lunedì 21 maggio 2012

La domenica delle faglie

La domenica delle Salme (qui audio, qui contributi per l'interpretazione) è una delle canzoni più potenti del tandem De Andrè-Pagani, un brano che ha la capacità di ritrarre con poche pennellate il momento cruciale del passaggio al sistema unico, in cui il crollo del muro seppellisce anche il sogno di un mondo diverso.

E' brutto parlare di muri crollati proprio oggi, eppure questa canzone mi è ronzata in testa per tutta la giornata di ieri. Sarà che anche ieri era una domenica, sarà che è stata certamente una delle domeniche peggiori di tutta la mia vita, sarà anche stata la mancanza di sonno dovuta al brusco risveglio e alle successive paranoie, sarà che gli indizi sulla trama di una nuova "pace terrificante" si sono fatti consistenti. Oggi la pancia dei trafficanti di saponette non punta a est, non ne ha più bisogno. Le basta starsene ferma nei luoghi in cui si contrattano i piani di salvataggio - più o meno palesemente inutili - e in cui si discute dell'inevitabile contrappasso da scontare in cambio dell'onore di essere salvati.

E per quanto riguarda il gas esilerante, devo dire che ne ho annusato abbastanza ieri sera, quando tutta Bologna, nonostante le sofferenze terribili patite a pochi chilometri, si è radunata davanti alla partita in attesa dell'immancabile pizza e della fantozziana Peroni. Tanto da costringere i miei colleghi a sfrecciare per tutta la sera sotto il diluvio, e da punzecchiarli persino con continue telefonate di sollecito per il ritardo. La nottata in bianco - vissuta tra attacchi di panico e dolori al petto anche dagli invisibili lavoratori della ristorazione da asporto - semplicemente dimenticata. Un tempo c'era chi entrava in sciopero alla morte di Jimi Hendrix, oggi non si concepisce nemmeno di astenersi dal costringere il prossimo a sgobbare sotto la pioggia battente dopo una giornata terribile per tutti. Quando nello scorso post citavo i tempi orrendi, parlavo proprio di questo. Quei tempi orrendi di cui De Andrè aveva descritto il trionfo, non hanno perso in più di vent'anni un grammo del loro squallore, ma il gas esilerante si è fatto vecchio, viziato, stantio, e il suo odore stagnante è ormai percepibile anche a chi si ostina a negarlo.

Io non credo nelle avanguardie. O meglio, non credo nel determinismo che le vorrebbe l'unico fattore veramente indispensabile, l'unico indispensabile ora. Non credo nell'ecosistema di strutture (più o meno esplicitamente tali, più o meno libertarie) che interagiscono tra loro secondo un plot di riflessi pavloviani, che è lo stesso da decenni. Penso che sia l'idea di sinistra a mancare, l'ambizione all'uguaglianza. Viviamo nell'epoca meno ambiziosa nell'intera storia del movimento dei lavoratori e di quello degli studenti. Essere ambiziosi significa elevarsi al di sopra dei piccoli piaceri serali, non accontentarsi delle briciole di gioia che individualmente - sempre individualmente - ci possiamo permettere. E' questa ambizione che le piazze spagnole così come quelle americane - per non dire poi di quelle arabe - sono state capaci di evocare là dove si sono radicate. E non ce l'hanno fatta per un vantaggio antropologico, ma perché hanno avuto il coraggio di riportare in piazza quello che nella canzone di De Andrè non è più che un feretro, e perché l'hanno coltivato nella terra vera, quella delle città e dei paesi, da cui era stato estirpato. Non sono tanto naif da pensare che basti una tendopoli di gente presa bene per ribaltare un sistema, ma è di certo che quella tendopoli sta chilometri davanti a noi.

E mentre i lavoratori muoiono schiacciati dalle fabbriche pericolanti in cui erano costretti a lavorare, nessuno chiama in causa l'imprenditoria italiana e nessuno si azzarda ad andare oltre le "fermate simboliche".

venerdì 11 maggio 2012

Non si teme il proprio tempo

"Non si teme il proprio tempo, è un problema di spazio", salmodiava G.L.F ai tempi dei CSI, in un brano ispirato ai racconti barbari di Beppe Fenoglio. Uno di essi si chiama Gli inizi del partigiano Raoul, e descrive la prima notte da partigiano di un ragazzo spinto alla guerra da uno slancio ideale, dalla necessità di fare la cosa giusta, il quale però vacilla di fronte ai compagni, al loro essere "selvaggi", rissosi, eterogenei, abbruttiti. Il contrario dell'immagine che il ragazzo aveva della guerra partigiana, come qualcosa di nobile e puro, condotta dal volontarismo dei più coraggiosi contro l'ignavia degli altri. E' proprio sull'idea del soldato volontario che la mitologia dei martiri si fonda ovunque, dall'Iran dei Basij alla Germania nazista.

Ma la scelta di quei partigiani non era quella tra la nobiltà e l'infamia, ma tra tenersi il fascismo o combatterlo. Per molti, per quelli che si trovavano troppo lontani da casa e la cui unica speranza era che la linea del fronte continuasse a salire per poterla finalmente passare, non era neanche una scelta. E non erano nemmeno belli, perché i tempi non lo erano. Erano tempi di carneficine, di freddo, di fame, in cui si cresceva nelle scuole fasciste e i grandi romanzi, la poesia, la storia erano un privilegio di pochi. Si era brutti, perché erano tempi brutti, ma nonostante questo si era capaci di scegliersi una parte, di combattere e di vincere per essa.

