martedì 1 maggio 2012

Lasciare il lavoro

In questi giorni di primissimi caldi, i miei vicini di casa cenano con le porte del terrazzo spalancate, fumano seduti nell'aria dolce di maggio rivolti alle tegole della città ancora tenere sotto il sole. Fra qualche settimana il cielo bianco si schiaccerà sui tetti, livellandone la superficie come quella di una pianura desertica, frantumerà il ruvido del fianco rosso delle tegole fino a saldarlo a quello della tegola accanto, in un'unica tavola ondulata di materiale cotto, pietrificato dal sole.

Per me la stagione che avanza è l'avvicinarsi di una parete verticale di roccia, di qualcosa che non credo di avere la forza di affrontare. Nel locale in cui lavoro il caldo è già così soffocante e i ritmi così frenetici che a volte sento il cuore premermi contro il petto, grande e rigido come l'ansa di una radice misteriosamente ripiegatasi dentro il mio sterno. I miei colleghi sono sempre più magri perché, incredibile a dirsi, in cambio di 10-12 ore di lavoro non ottengono altro cibo che un piatto di pasta a pranzo e un terzo di pizza a cena, mangiati in piedi, tra la fine delle pulizie e i conti delle consegne. Io li disprezzo sotto sotto, disprezzo il loro sacrificio cieco, il loro gettarsi a peso morto sul pavimento sporco della cucina, sul bollitore giallo di amido, sui lavandini unti. Trovo stupida la loro allegria, mi sembra che ci sia della colpa in essa, come se fosse un peccato morale regalare anche solo un sorriso a un lavoro da schiavi.

Quello che guadagno è talmente poco che basta a malapena per pagare l'affitto e le spese di casa. Per il cibo e per qualunque altra cosa devo contare sui lavoretti che mi arrivano attraverso i misteriosi canali di internet. Eppure sono felice ogni volta che il capo mi lascia a spasso per un giorno senza preavviso, anche se significherà intaccare i risparmi. Dovrei tenermi stretto il lavoro, sento dire da voci ben più forti e vive di quella della mia stanca coscienza, perché tanto fa schifo ovunque e la disoccupazione è peggio. Ma questo non è lavoro, rispondo io. Non posso dargli questo nome. E' qualcosa che va distrutto, sbriciolato e seppellito sotto terra. E' una calamita che oltre che incollare i pezzi a sé, li rende pavidi, malaticci, anemici. Toglie loro il sangue e l'aria fresca e la polpa dalle guance e dai fianchi, facendoli raggrinzire come quelli dei vecchi.

Io lavoro poco, e il mio corpo non si è rinsecchito come quello dei miei colleghi. Anzi, si è fatto più forte e robusto, migliore direi nel suo complesso. E forse per questo provo disprezzo nei loro confronti, è il disprezzo di chi non ha alcun merito e cerca un sentimento qualunque per tenersi a distanza dalla sfortuna altrui, dall'orlo della sfortuna su cui in realtà cammina. Ma non è solo questo. E' anche la loro squallida sudditanza di maschi avvezzi alla gerarchia, la loro paura del potere. La loro aria colpevole quando vengono rimproverati, la loro innocuità.

Cosa farai quando sarai senza lavoro? Dovrai ricominciare tutto da capo e sarà anche peggio dell'ultima volta, perché sarai di un anno più vecchia e di un anno più sprofondata nella recessione, nella crisi che smantella l'economia, nella mancanza di una soluzione. Sì, vero, niente da eccepire.

8 commenti:

  1. Non so cosa dirti. Grida vendetta tutto questo. Sbraita vendetta. Come possiamo tollerare che esistano queste situazioni? Che cosa ci ha addormentati?

