mercoledì 31 ottobre 2012

L'assassinio di Anteo Zamboni

Oggi, 86 anni fa, Anteo Zamboni veniva assassinato. Su questo bambino morto a Bologna nei primi anni del fascismo si sa molto poco. Si sa come è morto, ma non si sa perché. Si sa moltissimo di suo padre, delle sue conoscenze potenti, della Bologna di allora e si sa qualcosa persino sugli intrighi più neri nel nero dei battibecchi familiari tra il fascismo agrario padano - tutto muscoli e omicidi - e quello "normalizzatore" delle istituzioni. Ma di lui non si sa quasi nulla, e questo perché Anteo era, appunto, un bambino, un essere umano che ancora non aveva avuto tempo di lasciare una grande traccia di sé.

Nel bellissimo saggio "Attentato al Duce", Brunella della Casa, dell'ISREBO, ricostruisce quanto avvenuto attorno e durante l'attentato per cui Anteo è stato incolpato e istantaneamente ucciso, fornendo anche interessanti ipotesi sulla vera matrice di quell'evento e sul braccio che effettivamente sparò. Ipotesi che cercano di rendere giustizia a una vita stroncata a 15 anni, la vita di un adolescente che non era neanche ancora un ragazzo, che nel giorno della sua morte andò alla parata a vedere il Duce con le spille arrugginite di una vecchia squadra di calcio, trovate nel giardino di casa, appuntate sulla camicia nera da balilla. Assai poco probabilmente un anarchico, molto più probabilmente un bambino.

A quattro anni dalla Marcia su Roma Mussolini aveva deciso di celebrare l'anniversario di un evento tanto importante a Bologna, uno dei luoghi che meglio rappresentavano la sconfitta delle lotte operaie e bracciantili da parte del fascismo e città del quasi podestà Arpinati (venne nominato un paio di mesi dopo), esempio dello squadrismo che sapeva farsi istituzione. I festeggiamenti avvennero in una città passata al pettine della repressione, in cui si era provveduto a incarcerare preventivamente tutti coloro che erano ritenuti in odore di antifascismo. Circa duemila persone. Il Duce aveva seguito un rigido programma di inaugurazioni, ricevimenti, cene, sfilate a cavallo e la sera di quel 31 ottobre si avviava verso la stazione, tra due ali di folla che lo ammiravano mentre imboccava via Indipendenza sull'auto scoperta.

Nell'arco dei 12 mesi precedenti, Mussolini era sopravvissuto a quattro attentati. Erano oltre 3000 i miliziani mobilitati in città per presiedere ad ogni sua apparizione, insieme a migliaia di uomini tra soldati, carabinieri e membri del servizio d'ordine del partito. In quei giorni, gli squadristi portavano in giro per Bologna un manichino impiccato sovrastato dai nomi dei tre attentatori e dell'attentatrice che fino ad allora avevano cercato di uccidere il Duce: Zaniboni, Cappello, Gibson, Lucetti. Le voci che parlavano di un nuovo attentato in preparazione in città erano infatti molte.

Per colpa di uno sparo

All'angolo di via Rizzoli, mentre l'auto rallenta, un colpo di pistola attraversa il bavero della giacca del Duce, scava la stoffa della fascia che porta al petto e fa entrare la luce nel cilindro del sindaco Puppini, al suo fianco sul sedile. Mussolini è voltato nella direzione da cui arriva il colpo e vede distintamente il suo attentatore, che ha superato il cordone di sicurezza che tiene a distanza la folla. Lo descriverà come un uomo ben diverso da Zamboni, il quale invece, in pochi secondi, viene afferrato e accoltellato dagli squadristi per poi essere lasciato già morto in pasto alla folla, che gli rompe i denti, lo morde, lo colpisce, lo strangola.

Nei giorni seguenti, Pio XI dichiara che è ormai evidente la protezione accordata da Dio al Duce. Decine di messe, celebrate da vescovi e cardinali, risuonano nelle basiliche per ringraziare l'Onnipotente della grazia concessa a Mussolini. Neanche una parola viene spesa per Anteo. Di lui, in effetti, quasi nulla giunge al pubblico. La pubblicazione di tutti i giornali di opposizione viene sospesa. Non si deve sapere nulla delle rappresaglie che i fascisti stanno compiendo in tutto il paese e che vanno avanti per giorni fino a quando non è Mussolini stesso a fermare il pogrom. Per difendersi da una di quelle rappresaglie, Emilio Lussu uccide un fascista e verrà condannato al confino a Lipari, da cui poi fuggirà.

