martedì 30 agosto 2011

Il cottimo digitale e il leghismo del web. Pensare a cambiare la rete?

La diffusione di internet ha portato alla nascita di narrazioni di tutti i generi a proposito di questa grande rete globale che ci collega tutti. Si va dalle deliranti prospettive della Casaleggio Associati (qui), genitrice di Beppe Grillo e del suo progetto politico, secondo cui in un futuro lontano la rete produrrà un nuovo mondo di progresso dopo che i tre quarti (non bianchi) del pianeta sono stati distrutti dalla guerra, ai moniti di chi sostiene che internet sia uno stumento di Satana (qui). Miti feticistici utili allo scopo di chi li crea.

Quasi nessuno sembra voler considerare il fatto che internet sia, prima di tutto, il prodotto del lavoro di migliaia di persone sparse per il mondo. Se n'è già parlato, qui. Difficilmente la rete viene osservata come spazio economico in cui si dispiegano le iniziative di imprese di ogni genere, che si tratti di motori di ricerca, negozi o vere e proprie industrie dedite alla produzione di contenuti, e di conseguenza dei lavoratori che operano alle dipendenze di queste imprese. Quel punto di vista è prerogativa quasi soltanto dei lavoratori stessi.

E come in ogni ambito, anche i lavoratori della rete non sono certo estranei a logiche corporativistiche, quando non a un vero e proprio leghismo digitale, che se la prende con gli ultimi arrivati e i più disgraziati per il fatto che gli stipendi si abbassano. Su alcuni blog e forum di freelance (vedere ad esempio qui o qui) il discorso che si fa è "c'è gente che lavora sempre per meno soldi, i freelance non devono accettare, non devono abbassarsi", oppure addirittura "questi non sono dei veri professionisti, sono delle prostitute". E se il primo tipo di discorso è comprensibile (il secondo no), certamente manca di uno sguardo d'insieme sul problema e ha il difetto di avallare quella visione individualistica del lavoro che carica completamente sulle spalle del lavoratore la responsabilità delle sue condizioni, lasciandolo da solo a combattere contro un Golia globale in grado di spazzarlo via in un soffio.

A proposito di questo e della terribile piattaforma Freelancer, Dario Banfi descrive in questo modo la situazione: "E’ un’immigrazione lavorativa silenziosa, ma sedentaria, che si muove nel confine del lavoro intellettuale, là dove i territori sono tracciati da saperi condivisi e dunque aperti alla concorrenza dei freelance di tutto il mondo, che riversano nel costo del lavoro quello della vita nel Paese in cui risiedono. E’ una diga aperta, i confini geografici sono rimossi dal protocollo Http, i lavoratori si ritrovano sulla medesima piazza e basta che sappiano parlare un po’ di inglese e usare i tool dei marketplace per entrare in competizione."

Praticamente il sogno divenuto realtà di ogni credente neoliberista (perché il neoliberismo, come dice giustamente Luciano Gallino, non è una teoria economica ma un credo). Mai come nel lavoro digitale si rivela per quello che è - una boiata - la teoria secondo cui il mercato deciderebbe autonomamente il giusto prezzo per ogni cosa.

Fatte le dovute proporzioni, se ad un'azienda va bene che un pallone sia cucito da un bambino in India, il problema non sono certo né quello della qualità del prodotto, né quello di un decadimento del valore e della dignità della professione del cucitore di palloni. Quello che bisogna chiedersi è: che razza di sistema industriale è quello che accetta e realizza l'idea di far produrre i propri palloni ai bambini indiani? In base a quali regole funziona e qual'è il suo obiettivo?

E che razza di sistema industriale è quello che raccatta "principianti, smanettoni e disperati" da tutto il mondo, per fargli mettere insieme merda digitale che ha il solo scopo di far guadagnare a un lontano committente qualche posizione su Google o qualche dollaro grazie alla vendita di spazi pubblicitari?

Vogliamo pensare a cambiarla questa rete?

lunedì 22 agosto 2011

Mai che mi sia venuto in mente di essere più ubriaca di voi

«Certo che c'è la lotta di classe, ma è la nostra classe, quella dei ricchi, che la sta vincendo». Ecco cos'ha detto Warren Buffett, l'uomo più ricco del pianeta fino a tre anni fa ed ora sceso in terza posizione, nel 2006, prima che le banche si facessero regalare centinaia di miliardi di dollari e poi si lanciassero a sbranare i paesi dei loro stessi benefattori, guardacaso indebitatisi troppo. A coloro che, tra lavoratori, disoccupati, precari, pensionati, continuano a fare proprio il mantra di un capitalismo così palesemente osceno -ovvero privatizzazioni, riduzione della spesa, contrazione dei salari, aumento della produttività - e che sostengono la mancanza di concretezza e l'eccesso di ideologia di ogni altra proposta, non si può che rispondere citando De André: "mai che mi sia venuto in mente di essere più ubriaco di voi".

Sì perché la manovra, come spiega Girolamo De Michele nel suo densissimo e utilissimo articolo su Carmilla, la pagheranno i redditi più bassi, mentre alla fettina di popolazione più agiata che dichiara qualcosa al fisco non si domanderà che un obolo di solidarietà, più o meno quanto spenderebbero all'anno in monetine di resto regalate a un mendicante. Nessun tentativo di redistribuzione che riguardi anche le istituzioni che questa crisi l'hanno prodotta, nessuna volontà di riprendere in mano un minimo di controllo su quanto sta accadendo.

