giovedì 30 giugno 2011

La cricca

Ecco qualche link sull'accordo firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, sotto l'occhio attento del Grande Fratello Marchionne.
Prima di tutto,il testo dell'accordo, che nei fatti blinda i contratti firmati dai sindacati, istituisce le "tregue sindacali" sul modello americano - quindi niente scioperi -, e dice che i contratti nazionali valgono, sì, ma su orari, organizzazione del lavoro e prestazione lavorativa si può delegare ai contratti aziendali. Insomma, il contratto nazionale in realtà non vale più nulla.
Alcuni articoli sulla questione: qui, qui, qui.
Qui un articolo che spiega come funziona nel dettaglio la questione della "conta" dei sindacati.
Ed ecco lo scambio epistolare tra la Marcegaglia e Marchionne che, per nulla contento, pretenderebbe maggiori garanzie di esigibilità per far rispettare i contratti così firmati. Tipo il permesso di licenziare gli operai che scioperano lo stesso (e forse di sostituirli con una progenie di cyborg che il manager sta già sviluppando nei sotterranei della sua casa svizzera).
Qui invece un articolo che spiega che razza di personaggio è Susanna Camusso.





lunedì 27 giugno 2011

Libera Repubblica

Solo chi ha sempre guardato alla Val Susa con gli occhi bendati può pensare che il movimento No Tav sia unicamente un assembramento di persone e barricate avvinghiato alle montagne per fermare un treno. Una serie di presidi auto-organizzati che si sostengono e sostengono chi si trova a passare, a portare la sua solidarietà, per sei lunghi anni, sono molto più che le basi logistiche di un'opposizione a un'opera detestata dalla popolazione: sono uno spazio liberato, una libera repubblica, così come i No Tav della Val Susa si sono definiti.

E come ogni spazio liberato, è perennemente minacciato, sabotato e, infine, anche stritolato con la forza delle ruspe e dei manganelli. Gassato da una pioggia di lacrimogeni, coi i suoi abitanti – stanziali o meno – costretti a riparare nei boschi.

I No Tav della Val Susa, per impedire l'apertura di un tunnel, hanno squarciato un varco che può inghiottire treno e galleria in un solo boccone. Come i manifestanti accorsi a Genova per dire la loro, dieci anni fa, come le piazze spagnole, come le decine di esperimenti di liberazione che sono in atto in questo momento in Italia, più tutti quelli che ci sono fuori.

Il fil rouge che collega le lotte i nostri nemici lo vedono benissimo. Sta a noi, nel fumo delle cariche, ritrovarlo e continuare a tesserlo.

mercoledì 22 giugno 2011

Karl Marx wants to be your friend on Facebook

Il recente successo al Referendum ha parso dimostrare ciò che alcuni profeti del web dicono da tempo: la Rete è oggi una forza positiva, che può tirare fuori il paese dalle tenebre della disinformazione e ridargli dignità, speranza, persino senso civico.

Per fortuna, oltre a questo discorso para-evangelico, se ne stanno sviluppando altri, assai più lucidi. I Wu Ming, tramite il loro da me amatissimo blog Giap, hanno di recente proposto un nuovo modo di guardare a internet e alle tecnologie che la sostengono, un modo che tenga conto del lavoro necessario per produrre sia i supporti che i contenuti, dei rapporti di produzione tra aziende globali dell’informatica e operai, o tra giganti della comunicazione e utenti. In poche parole, il caro vecchio Marx.

Tra le multinazionali citate, ovviamente, Microsoft, Apple, Google e Facebook; aziende mastodontiche che, insieme a poche altre, di fatto sono proprietarie della Rete, quella stessa Rete che molti dicono libera e inafferrabile per costituzione, quasi che non fosse, invece, fatta di tecnologie materialissime, software con tanto di copyright, siti da centinaia di milioni di utenti che curvano lo spazio virtuale e incanalano il traffico come potentissimi poli gravitazionali.

Sulla produzione dei supporti elettronici, dall’estrazione dei metalli necessari, alla manifattura e all’assemblaggio delle componenti e al loro smaltimento quando diventano rifiuti, non ho molto da dire, salvo suggerire qualche link, come questo, questo, questo o questo.

Sulla produzione dei contenuti, ovvero sul lavoro di si chi occupa di scrivere, ordinare, ottimizzare quel favoloso universo di pagine di cui la Rete è composta, posso dire qualcosa. Per esempio, posso dire che per tenerla in piedi e renderla quello che è, è fiorito un mercato enorme, in cui la pratica dell’outsourcing, ovvero del lavoro esternalizzato, ha una grandissima importanza.