Vengono sospesi tutti i passaporti e sono sciolti tutti i partiti, le associazioni e le organizzazioni che si oppongono al fascismo. Viene istituito il Tribunale per la Difesa dello Stato, che applica il codice militare di guerra. E' dichiarato decaduto il mandato di tutti i deputati aventiniani, compresi quelli che, come i comunisti, erano ritornati in Parlamento. Gramsci è arrestato.

Anteo

Nel frattempo a Bologna tutta la famiglia di Anteo fino al secondo grado di parentela viene messa in carcere. Il padre è un ex anarchico da tempo convertito al fascismo, che ha fatto lo stesso percorso di Arpinati e che per questo lo conosce bene. E' convinto di poter essere scagionato in tempi brevi insieme a tutta la sua famiglia grazie all'intervento dell'amico potente. Ma non si può pensare che ad attentare alla vita del Duce sia stato un ragazzino di 15 anni, peraltro, a sentire chi lo conosce, nemmeno molto sveglio. Si da la colpa alla famiglia, nonostante non ci sia alcuna prova di un suo coinvolgimento e un magistrato provi anche a farlo notare. Il padre e la zia di Anteo vengono condannati a 30 anni di prigione. La giustizia fascista si accanisce particolarmente contro Virginia, la zia, che poteva vantare un passato politico assai meno compromettente di quello del padre ma che era una donna nubile, forte, oggetto di maldicenze di ogni genere.

E' un nemico troppo bambino Anteo. Non abbastanza da essere risparmiato dai pugnali, ma troppo per attribuirgli per intero la grandezza di un gesto omicida nei confronti del Duce. Non vengono nemmeno rese pubbliche le sue fotografie, per non mostrare, accanto agli elogi della giustizia sommaria e della repressione politica, un volto che ancora non accenna all'età adulta.

Le indagini condussero a stabilire la presenza, sul luogo dell'attentato, dell'ardito lombardo Albino Volpi, fascista particolarmente sanguinario che fu tra gli esecutori materiali dell'omicidio di Matteotti. Molte testimonianze sostenevano che fosse stato proprio lui a pugnalare per primo Zamboni, per poi defilarsi. Si iniziò a parlare esplicitamente di complotto interno al fascismo, un complotto che faceva capo a Farinacci, che aveva come braccia gli arditi milanesi e come capro espiatorio Anteo, non si sa se coinvolto per puro caso o se invece convinto a partecipare. Le indagini furono bloccate direttamente dal vertice dello stato. Del resto, il regime aveva avuto enormi vantaggi dall'attentato ed era giunta l'ora di fare la pace con quei camerati turbolenti che in fondo nessun danno avevano fatto al fascismo, ma solo bene.

In occasione del decimo anniversario della Marcia su Roma, Virginia e Mammolo chiesero la grazia e questa volta Arpinati prese le loro difese, riuscendo a convincere Mussolini. Subito la famiglia Zamboni iniziò ad adoperarsi per dare ad Anteo una sepoltura che finalmente ne riabilitasse la memoria. Fino ad allora infatti il corpo del ragazzo era rimasto in un terreno sconsacrato fuori dalle mura della Certosa di Bologna. Ma si dovette attendere la liberazione perché fosse deciso di spostare i suoi resti. E con essi si spostò anche la memoria. Anteo non era più la vittima innocente che i familiari avevano sempre descritto, ma divenne un partigiano, il primo partigiano di Bologna, membro di quella che Togliatti definì la "Resistenza silenziosa". Così è ricordato sulla targa che si trova affissa su Palazzo d'Accursio.