Come scrive Luciano Gallino in Finanzcapitalismo, lasciare le cose come stanno significa dare a questi signori "il potere di decidere che cosa produrre nel mondo, con quali mezzi, dove, quando, in che quantità. Il potere di controllare quante persone hanno diritto a un lavoro e quante sono da considerare esuberi; di stabilire in che modo deve essere organizzato il lavoro; quali debbano essere i prezzi degli alimenti di base, di cui ciascun punto percentuale in più o in meno aumenta o diminuisce di una quindicina di milioni, nel mondo, il numero degli affamati; quali malattie sono da curare e quali da trascurare".

Cosa ci vuole per risolvere questa situazione? Prima di tutto una coscienza di classe altrettanto ferrea di quella che hanno i signori come Buffet. Smetterla di fare il tifo per la squadra che gioca contro di noi, guardarci intorno, e vedere che siamo tanti più di loro, che siamo quasi tutti. Come diceva ancora De André, in questa galera a cielo aperto siamo finiti da soli, ora dobbiamo trovare il modo di andare insieme verso l'uscita.


martedì 16 agosto 2011

La produttività e altre leggende metropolitane sulla crisi

In attesa di scoprire come si profilerà in via un po’ più definitiva la manovra sparatutto dell’asse BCE-Tremonti, sono in molti ad invocare la necessità dell’austerity, anche tra le fila di un elettorato di sinistra che mai come ora sembra sperduto e priva di ogni bussola. Non parlo di coloro che si riconoscono nel PD, che ha scritto neoliberista sul suo certificato di nascita, quanto di tutti quelli che sono passati direttamente dall’entusiasmo per il referendum e i risultati delle ultime amministrative, all’odio cieco per la casta berlusconiana, percepita come lassista e incapace di fare fronte alle ragionevoli richieste di Bruxelles. Italiani spendaccioni, Italiani ladri, guarda invece i Tedeschi (dai quali proprio ieri, invece, è giunta una nuova batosta alle borse ). Sul fatto che il problema rientri nel campo gravitazionale di ben altri centri rispetto ai nostri miseri campanili, penso di essermi, da ignorante, già espressa.

Come già detto, la mia ignoranza delle questioni economiche è pressoché totale, quindi è probabile che prenda degli abbagli, tuttavia oggi voglio dire qualcosa sul concetto di produttività. Sì, perché questa strana parolina sembra essere l’anello magico che tiene insieme i due concetti di “pareggiamento dei conti” e “crescita economica”. Grazie all’aumento della produttività, almeno a sentire gente come Mario Draghi, sarebbe possibile far crescere il PIL spendendo meno, e anzi persino pagando i debiti. Produttività è l’abracadabra che schiude questa fantastica porticina, quella che nessuno fin’ora è riuscito ad aprire. Ma è ovvio: Draghi è a capo di una banca, lui è uno che lavora, che ha studiato, mica come questi mafiosi che ci troviamo al potere, che vuoi che ne sappiano di economia.

Come dire che se in una famiglia ci sono tre redditi – una pensione, uno stipendio della pubblica amministrazione e un reddito derivante da una piccola attività commerciale – e se ne riducono due, la famiglia non solo resta in piedi, ma riesce pure a pagare in anticipo le rate della macchina e il mutuo. Può riuscirci in un solo modo, cioè smettendo di mangiare.

La produttività in campo economico è il rapporto tra gli output (ciò che viene prodotto) e gli input (ciò che occorre per produrre). Per quanto riguarda la produttività del lavoro il rapporto è tra ciò che viene prodotto e le ore di lavoro necessarie per produrlo. Tra le variabili di questo calcolo rientrano ovviamente a monte i trasporti, i macchinari utilizzati in un'azienda, la qualità delle materie prime e via dicendo, ma vi sono anche le pause concesse ai lavoratori, i giorni di vacanza e i ritmi di lavoro.

In un mondo allo stremo come il nostro, con poche chance di ulteriore sfruttamento delle risorse, impossibilità di rendere i trasporti significativamente più rapidi e meno costosi e consumi fermi, quando non in calo, dove si andrà a pescare per aumentare la produttività? In un mercato intasato di beni a basso costo, produttività dalle nostre parti non significa di certo aumentare l’output, cioè la produzione in senso stretto. Per quanto spesso lo paventino, gli industriali alla Marchionne non hanno alcuna intenzione di competere con i Cinesi e gli Indiani su questo. Aumentare la produttività significa, semmai, risparmiare sull’input.

Ed ecco allora che ci si scaglia contro i contratti nazionali, contro il pubblico impiego e contro lo statuto dei lavoratori. Il tutto dietro il paravento di questa parolina dall’aura così positiva. Ridurre i costi per mantenere alto il valore dell’azienda nel mercato azionario, perché un buon indice di produttività è sinonimo di solidità economica e di sbriluccicante, gloriosa, santa crescita. E chi se ne importa se dietro questo make up così fasullo si nasconde la sofferenza sociale, le azioni avranno un bel segno più. Comprese quelle del nostro scalcinato paese.

Come hanno scritto i Wu Ming su Giap, questo non è un modo per sistemare i conti, ma per regolare i conti, per regolarli contro tutto ciò che è rimasto delle conquiste nate dalle lotte nel mondo del lavoro. Lo statuto dei lavoratori? E’ delegato. Il contratto nazionale? Un relitto che i posteri ritroveranno un giorno scavando sul fondo nel mare.

Il tutto mentre tanti salutano con le lacrime agli occhi, dalla nostra barca, l’arrivo del transatlantico della BCE, ignari del fatto che ci speronerà per farci colare a picco.


Per un approfondimento e una definizione meno erosa della mia sul concetto di produttività, potete vedere qui.