Prendiamo l’ottimizzazione per i motori di ricerca (il cui acronimo inglese è SEO), una di quelle nicchie economiche emerse direttamente come “indotto” di Google: si tratta, in sostanza, di creare delle pagine che riescano a salire in alto nell’indicizzazione del motore di ricerca, lavorando sia sui contenuti sia sui codici html. Inserire in un testo parole chiave (quasi sempre insensate dal punto di vista semantico, ortografico o grammaticale) o collegare quest’ultime con dei link alla pagina del cliente, per poi immettere il tutto online, è un esempio del lavoro che lo scrittore SEO deve svolgere. Infatti, mentre i tecnici si occupano di pianificare l’ottimizzazione e di “assemblarla”, gli scrittori stanno alla catena di montaggio dei contenuti, producendo a ritmi forsennati squallidi articoletti incentrati sul sito o sul particolare prodotto da cui proviene l’incarico. Tali scrittori non sono, spesso, dipendenti dell’azienda che offre servizio SEO, ma vengono pescati con reti dalle maglie strette nei siti che si occupano di fare da tramite, appunto, tra i datori di lavoro e la manodopera freelance di tutto il mondo. Un nome su tutti, Odesk.

Il sito Odesk.com, di cui ho già parlato, è una vera macchina da soldi: nel solo mese di maggio al suo interno sono passati trasferimenti di denaro per oltre 17 milioni di dollari, cifra di cui trattiene, come commissione, ben il 10%. I lavoratori che lo frequentano provengono in massima parte da India, Filippine, Russia e Ucraina, e svolgono ogni tipo di mansione sia possibile esternalizzare, dall’assistenza ai clienti, al telemarketing, al design di loghi, al SEO. Quest’ultimo ambito viene richiesto con una frequenza di circa 1000 annunci di lavoro al mese, appena sotto per mole di richieste (ne saranno forse stupiti coloro che credono nell’autenticità della Rete) al blog writing. La paga media di uno scrittore indiano, ucraino, russo o filippino oscilla tra i 5 e i 3 dollari l’ora, ma bisogna anche considerare che molti datori di lavoro richiedono prestazioni a cottimo, in cui gli articoli possono essere pagati non più di uno o due dollari.

In pratica, qualunque sito commerciale che voglia incrementare le proprie possibilità di essere trovato dai motori di ricerca (cioè tutti), ha bisogno di questo servizio, che aziende specializzate vendono sfruttando il lavoro di manodopera che si trova in paesi poveri, dove arrivano pochi dollari a fronte di un investimento iniziale, da parte del sito committente, anche di centinaia di migliaia di dollari. Poiché si tratta di lavoro che può essere svolto da casa, c’è da scommettere che la maggior parte dei contractors sono donne (purtroppo Odesk non fornisce dati al riguardo). Qualunque sito commerciale di una certa dimensione, dunque, che venda viaggi, vestiti o spazi pubblicitari, ha voluto la messa in moto di questo meccanismo, e tutto a causa dell’esistenza di Google.

Una Rete libera, territorio di uguaglianza e di assenza di opprimenti cappe proprietarie è una chimera, buona per vendere DVD su beppegrillo.it.


Per chi fosse interessato all'argomento, c'è anche questo articolo in cui tra l'altro si dice che Google ha preso provvedimenti per rendere inefficace il metodo SEO che descrivo.

venerdì 17 giugno 2011

Scaricare le cassette del mercato alle cinque di mattina

Il Ministro Renato Brunetta non è certo nuovo alle esternazioni polemiche – quando non apertamente insultanti – contro i lavoratori. Volgare e ignorante più di ogni caricatura dell'Italia berlusconiana, da buon stereotipo ha fatto della lotta contro altri stereotipi il fulcro della sua politica. Le sue sparate sono abitate da impiegati lassisti, precarie sinistroidi e figlie di papà, giovani pigroni che trascorrono i pomeriggi – perché prima non si alzano dal letto – sbavando improperi su facebook.

Anche se il suo ruolo di carica pubblica, e il modo in cui la ricopre, lo rendono particolarmente odioso, il Ministro Brunetta non è che la punta – la puntina – dell'iceberg. I giovani vogliono solo lavorare comodi davanti al computer, non vogliono più fare lavori manuali, vogliono la pappa pronta. Andate a lavorare in fabbrica, a spazzare le scale, a scaricare le cassette ai Mercati Generali. Chi non ha mai sentito una di queste massime, magari rivolta alla sua persona, uscire dalla bocca di un parente, un conoscente, un datore di lavoro o provenire da un iracondo passeggero di autobus?