Ben pochi furono, tuttavia, coloro che furono disposti ad accogliere tra le loro fila la figura ambigua di Anteo, anche fra gli anarchici. Tra gli antifascisti, prevalse sempre l'idea di un ragazzo trovatosi in mezzo a giochi troppo grandi, spazzato via con pochi colpi di coltello in nome di necessità maggiori, legate o alle ragioni del regime (in caso si sostenga l'ipotesi di un falso attentato, architettato per mettere finalmente al bando l'opposizione) o a quelle di una sua dissidenza interna (e in questo caso l'attentato è vero). Solo in tempi più recenti si è iniziato a concepire la possibilità di un giovane uomo pienamente padrone del suo gesto, compiuto in fedeltà a un ideale politico o al contrario in ribellione contro la famiglia e alla ricerca di un'affermazione di sé.

Di certo c'è il fatto che di Anteo Zamboni, assassinato ancora bambino dai fascisti, non rimangono parole, né quasi ricordi. Niente oltre a qualche quaderno di scuola e a una manciata di fotografie, la maggior parte delle quali lo ritraggono già morto*. E che qualunque parola verrà detta su di lui, non sarà mai sua.



*potete trovarle con una velocissima ricerca in rete, ma se siete impressionabili ve le sconsiglio

venerdì 26 ottobre 2012

Prendere atto

Il disoccupato accanto a me è uno che le ha provate davvero tutte. Ogni pista di questa valle desertificata lui l'ha percorsa, più e più volte, medicando il fatalismo lungo la strada come se fosse una caviglia dolorante.

Mi dice: "Bisogna prendere atto che questa insicurezza, questa instancabile indecisione, è uno dei modi con cui ci annichiliscono e ci impediscono di agire. Ci siamo fatti convincere di essere prima di tutto individui, e quindi portatori di diritti inalienabili che ci rendono tutti uguali e allo stesso tempo legittimati ad avere ciò che meritiamo, che è sempre più degli altri. In realtà non siamo per nulla tutti uguali, c'è chi nasce col culo parato e chi no, e così i diritti rimangono formule scritte su un foglio di carta. E nella quasi totalità dei casi nemmeno abbiamo alcuna qualità che ci permetterebbe di salire con qualche ragione sul carro che tanto sogniamo, perché non capiamo nulla di nulla e vivacchiamo nella più ingiustificabile illusione.

"Quella stessa illusione che ci fa maledire l'ingiustizia ogni volta che non ci sentiamo al centro del mondo, che ci fa costruire club pieni di parole d'ordine anche quando ci proclamiamo liberi e libertari; oppure che ci conduce in un isolamento appestato di amarezza, perché nessuno sa capirci e quindi nessuno ci merita; oppure ancora che ci fa sentire inadatti, sempre, come se le sorti di una battaglia dipendessero dalla nostra eloquenza.

"La politica non è qualcosa che si fa con lo spirito di chi vorrebbe allungarsi in ciabatte in ogni angolo del mondo, come se fosse a casa propria. Non adesso. Adesso la si fa con le scarpe robuste e con la paura del futuro negli occhi, accesa come una lanterna.

"Sei rimasta delusa e ora non sai a che santo votarti. Ma è solo perché ti eri illusa che qualcosa fosse davvero sbocciato al di fuori di quella calce avvelenata da cui tu stessa provieni e dalla quale pensavi di esserti allontanata. Non c'è niente al di fuori di quello, niente che non abbia una natura inquinata, infiltrata dal mormorio incessante del capitale, da quella voce che ti vuole sempre diverso e migliore, mai sorella o fratello ma al massimo capace di fraternità.

"Non c'è niente, nemmeno l'idea migliore, che non abbia anche un lato meschino, avido, egoista. L'essere umano cresce piantato nell'ignoranza e nel pregiudizio, e da quel genere di letame non nascono certo generose piante da frutto, con le braccia robuste parallele al terreno. Gli orti de Il ventre di Parigi, che accoglievano la merda della città rastrellata agli angoli dei mercati per trasformarla in cibo fresco e pulito, non esistono da nessuna parte.

