che come hanno spiegato i Wu Ming è sempre carico di potenzialità irrisolte, di biforcazioni, di una pluralità di genesi e di luoghi d’origine, diventa invece massimamente delimitato, circoscritto, nitido. A un certo punto la gente s’è ritrovata a Piazza Tahrir e c’è rimasta. Prima, il nulla. Parallelamente, nemmeno. Piazza Tahrir è una forza del bene auto-evidente. Nessun accenno, ad esempio, al fatto che l’Egitto sia attraversato in lungo e in largo da scioperi durissimi da almeno un decennio e nemmeno al fatto che nei due giorni che hanno preceduto la caduta di Mubarak l’Egitto è stato paralizzato da uno sciopero generale; che è stato proprio il totale blocco del paese imposto dai lavoratori a convincere i generali a scalzare il dittatore.

E’ molto comodo il paradigma di Piazza Tahrir, ci fa credere che la rivoluzione si faccia in un attimo, grazie alle buone intenzioni e alla purezza d’animo. Io pago le tasse, non rubo, mi informo, sono contro la Casta. Questo basta, giusto?

Insomma, quando qualcuno dà un nome a una rivoluzione la prima cosa da chiedersi è perché? A chi giova quel nome? Quali interessi tutela? Quali speranze e desideri solletica e quali, invece, sopisce?

I lavoratori hanno avuto un ruolo indispensabile nelle vicende che hanno condotto alla fine di Mubarak e hanno portato all’interno della protesta le loro rivendicazioni: fine del regime di privatizzazioni selvagge portato avanti dall’ex-presidente e dalla sua giunta, sostituzione di tutto il managment corrotto e incapace, emersione del lavoro nero, istituzione di un salario minimo, formazione di sindacati indipendenti. Gli scioperi, altrove, si fanno e servono eccome. Gli scioperi contribuiscono persino alle rivoluzioni e sono davvero lo strumento principe di lotta per i lavoratori. Tutto questo è scomparso dalle narrazioni che i nostri media ci forniscono dei grandi avvenimenti del presente: le rivolte si fanno con Twitter. Cui prodest? Vedete voi.

Nota: per chi desidera avere ulteriori informazioni sulle lotte in corso in Egitto, qui si trova una raccolta di articoli aggiornata giorno per giorno. Grazie a Lorenzo Declich per il lavoro.

martedì 10 maggio 2011

Dio

In una fase storica in cui il subconscio collettivo pare del tutto coinvolto in un epocale tentativo di rimozione dell’esistenza stessa della società, capitano le cose più strane. Capita, per esempio, che la devozione ad entità ultraterrene ritenute detentrici della chiave per comprendere ed affrontare gli oscuri problemi della vita, torni improvvisamente in auge. La realtà è qualcosa che può continuamente essere messo in discussione e le cui interpretazioni ricadono immancabilmente nel peccato originale, quello di appartenere a un punto di vista, percepito come fallace in sé. Lo sviluppo di un forte sentimento anti-intelletuale – proprio in un momento in cui l’umanità non è mai stata così colta – ha spogliato gli strumenti dell’analisi storica, sociologica e antropologica di una larga parte della loro autorità. Solo l’economia, che mantiene ancora un’aura abbastanza “di destra”, sembra per il momento sfuggire a questo svuotamento, mantenendo quello status di disciplina che la rende meno vulnerabile agli attacchi di tutti quei dilettanti prezzolati o altrettanto prezzolati accademici che hanno precisamente lo scopo di rendere ogni conclusione analitica sul presente, sul recente passato e sul futuro prossimo, semplicemente, non più vera.

La società, come diceva Margareth Tatcher, non esiste. Non deve esistere, altrimenti si ribellerebbe alle vessazioni e all’impoverimento. Ciò che esiste è un Far West incomprensibile dentro cui si è singoli individui e su cui non si può agire, se non lasciandosi catturare dallo spirito di Robinson Crusoe, che naufragato su un isola straniera, solo e affamato, per prima cosa si dedicò alla costruzione di un forte per proteggere se stesso dai temibili uomini scuri che avrebbero potuto popolarla. Si può pregare, quello sì. E infatti ecco che la Cisl, insieme alle Acli e al Movimento cristiano dei lavoratori, propone veglie di preghiera per la disoccupazione giovanile, e il Ministero dell’Istruzione, insieme alla Regione Lazio, organizza ritiri spirituali che facilitino gli studenti nella scelta del loro futuro universitario.

La risposta alla mancanza di lavoro, all’incertezza del futuro, alla precarietà? Secondo uno dei maggiori sindacati italiani, il Ministero dell’Istruzione e alcune istituzioni locali, è Dio.

E io, da fan appassionata, non posso che citare il grandissimo Davide La Rosa.


lunedì 2 maggio 2011

Momenti di ieri*

Gli IWW [Industrial Workers of the World] furono coinvolti in una serie di avvenimenti drammatici nel 1912 a Lawrence, nel Massachussetts, dove la American Woolen Company possedeva quattro stabilimenti. La manodopera era costituita da famiglie di immigrati – portoghesi, franco-canadesi, inglesi, irlandesi, russi, italiani, siriani, lituani, tedeschi, polacchi, belgi – che vivevano in caseggiati di legno sovraffollati e facilmente infiammabili. Il loro salario settimanale medio era di otto dollari e settantasei. La dottoressa Elisabeth Shapleigh, medico di quella cittadina, scriveva: «Un numero molto alto di bambini e bambine muore due o tre anni dopo avere cominciato a lavorare […]. Di tutti gli uomini e le donne che lavorano in fabbrica, trentasei su cento muoiono entro il venticinquesimo anno d’età».