Niente di nuovo, di certo, ma un'ennesima, inquietante riproposizione di quella cultura che condanna moralmente i poveri, e i giovani poveri in particolare, con il pretesto di giudicarli artefici delle loro stesse miserie. Una cultura vecchia di secoli, su cui si è ottimamente innestata la mentalità dell'individualismo più distruttivo, dell'auto-imprenditorialità al ribasso, dello yuppie rampante e feroce di inizio millennio. Lo scheletro, si può dire, di quel senso comune che mantiene in piedi l'impalcatura legislativa della precarietà, che altrimenti sarebbe spazzata via dalle proteste di coloro che ne subiscono le terribili conseguenze.

Ciò che il Ministro Brunetta e i declamatori della sua stessa cultura ignorano, insieme a tante altre cose, è il fatto che di giovani che scaricano le cassette ai Mercati Generali alle cinque di mattina ce n'è, eccome. Non solo i precari, come ricorda qui Sandrone Dazieri, tengono in piedi una grossissima fetta, e per di più crescente, della nostra economia, ma molti di essi, specialmente giovani, vengono impiegati in mansioni per cui il titolo di studio che possiedono è inutile perché troppo alto. Secondo i dati resi noti recentemente da Confindustria – quindi non certo un covo di precari assetati di sangue – tra i giovani laureati quasi la metà sono sottoinquadrati. Accade al 40% dei ragazzi, e al 50% delle ragazze.

Secondo i dati di AlmaLaurea, più dell'80% dei laureati in Lettere e Filosofia dichiara di svolgere a tre anni dalla fine degli studi un lavoro in cui la laurea non è richiesta. La percentuale di campione che ha trovato un impiego che valorizza il suo titolo di studio è uguale a quella di coloro che lavorano nel campo dell'istruzione e della ricerca, ovvero in un ambito in cui la laurea è d'obbligo (le donne che hanno un impiego in questo campo, in realtà, sono ben il 27%, a fronte di un 20% che utilizza la laurea per lavoro). Si può quindi ragionevolmente dedurre che gli altri, sparsi per tutti gli altri campi di impiego, svolgano mansioni in cui è necessario al massimo un diploma, ovvero non ricoprano certo il ruolo di quadri qualificati. Un quarto dello stesso campione, i laureati provenienti dalla facoltà di Lettere e Filosofia, lavora tra l'industria e il commercio: questo significa che fanno gli operai, le commesse o, presumibilmente, gli scaricatori ai Mercati Generali.

Un altro fatto che il Ministro Brunetta ignora è che il salario medio di quel campione, nonostante una buona parte di esso svolga i buoni vecchi lavori manuali – non certo roba da nerd lamentosi – rimane attorno ai 1000 euro, 1100 circa per gli uomini e circa 900 per le donne. Cifre che permettono una vita autonoma, ma non certo il lusso di avere una casa tutta per sé o di immaginare una famiglia senza l’aiuto dei genitori.

La cultura della precarietà di cui Brunetta e molti altri si fanno testimoni si nutre di bugie come quelle che il Ministro va blaterando ad ogni piè sospinto. Basta smascherarle, con la forza dei dati, per far crollare quell’orribile senso comune che sta alle loro spalle?

Per portare avanti la vitale riflessione su questa domanda, mi permetto di segnalare un post che andrebbe, a mio avviso, masticato, rimuginato, elaborato. Da tutti.

lunedì 6 giugno 2011

Euforia

La giornata per molti comincia in cucina, per preparare il pranzo sociale da consumare insieme ai ragazzi della Montagnola. Con le pentole e le teglie piene di cibo, attraversiamo il mercato a passo spedito, nel caldo asfissiante di mezzogiorno. Gettiamo sguardi un po' interrogativi alle persone che passeggiano tra le bancarelle, che ondeggiano indifferenti e pacifiche tra una camicia usata e una borsa di tela indiana. Nei nostri pensieri rimbalzano le parole spese da tanti autori sulla sospensione del tempo della rivoluzione, sul fatto che ogni rivoluzione – anche quelle ancora in erba - costruisce un altro tempo, che rompe gli orologi della routine. Per noi, il tempo di cazzeggiare tra le bancarelle della Montagnola, semplicemente, ora non c'è.

