lunedì 21 febbraio 2011

Ragazza immagine

Un paio di settimane fa mi telefona un’amica: ha letto che una libreria della zona universitaria cerca volantinatrici e l’appuntamento per il colloquio collettivo è per quel pomeriggio. Arrivo in anticipo, sono la prima. Esploro la libreria, in cui testi dei più disparati argomenti sono accatastati sugli scaffali seguendo l’ordine alfabetico degli editori, in un modo che spegne qualunque curiosità. L’ambiente, però, non assomiglia a quello di un comune negozio di manuali universitari usati, solitamente sobrio e polveroso, ma è invece colorato, luminoso, accogliente. Caratteristiche, peraltro, rivendicate dalla libreria sul suo sito.

Alle 18 in punto un giovane uomo, che non si presenta, spiega a noi ragazze in che consiste il lavoro (si tratta semplicemente di distribuire volantini davanti alle aule universitarie), poi raccoglie i contatti di coloro che sono interessate e ci congeda. La paga non raggiunge i quattro euro l’ora, ma mi dico ugualmente disponibile. L’amica che mi aveva avvisata arriva in ritardo, quando nel negozio non è rimasto nessuno. Scambia due parole con il commesso e gli lascia il suo contatto.

Due giorni fa, scopro che la mia amica, a differenza di me, è stata chiamata per quel lavoro. Per la cronaca, lei è alta, bionda, appariscente. Mi racconta di essere stata contattata in anticipo rispetto a quello che il commesso ci aveva detto, e di essere stata invitata a una “prova generale”. Considerando espressione di follia il pretendere una giornata di prova per quel tipo di lavoro e con la prospettiva di quella paga, la mia amica ha rifiutato. Io non riesco a farmi contagiare dalla sua calma. L’idea di dover competere sul piano estetico con altre donne, persino per un lavoro di volantinaggio da 3,75 euro l’ora, mi sconforta. La banalità del sessismo che emerge da questa minuscola, stupidissima catena di eventi, mi arriva come uno schiaffo.

Laddove il mercato è saturo e l’impresa priva di qualunque innovazione, fantasia, merito, il libraio del XXI secolo punta su giovani donne, fresche e attraenti. Sono loro il di più che offre ai clienti.

Il tutto, però, non avviene in modo esplicito. Ciò che lui richiede, all’apparenza, è un semplice lavoro di braccia e di pazienza. La bellezza, in un certo senso, è il presupposto al lavoro di braccia, è qualcosa che si può pretendere gratis, che è dovuto al datore di lavoro. E’ l’evoluzione del concetto di “ragazza immagine”: una volta eri pagata – e anche piuttosto bene, mi pare - per il tuo aspetto, per la tua gentilezza e per la tua capacità di intortare gli uomini. Oggi, vieni pagata – niente – per volantinare, mentre ragazza immagine lo sei comunque, lo sei a prescindere, lo sei in modo sottinteso.

Le infinite discussioni sulla legittimità di un certo uso del corpo femminile in alcuni contesti, oggi mi sembrano surreali. Il corpo femminile viene usato comunque, esso è il presupposto, spesso, perché una donna lavori, anche quando l’importanza del suo aspetto estetico non viene riconosciuta, anche quando, la bellezza, la si “scrocca”. Questo perché anche la bellezza - il fascino di cui ho già scritto – oggi non vale niente, ma è solo qualcosa senza cui tu, semplicemente, non esisti

venerdì 18 febbraio 2011

La ruota

Tutti conoscono l’articolo 1 della Costituzione e molti, come la sottoscritta, da anni ci ridono su, pensando che si tratti di un rudere vuoto appartenente a tempi passati, un organo vestigiale rimasto a testimoniare un’epoca lontana e un po’ naif. Ma è davvero così? Immagino che la risposta a questa domanda dipenda dalla definizione di “lavoro”.

Prendiamo un altro esempio, meno evidente a chi ha occhi distratti come i miei: l’emblema della Repubblica Italiana. La ruota dentata sullo sfondo, simbolo universale del lavoro, ci dice che il nostro Stato sa molto bene di che si parla. Ma siamo sicuri, noi, di sapere cosa il nostro Stato intende?

Tenendo sempre ben presente le parole di Foucault, è bene tornare al livello “micro”, e in particolare al carissimo Cip, facendo un balzo indietro nel tempo di un paio di settimane.