A metà dell’inverno, in gennaio, al momento della distribuzione delle buste paga le tessitrici polacche di una delle fabbriche scoprirono che il salario, già troppo magro per sfamare le loro famiglie, era stato ridotto. Fermarono i telai e uscirono dalla fabbrica. Il giorno successivo cinquemila operai di un altro stabilimento sospesero il lavoro, marciarono fino a una terza fabbrica, assaltarono i cancelli, spensero gli interruttori dell’energia elettrica collegati ai telai e si appellarono agli altri lavoratori perché uscissero. In breve diecimila operai furono in sciopero.

Fu inviato un telegramma a Joseph Ettor, un italiano ventiseienne leader degli IWW a New York, perché venisse a Lawrence ad aiutare nella conduzione dello sciopero. Per le decisioni importanti si costituì un comitato di cinquanta persone, in rappresentanza di ciascuna nazionalità presente in quelle fabbriche. Gli IWW organizzarono assemblee di massa e cortei. Gli scioperanti dovevano rifornire di cibo e combustibile cinquantamila persone (Lawrence aveva in tutto ottantaseimila abitanti); si aprirono mense gratuite e da tutti gli Stati Uniti cominciarono ad arrivare contributi in denaro da sindacati, sezioni degli IWW, gruppi socialisti, privati cittadini.

Il sindaco chiamò la milizia locale e il governatore mobilitò la polizia statale. Qualche settimana dopo l’inizio dello sciopero un corteo fu attaccato dalla polizia, scatenando una giornata di disordini. Quella sera una scioperante, Anna LoPizzo, morì colpita da una pallottola. Secondo i testimoni a sparare era stato un poliziotto, ma le autorità arrestarono Joseph Ettor e un altro organizzatore degli IWW giunto a Lawrence, il poeta Arturo Giovanitti. Nessuno dei due era presente quando era accaduto il fatto, ma furono accusati di avere «incitato e indotto, con consigli o ordini, la suddetta persona di identità ignota a commettere l’omicidio di cui sopra».

Fu proclamata la legge marziale e si vietò ai cittadini di parlare fra loro per strada. Trentasei scioperanti furono arrestati e molti condannati a un anno di prigione. Martedì 30 gennaio un giovane scioperante siriano, John Ramy, fu ucciso a colpi di baionetta. Ma gli operai restavano fuori e le fabbriche non funzionavano. Ettor disse «Le baionette non possono tessere la stoffa».

In febbraio gli scioperanti adottarono il metodo del picchettaggio di massa, formando una catena infinita di migliaia di operai. Ma il cibo si stava esaurendo e i bambini erano affamati. Il giornale socialista newyorkese Call lanciò la proposta di mandare i figli degli operai in lotta in altre città, presso famiglie solidali che se ne sarebbero occupate per la durata dello sciopero. In tre giorni Call ricevette quattrocento lettere di gente che si offriva di ospitare i bambini. Gli IWW e il Partito socialista cominciarono a organizzare l’esodo dei bambini, raccogliendo le domande delle famiglie che li volevano ospitare e predisponendo visite mediche per i fanciulli.

Il 10 febbraio più di cento bambini dai quattro ai quattordici anni partirono da Lawrence per New York. Furono accolti alla Gran Central Station da cinquemila socialisti italiani, al canto della Marsigliese e dell’Internazionale. La settimana successiva altri cento bambini giunsero a New York e trentacinque a Barre, nel Vermont. Una cosa stava diventando chiara: se i bambini erano al sicuro gli scioperanti potevano resistere, perché il loro morale era alto. I funzionari municipali di Lawrence, rifacendosi a una legge sull’abbandono di minori, proibirono la partenza di altri bambini dalla città.

Malgrado l’ordinanza comunale, il 24 febbraio si radunò un gruppo di quaranta bambini che dovevano partire per Philadelphia. La stazione ferroviaria era piena di poliziotti; una donna del Comitato femminile di Philadelphia descrisse la scena che seguì ai membri del Congresso: «Quando si avvicinò l’ora della partenza, i bambini, che avevano formato una lunga fila, a due a due, ordinatamente, con i genitori vicino, stavano per incamminarsi verso il treno quando la polizia ci venne addosso con gli sfollagente, picchiando a destra e a manca».

Una settimana più tardi la polizia circondò e manganellò un gruppo di donne che tornavano da un’assemblea: una d loro, gravida, fu trasportata in stato di incoscienza all’ospedale, dove diede alla luce un figlio morto. Ma gli scioperanti continuarono a resistere, a sfilare in corteo e a cantare.

La American Woolen Company decise di cedere. Offrì aumenti che andavano dal 5 all’11 percento (gli scioperanti volevano che gli aumenti maggiori fossero concessi a chi guadagnava meno), una maggiorazione di un quarto per gli straordinari, e promise che non ci sarebbero state discriminazioni contro chi aveva scioperato. Il 14 marzo 1912 diecimila scioperanti si riunirono nel parco comunale di Lawrence: l’assemblea, presieduta da Bill Haywood, votò per la fine dello sciopero.

Cominciò il processo a Ettor e Giovanitti. In tutto il paese era andato crescendo il sostegno verso di loro. Vi furono manifestazioni a New York e Boston; il 30 settembre millecinquecento operai di Lawrence scioperarono per ventiquattr’ore in appoggio ai due accusati. La giuria li ritenne non colpevoli e nel pomeriggio l’assoluzione fu festeggiata a Lawrence da diecimila persone.

*H. Zinn, Storia del popolo americano, pp 232-234, ma trovate il racconto dello sciopero anche qui