"Quello che esiste è invece una truppa con le armi spuntate e la sbornia della barbarie sempre nel sangue. E' questo il nostro tempo, è questo che siamo, e tu non riesci a ricordartelo".

lunedì 22 ottobre 2012

WWWomen

La rete è quel luogo straordinario in cui anche le teorie più bislacche possono trovare sostegno in un blog del Fatto Quotidiano. Giampaolo Colletti appartiene proprio a quella squadra di blogger, ed ha un'idea a dir poco fantasiosa che riguarda le donne e la rete stessa. A volte verrebbe da credere a quanti, tipo Casaleggio, sono posseduti dall'immagine di un world wide web dotato di una propria volontà e di una vanità da divo dell'infotainment, dato che si ottiene tanto più spazio quanto più gli si liscia il pelo. La realtà è che parlare in modo acritico e superficiale della rete in rete equivale, esattamente come accade in televisione, a raggiungere il punto zero dei contenuti, il nulla assoluto, che è proprio il risultato che molte imprese digitali, come ad esempio quelle per cui lavoro, si pongono. Pare infatti che i link sponsorizzati si incollino alla perfezione attorno ai testi che non parlano di nulla.

Tornando al Fatto Quotidiano e a Colletti, mi sono imbattuta in un post che, data la mia posizione lavorativa di picchiatrice di tasti sul web, non poteva non incuriosirmi: "Donne più disoccupate degli uomini, non in Rete".  Qui si sostiene che nella crisi le donne se la cavano di gran lunga meglio degli uomini, poiché il loro tasso di occupazione nei primi due semestri del 2012 è aumentato del 1,3%. L'autore tralascia di citare il fatto che l'Italia è agli ultimi posti in Europa (con l'unica eccezione di Malta) per occupazione femminile, che le donne in età lavorativa che effettivamente lavorano nel nostro paese sono meno del 50% e che l'Italia ha ancora un primato europeo, quello della maggiore differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile. Dettagli. La crisi è un momento d'oro per le donne, che a causa di qualche misterioso incantesimo finiscono per trovare lavoro in un momento in cui il lavoro non c'è.

L'incantesimo, secondo Colletti, è la creatività delle donne, il loro istinto di startupper nate, la loro capacità di creare prodotti carini e sfiziosi. A riprova di ciò, cita il caso del sito culinario Giallo Zafferano. Ah che meraviglia queste donne che inventano, creano, si adattano alla nuova congiuntura economica di disgrazia. Mica come gli uomini, che rimangono aggrappati all'idea del posto fisso. E' la narrazione del governo tecnico, che magnifica le gioie del lavoro iper precarizzato perché è moderno, dinamico, giovane. Persino donna. Eccolo il nuovo che avanza.

Ed è proprio questa infatti l'ossessione di Colletti, il quale ha avuto la pensata di fondare un progetto di studio e un sito, WWWorkers,  per parlare dei lavoratori e delle lavoratrici (soprattutto delle lavoratrici, dice lui) che decidono di liberarsi di quella noia mortale che è il posto fisso per imprenditorializzarsi e seguire le loro passioni. Lui lo dice davvero! Sì vabbé, qualcuno magari è anche co.co.pro, però la maggior parte sono di sicuro lavoratori a tempo indeterminato, che si sono liberati della schiavitù delle quaranta ore, delle tredicesime e delle quattordicesime, dei congedi familiari e di tutte le altre tutele, per abbracciare l'ignoto. E' questo lo spirito giusto per uscire vivi dalla crisi. Si salveranno gli ottimisti e gli avventurosi, e alla fine sarà un mondo migliore.

La prova di questa tendenza e del fatto che le donne sono in prima fila nel cambiamento, sta nel fatto che le lavoratrici autonome qui da noi sono il 16% del totale, contro una media europea del 10%. Qui il termine "autonome" sembra proprio andare a braccetto con l'emancipazione delle donne, laddove emanciparsi vuol dire lavorare in proprio. Nessuna lampadina che si accende quando il dato sulle lavoratrici autonome italiane viene messo a confronto con quello degli stipendi medi nel nostro paese, che sono i più bassi d'Europa per tutti, ma che per le donne sono il 20% in meno di quelli degli uomini. Nemmeno nominata la Partita IVA, che è il titolo meno romantico delle lavoratrici e dei lavoratori autonomi, una formula che ormai anche nel mainstream non evoca di certo più la libertà e la realizzazione di sé.