Invece, c'è il tempo di pranzare seduti sotto i giganteschi alberi del parco, in compagnia delle decine di ragazzi migranti che da due mesi vivono qui. Si tratta di tunisini sbarcati a Lampedusa e a cui è stato regolarmente riconosciuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Dalle tendopoli di quella che per molti è la porta dell'Europa, sono stati sparpagliati a casaccio in tutta Italia, e poi abbandonati a loro stessi.

Dopo il pranzo, ci sediamo in cerchio all'ombra; Wissam dell'associazione Pari opportunità e sviluppo ci farà da interprete. I ragazzi iniziano a raccontare la loro attraversata marina, prima di tutto, e poi terrestre, alla ricerca di un rifugio in questo paese che avevano immaginato così ricco di opportunità. La maggior parte di loro ha un età che si aggira intorno ai vent'anni, alcuni ne hanno sicuramente qualcuno di meno. Indossano pantaloni lunghi, grosse scarpe da ginnastica, niente che sia adatto alla calura incombente di Bologna.

Molti di loro hanno partecipato alle manifestazioni che hanno condotto alla caduta di Ben Ali, ma si sono poi trovati intrappolati in un'economia affossata dalla fuga del presidente e della sua cricca, e in un paese passato dall'essere una sponda calda di Mediterraneo per migliaia di Europei a diventare una meta evitata dai flussi turistici. Le possibilità di lavoro, in brevissimo tempo, praticamente esaurite. E così ecco l'idea del viaggio, le migliaia di euro per pagare gli scafisti raccimolate a prestito o vendendo i beni di famiglia. Il mare, il pericolo, i tre giorni di viaggio, ci dice un ragazzo, stipati in centoquindici su una barca lunga otto metri.

Una storia già sentita tante volte. La salvezza, Lampedusa. Il ritrovarsi poi gettati, dopo una lunga attesa, in città sconosciute senza un soldo né un indirizzo utile. Gli impiegati della questura che, dopo avergli rilasciato il permesso, li congedano senza avergli indicato qualcuno a cui rivolgersi, senza mai avergli fatto incontrare un mediatore che parlasse la loro lingua. Qui a Bologna sono in sessanta, in tutta Italia probabilmente migliaia.

Dicono che vengono fermati dalle forze dell'ordine per controlli di continuo, anche cinque o sei volte al giorno, non appena si allontanano dai giardini in cui vivono; che alcuni sono anche finiti al CIE di via Mattei, nonostante i documenti in regola. Molti di loro hanno già cercato di lasciare l'Italia, verso la Germania o la Francia, ma sono sempre stati rispediti indietro.

Su quelli che dovrebbero essere i luoghi dell'accoglienza e dell'aiuto, poi, raccontano una lunga serie di brutte esperienze: personale razzista, cibo schifoso, addirittura mense in cui vengono separati dai poveri italiani o comunitari, e in cui si servono pasti peggiori se non si è europei. Torna alla mente la discussione sulla migrazione affrontata qualche giorno fa in assemblea, in cui si diceva che la clandestinità non è tanto questione di illegalità, di infrazione di una qualche legge, ma è un giudizio sulla persona, sulla sua appartenenza “etnica”. Chi è bianco è meno clandestino; chi è africano, arabo, pachistano lo è di più.

Quando chiediamo ai ragazzi come se la sono cavata in queste giornate di temporali, loro ci indicano una grossa magnolia a pochi metri da noi: dai suoi rami pendono coperte, vestiti, valigie. Wissam ci spiega che ottenere delle tende e dei sacchi a pelo dalla Protezione Civile, fin'ora, non è stato possibile.

Ci concediamo un po' di musica prima di tornare in piazza, mentre alcuni dei ragazzi hanno tirato fuori un pallone e si sono messi a giocare a calcio nel piccolo prato in discesa della Montagnola.

Nel pomeriggio, durante il workshop su immaginario e filosofia si parla del fatto che secondo Fredric Jameson lo stato d'animo che caratterizza la nostra epoca è l'euforia. Ne siamo circondati. Attorno al nostro presidio, si sussegue un carnevale di palloncini, gingles suonati con i più vari strumenti, persone in posa per farsi fotografare davanti alla fontana del Nettuno. Nei weekend, la piazza diventa un turbinare continuo di passanti sorridenti e intontiti, di microeventi, di iniziative promozionali di ogni genere. Persino la Madonna di San Luca, che continua a andare avanti e indietro sotto i nostri occhi, sembra catturata dalla stessa euforia.

Ci torna in mente la strana calma del parco della Montagnola, con i ragazzi che giocavano a pallone.