Mi dirigo al laboratorio suggeritomi al momento dell’iscrizione nelle liste di disoccupazione, realizzato in collaborazione con Almalaurea per aiutare i neolaureati ad inserirsi al meglio nel fatidico mondo del lavoro. Si parlerà di curriculum, mi hanno detto. Scopro immediatamente e con grande disappunto che non si tratta di un incontro pratico, ma di una vera e propria lezione. L’insegnante, un allegro quarantenne dall’abbigliamento molto casual e dalla parlantina esageratamente fluente, si presenta come impiegato per conto di una società di consulenze, la quale ha rapporti esclusivamente con le aziende. Chiede che cosa abbiamo studiato, che tipo di lavoro stiamo cercando e se abbiamo avuto già avuto esperienze lavorative. Io, di fronte al suo atteggiamento così studiatamente friendly, mi chiudo a riccio e spiccico, con grande scazzo, a mala pena due parole. La stragrande maggioranza dei partecipanti al laboratorio è composta di ragazze, più il disoccupato di cui ho accennato nel precedente post, un ragazzo del Dams e un tizio che afferma di studiare come tecnico del suono per il cinema e che ha precisamente l’aspetto dell’assassino seriale.

L’insegnante, percependo la mia indisponibilità al dialogo, mi sorpassa rapidamente e dirige l’attenzione verso la ragazza accanto a me. Lei ha studiato lettere, poi ha seguito un master in imprenditoria dello spettacolo, di cui ora non sa che farsi. “E perché l’hai scelto?”, la incalza lui, con un sorrisino beffardo. Mi sono fatta convincere dal mio professore, dice lei.

Il giro di presentazione prosegue con questo tenore, noi che pronunciamo i nostri titoli di studio con un misto di fatalismo e vergogna, e l’insegnante che ci prende in giro per la stupidità delle nostre scelte, con fare da amicone.

Dobbiamo capire, ci dice, che la nostra laurea è un marchio indelebile, che non possiamo toglierci di dosso a meno di ometterla dal curriculum (cosa che si può sempre fare). Se intendiamo andare in cerca di un lavoro per cui una laurea è necessaria, posto che quella che abbiamo non sarà MAI quella giusta o comunque non sarà sufficiente, tanto vale trovare il modo di venderla al meglio. Attraverso il nostro curriculum, dobbiamo trovare il modo di incuriosire il datore di lavoro (o, più spesso, il selezionatore, figura che però fin qui rimane abbastanza indistinta e in secondo piano), trasmettendogli la nostra passione e la nostra energia. Il neolaureato non ha altra carta che la positività e la voglia di fare della sua giovinezza, che deve però riuscire a coniugare con la rettitudine e la mitezza di cui ogni figura che si trovi su un gradino superiore all’ultimo, ha bisogno per sentirsi rassicurata. Ad esempio, se hai un diploma scientifico ma hai studiato lettere è meglio se non lo scrivi: potrebbero pensare che sei pazza. Stessa cosa per quel che riguarda la provenienza geografica. Non è necessario confessare di essere nati a Napoli o in Calabria, il datore di lavoro preferirà certamente leggere che si abita a Bologna, senza avere altri dettagli.

Alcune persone con cui ho parlato del Cip mi hanno detto che infondo il mondo di cui questi insegnanti ci propongono il ritratto è quello reale. No, rispondo io, è il mondo delle aziende, che non è né universale né sempiterno. A livello micro, lo Stato (perché il Centro per l’Impiego è lo Stato) non fa che materializzare la vittoria delle aziende su tutto il resto della società, vittoria che lo Stato stesso, a un certo punto della sua storia, ha preso per buona e ha deciso di fare propria. Non c’è nulla di imprescindibile in tutto ciò, si è trattato di una scelta le cui origini è possibile rintracciare e indagare storicamente.

Dopo aver rivolto un paio di battutine al ragazzo del Dams (a proposito del fatto che, cupo com’è, di certo non troverà mai nessuno disposto ad assumerlo), l’insegnante si rivolge a noi donne: voi non potete perdere tempo, non potete cazzeggiare, perché, si sa, dopo una certa età i datori di lavoro vi vedono come macchine da figli. E’ ingiusto, ci dice, ma è così.

Ecco che si delinea sempre più chiaramente la risposta alla domanda iniziale, ma la frase che sgombera definitivamente il campo dai dubbi arriva dopo pochi minuti. “Le aziende”, continua l’insegnante, “vi proporranno soprattutto dei tirocini. Me ne sono passati davanti agli occhi di sindacalisti mancati, che dicevano che il tirocinio è lavoro non pagato, quindi sfruttamento. Le aziende, ve l’assicuro, vogliono assumervi, per questo investono in voi il loro tempo con i tirocini. Sono un periodo di prova, durante il quale dovete comportarvi come se guadagnaste duemila euro al mese. Il tirocinio è, a tutti gli effetti, lavoro.