Tuttavia, Colletti continua ad osservare dalla sua finestra la brulicante vita della rete, con il sorriso sulle labbra, lieto di scaldarsi il cuore con la certezza che quel fermento vitale, finalmente, stia conducendo le donne all'emancipazione.

martedì 16 ottobre 2012

My way

Di recente mi sono ritrovata a pormi qualche domanda su questo blog. E dalle domande sul blog sono arrivata in un battito di ciglia ad altre domande, immense e schiaccianti. Sì perché in origine questo progetto voleva realizzare una specie di minuscola operazione di debunking sul mondo del lavoro, a partire dalle mie esperienze personali, cercando di rendere esplicite la violenza e la discriminazione con cui la logica di quel mercato agisce, in particolare sulle lavoratrici.

Solo che io da quel mercato ora sono uscita. O meglio, sono rimasta, ma nascondendomi, facendomi piccola piccola, guadagnando (forse) quello che mi basta per campare interagendo il meno possibile con le sue dinamiche. I capi si trovano lontano, non li ho mai visti. Il mio reddito è appeso a una manciata di indirizzi e-mail. Lavoro da casa, attaccata al computer. Guardo dalla finestra un cortile su cui di giorno si affacciano solo pensionati e studenti. Io non sono nessuno dei due, e anche là dove si trovano tutti gli altri, io non ci sono.

Il futuro è un elenco di voci appuntate dove capita: sull'agenda, sul calendario, nella casella di posta, a volte persino scritte sul dorso di una mano. Le cancello di giorno in giorno, e ogni voce cancellata è un mattoncino del mio prossimo mese. E' tutto qui. Sono una disoccupata con un reddito e un impegno quotidiano al computer. Il mio lavoro non significa nulla, è tempo nascosto alla vista, che serve solo all'assurdo proposito di farmi superare una crisi economica di cui nessuno può prevedere gli esiti e nella quale io, intanto, invecchio.

Penso che tutto sommato non sia poi così strano quello che mi capita. Nel 1973, quando Tina Anselmi fece rientrare il lavoro a domicilio nei contratti nazionali di categoria, erano un milione le donne (perché si trattava praticamente solo di donne) che lavoravano da casa. Producevano di tutto: dai circuiti elettronici ai maglioni. Oggi non è molto diverso. Noi lavoratrici e lavoratori a domicilio del terzo millennio assembliamo testi della più varia natura, dalle traduzioni scientifiche agli articoli di promozione turistica. Siamo pagati a cottimo, proprio come in fabbrica. Noi non rischiamo di ritrovarci con le dita mozzate e a fine giornata non abbiamo le braccia distrutte e gli abiti lerci. Allora diciamo di essere freelance, aggrappandoci a un treno che sfreccia lucido nel presente e che dovrebbe in teoria essere pieno di giornalisti gira mondo, professionisti strapagati del marketing, creativi digitali. In realtà però su quel treno ci siamo quasi solo solo noi. E il bello è che in moltissimi casi quello che produciamo, con la nostra fulgida mente di laureati, dura meno di un maglione. Se siamo fortunati, un paio d'anni.

E' un lavoro da imboscati, che ci toglie dalle code davanti alle agenzie interinali come un tempo si sfuggiva alla leva obbligatoria. Nascondersi come unica soluzione nei confronti di un destino di disoccupazione. E quando ci si nasconde, è ben poco quello che si può fare. Sono pochi i compagni che riusciamo a vedere, e meno ancora quelli con cui ci troviamo a portata di voce. E' questa la posizione in cui mi trovo. E un po' me la sono persino scelta, per vigliaccheria e perché non ne potevo più. Ero stanca di sentirmi dire che sono troppo vecchia, troppo bassa, troppo scolarizzata, troppo inesperta. Non ne potevo più di sentirmi affibbiare mancanze che in realtà sono quelle di un intero sistema economico. Ma come si può scrivere da un nascondiglio? Si può? Io ci proverò, quando avrò il tempo, le energie, le idee. E se quello che verrà fuori apparirà pallido e mezzo asfissiato, come se fosse appena sbucato fuori da un cunicolo scavato nel terreno, beh perdonatemi.