venerdì 18 febbraio 2011

La ruota

Tutti conoscono l’articolo 1 della Costituzione e molti, come la sottoscritta, da anni ci ridono su, pensando che si tratti di un rudere vuoto appartenente a tempi passati, un organo vestigiale rimasto a testimoniare un’epoca lontana e un po’ naif. Ma è davvero così? Immagino che la risposta a questa domanda dipenda dalla definizione di “lavoro”.

Prendiamo un altro esempio, meno evidente a chi ha occhi distratti come i miei: l’emblema della Repubblica Italiana. La ruota dentata sullo sfondo, simbolo universale del lavoro, ci dice che il nostro Stato sa molto bene di che si parla. Ma siamo sicuri, noi, di sapere cosa il nostro Stato intende?

Tenendo sempre ben presente le parole di Foucault, è bene tornare al livello “micro”, e in particolare al carissimo Cip, facendo un balzo indietro nel tempo di un paio di settimane.

Mi dirigo al laboratorio suggeritomi al momento dell’iscrizione nelle liste di disoccupazione, realizzato in collaborazione con Almalaurea per aiutare i neolaureati ad inserirsi al meglio nel fatidico mondo del lavoro. Si parlerà di curriculum, mi hanno detto. Scopro immediatamente e con grande disappunto che non si tratta di un incontro pratico, ma di una vera e propria lezione. L’insegnante, un allegro quarantenne dall’abbigliamento molto casual e dalla parlantina esageratamente fluente, si presenta come impiegato per conto di una società di consulenze, la quale ha rapporti esclusivamente con le aziende. Chiede che cosa abbiamo studiato, che tipo di lavoro stiamo cercando e se abbiamo avuto già avuto esperienze lavorative. Io, di fronte al suo atteggiamento così studiatamente friendly, mi chiudo a riccio e spiccico, con grande scazzo, a mala pena due parole. La stragrande maggioranza dei partecipanti al laboratorio è composta di ragazze, più il disoccupato di cui ho accennato nel precedente post, un ragazzo del Dams e un tizio che afferma di studiare come tecnico del suono per il cinema e che ha precisamente l’aspetto dell’assassino seriale.

L’insegnante, percependo la mia indisponibilità al dialogo, mi sorpassa rapidamente e dirige l’attenzione verso la ragazza accanto a me. Lei ha studiato lettere, poi ha seguito un master in imprenditoria dello spettacolo, di cui ora non sa che farsi. “E perché l’hai scelto?”, la incalza lui, con un sorrisino beffardo. Mi sono fatta convincere dal mio professore, dice lei.

Il giro di presentazione prosegue con questo tenore, noi che pronunciamo i nostri titoli di studio con un misto di fatalismo e vergogna, e l’insegnante che ci prende in giro per la stupidità delle nostre scelte, con fare da amicone.

Dobbiamo capire, ci dice, che la nostra laurea è un marchio indelebile, che non possiamo toglierci di dosso a meno di ometterla dal curriculum (cosa che si può sempre fare). Se intendiamo andare in cerca di un lavoro per cui una laurea è necessaria, posto che quella che abbiamo non sarà MAI quella giusta o comunque non sarà sufficiente, tanto vale trovare il modo di venderla al meglio. Attraverso il nostro curriculum, dobbiamo trovare il modo di incuriosire il datore di lavoro (o, più spesso, il selezionatore, figura che però fin qui rimane abbastanza indistinta e in secondo piano), trasmettendogli la nostra passione e la nostra energia. Il neolaureato non ha altra carta che la positività e la voglia di fare della sua giovinezza, che deve però riuscire a coniugare con la rettitudine e la mitezza di cui ogni figura che si trovi su un gradino superiore all’ultimo, ha bisogno per sentirsi rassicurata. Ad esempio, se hai un diploma scientifico ma hai studiato lettere è meglio se non lo scrivi: potrebbero pensare che sei pazza. Stessa cosa per quel che riguarda la provenienza geografica. Non è necessario confessare di essere nati a Napoli o in Calabria, il datore di lavoro preferirà certamente leggere che si abita a Bologna, senza avere altri dettagli.

Alcune persone con cui ho parlato del Cip mi hanno detto che infondo il mondo di cui questi insegnanti ci propongono il ritratto è quello reale. No, rispondo io, è il mondo delle aziende, che non è né universale né sempiterno. A livello micro, lo Stato (perché il Centro per l’Impiego è lo Stato) non fa che materializzare la vittoria delle aziende su tutto il resto della società, vittoria che lo Stato stesso, a un certo punto della sua storia, ha preso per buona e ha deciso di fare propria. Non c’è nulla di imprescindibile in tutto ciò, si è trattato di una scelta le cui origini è possibile rintracciare e indagare storicamente.

Dopo aver rivolto un paio di battutine al ragazzo del Dams (a proposito del fatto che, cupo com’è, di certo non troverà mai nessuno disposto ad assumerlo), l’insegnante si rivolge a noi donne: voi non potete perdere tempo, non potete cazzeggiare, perché, si sa, dopo una certa età i datori di lavoro vi vedono come macchine da figli. E’ ingiusto, ci dice, ma è così.

Ecco che si delinea sempre più chiaramente la risposta alla domanda iniziale, ma la frase che sgombera definitivamente il campo dai dubbi arriva dopo pochi minuti. “Le aziende”, continua l’insegnante, “vi proporranno soprattutto dei tirocini. Me ne sono passati davanti agli occhi di sindacalisti mancati, che dicevano che il tirocinio è lavoro non pagato, quindi sfruttamento. Le aziende, ve l’assicuro, vogliono assumervi, per questo investono in voi il loro tempo con i tirocini. Sono un periodo di prova, durante il quale dovete comportarvi come se guadagnaste duemila euro al mese. Il tirocinio è, a tutti gli effetti, lavoro.

Sottotesto numero uno: il lavoro è qualcosa che prescinde dal salario. Sottotesto numero due: le aziende hanno il diritto sacrosanto di non pagarvi. Sottotesto numero tre: se dopo il tirocinio non venite assunti ( e chiunque abbia anche un solo occhio libero da lenti distorte sa bene che accade assai spesso) evidentemente è colpa vostra. Beh, se il lavoro è questo, l’articolo 1 è in effetti ancora in piedi e ben saldo al timone.

Ma torniamo alla ruota. La caratteristica della ruota è…che gira, e quella sull’emblema della nostra Repubblica ha girato parecchio. Si trova, ad esempio, negli stemmi di PRC, Laos, Vietnam e sulla bandiera dell’Angola (dove si incrocia con un minacciosissimo machete), ma anche nel logo del Rotary Club e di formazioni di cui certamente (quasi) nessuno si sente di condividere l’ideologia, come questa.

E a giudicare da ciò che si ascolta dalle parti dei Centri per l’Impiego italiani, la ruota non si è certo fermata.

Nessun commento:

Posta un commento