Sottotesto numero uno: il lavoro è qualcosa che prescinde dal salario. Sottotesto numero due: le aziende hanno il diritto sacrosanto di non pagarvi. Sottotesto numero tre: se dopo il tirocinio non venite assunti ( e chiunque abbia anche un solo occhio libero da lenti distorte sa bene che accade assai spesso) evidentemente è colpa vostra. Beh, se il lavoro è questo, l’articolo 1 è in effetti ancora in piedi e ben saldo al timone.

Ma torniamo alla ruota. La caratteristica della ruota è…che gira, e quella sull’emblema della nostra Repubblica ha girato parecchio. Si trova, ad esempio, negli stemmi di PRC, Laos, Vietnam e sulla bandiera dell’Angola (dove si incrocia con un minacciosissimo machete), ma anche nel logo del Rotary Club e di formazioni di cui certamente (quasi) nessuno si sente di condividere l’ideologia, come questa.

E a giudicare da ciò che si ascolta dalle parti dei Centri per l’Impiego italiani, la ruota non si è certo fermata.

giovedì 17 febbraio 2011

Il Perché di questo blog e il Come del potere

Cos’è un Cip? No, non si parla di scoiattoli parlanti, ma di quello che un tempo, con una terminologia assai più ottimistica, veniva chiamato Ufficio di Collocamento. Oggi, in omaggio a tempi nebbiosi come i nostri, il pragmatico ufficio è diventato un Centro capace di evocare immagini di astri e pianeti, e il collocamento – ovvero l’azione del collocare, concetto di per sé già piuttosto disumano – è stato sostituito dall’Impiego, una parola con molte meno responsabilità. Il moderno Centro per l’Impiego, la porta personale dello Stato in quella strana cittadella che è il mondo del lavoro, non promette di collocarti, termine che porta alla mente idee trapassate come l’obiettivo della piena occupazione, ma di agire per il tuo impiego, ovvero a favore di esso. Loro ti danno un aiutino.

Consapevole di tali certezze etimologiche, decido di approfittare del servizio che il Cip della mia città d’adozione offre ai neolaureati: si tratta di un ciclo di laboratori su tematiche come la redazione del curriculum, il colloquio o la comunicazione aziendale. A proposito del primo, traumatico, laboratorio – quello sul curriculum appunto – scriverò in seguito. Ho deciso di aprire questo blog non per sfogare le mie lagnanze, ma per testimoniare, da una parte, delle pratiche di potere che si attivano quando qualcuno bussa alle porte della cittadella del lavoro e, dall’altra, delle resistenze che l’abbattersi di quelle pratiche, loro malgrado, fa emergere. L’esperienza di ieri rappresenta un ottimo esempio di ciò che intendo.

Foucault sosteneva che il potere, per esistere e perpetuarsi, ha bisogno di produrre continuamente i suoi “effetti di verità”, che a loro volta lo riproducono. Il potere, cioè, racconta la propria verità, in modo fluido e ininterrotto, e obbliga tutti noi, se vogliamo afferrare un lembo di potere, ad assumerla e ripeterla per nostro conto. Se riesce in quest’impresa non lo deve tanto ai grandi organismi dove, immaginiamo, esso si coagula, ma ai piccoli e piccolissimi capillari di cui è innervata la società. E’ a questi capillari, continua Foucault, che deve andare la nostra attenzione, poiché sono loro il vero braccio attraverso cui il risultato dei rapporti di forza all’interno di un dato contesto diventa reale e tangibile.

Al Cip siamo una quindicina, tutte donne con meno di trent’anni a parte un disoccupato quarantenne che ha l’aria di essere lì per interesse antropologico – o forse, più banalmente, per noia. Rilevo questo dato mentre sento ancora ronzare nelle orecchie il boato gioioso e combattivo della manifestazione del 13 di febbraio. Percorro con lo sguardo il perimetro del tavolo attorno a cui siamo sedute, trovo alcune facce note e altre di cui non so nulla. Una felpa, una sciarpa indiana, un groviglio di ricci rosso fuoco.