Anche noi non siamo belli, per nulla. Siamo litigiosi, egoisti, narcisisti, boriosi, arroganti, stupidi, pretenziosi, viziati, frantumati, individualisti, illusi. Lo siamo perché i tempi sono così, perché siamo cresciuti nel disfacimento, nell'abbaglio e nella vanità, convinti che il mondo fosse un posto fatto di meriti e demeriti, di talenti, di karma, di occhi capaci di riconoscere la nostra bellezza e di elevarci al di sopra della mediocrità, al di sopra dei nostri simili. Ma le persone belle invece se ne vanno, come se ne sono andati gli anni che le hanno fatte fiorire, e rimaniamo sempre più soli, più cupi, più incapaci di agire.

Eppure toccherà anche a noi sceglierci una parte e combattere per essa, e le scelte saranno - sono già - solo due: vivere in un mondo sempre più misero (più povero, più ignorante, più malato, più crudele, più debole) oppure resistere. Resistere come hanno fatto loro, per conservare quanto di buono ancora abbiamo e per prenderci il resto, per uscire dalla barbarie in cui siamo cresciuti. Non siamo nobili, non siamo buoni, non siamo i vecchi che si sacrificano o i giovani vittime innocenti dell'ingordigia di altri. Siamo barbari anche noi, e resisteremo da barbari magari, però dobbiamo resistere.Guardandoci negli occhi, smettendola di crederci intitolati a un futuro che ci renderà merito, smettendola di crederci migliori di quello che siamo e di credere questa barbarie migliore di quello che è. Conservando i nostri libri, il ricordo delle lotte, costruendo luoghi in cui si ricordi e si apprenda. Tocca a noi farlo.

A proposito di resistenze, qui c'è un appello per creare un archivio online su Stefano Tassinari.

martedì 1 maggio 2012

Lasciare il lavoro

In questi giorni di primissimi caldi, i miei vicini di casa cenano con le porte del terrazzo spalancate, fumano seduti nell'aria dolce di maggio rivolti alle tegole della città ancora tenere sotto il sole. Fra qualche settimana il cielo bianco si schiaccerà sui tetti, livellandone la superficie come quella di una pianura desertica, frantumerà il ruvido del fianco rosso delle tegole fino a saldarlo a quello della tegola accanto, in un'unica tavola ondulata di materiale cotto, pietrificato dal sole.

Per me la stagione che avanza è l'avvicinarsi di una parete verticale di roccia, di qualcosa che non credo di avere la forza di affrontare. Nel locale in cui lavoro il caldo è già così soffocante e i ritmi così frenetici che a volte sento il cuore premermi contro il petto, grande e rigido come l'ansa di una radice misteriosamente ripiegatasi dentro il mio sterno. I miei colleghi sono sempre più magri perché, incredibile a dirsi, in cambio di 10-12 ore di lavoro non ottengono altro cibo che un piatto di pasta a pranzo e un terzo di pizza a cena, mangiati in piedi, tra la fine delle pulizie e i conti delle consegne. Io li disprezzo sotto sotto, disprezzo il loro sacrificio cieco, il loro gettarsi a peso morto sul pavimento sporco della cucina, sul bollitore giallo di amido, sui lavandini unti. Trovo stupida la loro allegria, mi sembra che ci sia della colpa in essa, come se fosse un peccato morale regalare anche solo un sorriso a un lavoro da schiavi.

Quello che guadagno è talmente poco che basta a malapena per pagare l'affitto e le spese di casa. Per il cibo e per qualunque altra cosa devo contare sui lavoretti che mi arrivano attraverso i misteriosi canali di internet. Eppure sono felice ogni volta che il capo mi lascia a spasso per un giorno senza preavviso, anche se significherà intaccare i risparmi. Dovrei tenermi stretto il lavoro, sento dire da voci ben più forti e vive di quella della mia stanca coscienza, perché tanto fa schifo ovunque e la disoccupazione è peggio. Ma questo non è lavoro, rispondo io. Non posso dargli questo nome. E' qualcosa che va distrutto, sbriciolato e seppellito sotto terra. E' una calamita che oltre che incollare i pezzi a sé, li rende pavidi, malaticci, anemici. Toglie loro il sangue e l'aria fresca e la polpa dalle guance e dai fianchi, facendoli raggrinzire come quelli dei vecchi.

Io lavoro poco, e il mio corpo non si è rinsecchito come quello dei miei colleghi. Anzi, si è fatto più forte e robusto, migliore direi nel suo complesso. E forse per questo provo disprezzo nei loro confronti, è il disprezzo di chi non ha alcun merito e cerca un sentimento qualunque per tenersi a distanza dalla sfortuna altrui, dall'orlo della sfortuna su cui in realtà cammina. Ma non è solo questo. E' anche la loro squallida sudditanza di maschi avvezzi alla gerarchia, la loro paura del potere. La loro aria colpevole quando vengono rimproverati, la loro innocuità.

Cosa farai quando sarai senza lavoro? Dovrai ricominciare tutto da capo e sarà anche peggio dell'ultima volta, perché sarai di un anno più vecchia e di un anno più sprofondata nella recessione, nella crisi che smantella l'economia, nella mancanza di una soluzione. Sì, vero, niente da eccepire.