L’insegnante si presenta, è una donna di poco più vecchia di noi, lavora per un’agenzia di selezione e promette di rivelarci tutto ciò che c’è da sapere per la buona riuscita di un colloquio. Ci spiega che, essendo noi carenti quanto a competenze tecniche ed esperienze, ciò su cui dobbiamo investire per fare breccia nel cuore degli innumerevoli responsabili delle risorse umane che ci troveremo davanti è il nostro “fascino”. Mi domando se la stessa affermazione, pronunciata al cospetto di una platea di soli maschi, sarebbe sembrata altrettanto giustificabile e realistica. Fatto sta che nessuna delle ragazze presenti sembra abbozzare una reazione, a parte una: lei abbassa il viso lungo una diagonale meditabonda, chiude gli occhi e sorride con uno strano sarcasmo. Non appena l’insegnante domanda se qualcuna, per rompere il ghiaccio, vuole raccontare le proprie esperienze nei colloqui, si fa avanti. Ha ventotto anni, e le è capitato sia di subire colloqui sia di farli. Nonostante le numerose esperienze, i tirocini e gli stage, a quattro anni dalla laurea non ha ancora un lavoro stabile, ed ha quindi deciso di venire al Cip a farsi dare qualche ulteriore consiglio. Mentre pronuncia queste parole, che ho ascoltato solo pochi giorni fa uscire tremanti dalla gola di donne più giovani, la sua voce è fioca ma ferma, e il suo volto esprime una saggezza triste e buona, che il trucco approfondisce con un’ombra di teatralità.

L’insegnante, tenendo le mani morbidamente allacciate all’altezza del petto, invita le altre a portare la loro testimonianza, e una ragazza robusta con i capelli screziati di arancione inizia a parlare. “Una volta a un colloquio mi hanno chiesto se avessi mai pensato di essere posseduta da uno spirito maligno”, dice, suscitando l’incredulità e le risate di tutte. Racconta una serie di esperienze per lo più spiacevoli, spesso accomunate dal fatto che la sua laurea in biotecnologie rappresentasse una fonte di imbarazzo per i selezionatori. Un’altra ragazza, memore del precedente laboratorio (quello incentrato sul curriculum), le suggerisce di non menzionare il suo titolo di studio quando l’offerta a cui sta rispondendo ne richiede uno inferiore. Dalla mia destra sento provenire una voce con un forte accento slavo: “Togliere la laurea??, dice, evidentemente scandalizzata.

Il laboratorio prosegue, con la sua martellante coerenza aziendalista. Il rapporto di lavoro è a tutti gli effetti un rapporto di vendita, e il colloquio ha la stessa funzione della pubblicità. Bisogna sfruttare il poco tempo a disposizione per fare la miglior impressione possibile e scavalcare, con il fascino e l’astuzia, chi magari avrebbe sulla carta più competenze di noi. Nella realtà che il Cip sbroglia davanti ai nostri occhi, siamo individui soli di fronte alla naturale competizione per il lavoro, attori di un mondo in cui vigono, nella più assoluta imperturbabilità, le leggi del darwinismo sociale. Lo Stato, la nostra pericolante Repubblica, ci istruisce alla verità delle aziende, del precariato rampante, dell’auto-imprenditorialità che assolve gli imprenditori veri.

La ragazza dell’est ormai ridacchia platealmente, mentre la giovane donna dall’aria saggia e ombrosa continua a sorridere a se stessa, come se trovasse nelle parole della selezionatrice un’ironica familiarità. La osservo rapita, intrigata dal desiderio di indovinare i suoi pensieri. Trovo meraviglioso il modo in cui solleva il mento a sostenere le espressioni, un modo placido eppure vibrante, carico di bisogni imponderabili, tanto lontano da quella formalità easy e spigliata, modellata su una tempistica da sit-com, che gli insegnanti del Cip incarnano. Il suo fascino divarica enormi crepe nell’intonaco della verità, perciò la cittadella l’ha gettato fuori dalle mura ogni volta che se l’è ritrovato davanti. Il mondo del lavoro ha bisogno di un fascino diverso, che consoli padroni e clienti e che sia il calco smagliante di rapporti di forza sempre ben delimitati.

Si apre un nuovo capitolo del laboratorio, la fatidica domanda “descrivi i tuoi pregi e i tuoi difetti”. L’insegnante chiede a una ragazza dall’aria scarmigliata quale sarebbe la sua risposta. A una domanda del genere, dice lei infastidita, non saprei rispondere. L’insegnante insiste, ma la ragazza rimane ferma, sempre più arrabbiata. La giovane donna saggia interviene, dice che ogni volta che s’è sentita porre la questione ha risposto di essere una persona sensibile, e che si tratta di un difetto e di un pregio allo stesso tempo. “Il pregio”, dice, “è che la sensibilità mi rende intuitiva”. Io penso immediatamente a ciò che scriveva Elena Gianini Belotti, una delle poche citazioni che riesco a ripetere a memoria: “l’intuito è una qualità difensiva tipica degli oppressi”.

Dopo pochi minuti l’insegnante propone una breve pausa, io e la ragazza dell’est ne approfittiamo per andarcene. Non mi sento per nulla abbattuta, ma anzi sono fiduciosa, orgogliosa delle mie simili. Quanta verità ci vorrà per ammansirle e spegnerle? Non so, forse poca, forse molta. Forse riusciremo prima a farla a pezzi.