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  2. aiutoooooooooo... ti auguro con tutto il cuore che salti fuori qualcos'altro, seppur pagato uguale ma almeno ALTRO

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  3. come ti capisco,
    chiamare lavoro un qualcosa che dura poco non so, e la paga poi....da fame davvero.
    costruirsi un futuro? fare figli? se anche uno volesse, dimmi come fa.
    si farà mantenere dai nonni o chiederà sussidi e assegni familiari, ma a me non piace. non lo trovo "dignitoso".
    queste misure per me non dovrebbero neanche esistere, semplicemente il peso dello stipendio dovrebbe essere più corposo in modo che uno si mantenga da sè.

    così finirebbero anche i furbi che chiedono soldi anche se in teoria non rientrerebbero nei canoni (ma con furbate fanno in modo di rientrarci).

    parlare poi di COME vai a lavoro...caos,stress......io non sopporto neanche che siamo tanti e si sta nel caos.
    amo la vita.
    ma sentire che "siamo pochi" e dovremmo fare figli mi pare assurdo.
    per me, sarebbe meglio quanto meno vivere in posti tranquilli, pochi, nel verde, meno caos.

    ALMENO QUESTO!
    mi renderebbe (forse) più sopportabile andare a "lavoro" per 400 euro al mese.



    non mi dilungo però.

    a proposito, mi chiamo Laura, piacere, e mi sono permesse di dire la mia sul tuo blog.

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    1. Ciao Laura, piacere e grazie mille per aver detto la tua :) Anzi sei invitata a farlo sempre! Ora devo andare al lavoro ti rispondo appena torno.

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    2. Rieccomi.Dunque per me la rivendicazione economica e quella diciamo ambientale sociale (che riguarda il luogo in cui si abita e si lavora, i ritmi di vita e via dicendo) non possono che andare di pari passo. E' la rivendicazione di una vita migliore, semplicemente.
      Non si può lavorare per 400 euro al mese Laura, per me qui bisogna mettere un punto. Perchè non ci si campa.

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  4. Grazie a entrambe. Il punto è proprio quello che solleva Carolina. E' intollerabile che il lavoro abbruttisca in questo modo, eppure siamo incapaci di agire in modo efficace. Perché? E' una domanda difficilissima e che ogni volta che viene posta genera migliaia e migliaia di parole, tutte necessarie.

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  5. ciao!
    esatto: quando ho scritto : mi renderebbe (forse) più sopportabile andare a "lavoro" per 400 euro al mese.


    E' PER sottolineare che anche l'habitat è brutto.
    quando vedo tanta gente come in un formicaio, magari dopo una giornata da 400 euro a fine mese, mi viene il nervoso.........
    poi li sento parlare di nascite, che gli italiani sono in diminuzione....e mi chiedo: ma cavoli, gli occhi li avete???pochi???ma va là!!!

    cerchiamo di respirare un pò!!
    diamoci ossigeno e spazio!
    vorrei che la gente di TUTTO il mondo (italia INCLUSA) abbracciasse questo principio, sarebbe bello.
    insomma, mi infastidisce il tutto.

    detto ciò, se leggiamo gli articolo 1 e 36 della Costituzione, mi verrebbe da dire che TUTTA l'Italia dovrebbe incrociare le braccia per giorni, in segno di protesta.

    che lavoro è?
    e perchè nessuno di noi si ribella?
    nemmeno io lo faccio, se non "pacatamente", magari rifiutando un'offerta orrenda di "lavoro".

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  6. post in cui mi sono riconosciuto....

    Per un paio d'anni sono stato come uno dei tuoi colleghi, uno di quelli che disprezzi... mai vile con il padrone, ma tutto sommato sottomesso e allo stesso tempo "felice".

    Ero uno di quelli che sgobbava eppure si sentiva allegro, sarà perché avevo trovato in un ambiente molto meno qualificante rispetto al luogo dove lavoro adesso, una certa intesa con i miei "pari grado", una apparente spontaneità nei rapporti che mi faceva stare bene...

    Certo, poi ogni mattina al risveglio sentivo l'oppressione che descrivi: di li a poche ore avrei dovuto riattaccare e vedevo le giornate sempre uguali e capivo di non aver energie fisiche e mentali per fare altro. Il tutto per una paga da fame, ovviamente.

    Il tuo post esprime appieno i paradossi e le contraddizioni che quotidianamente ci troviamo a vivere per un lavoro che non ci appassiona, o che non ci motiva (almeno io così lo interpreto al di là del tuo rapporto con il lavoro che fai) Perché la fuori è sempre peggio, perché vogliamo la nostra utonomia, perché "dobbiamo considerarci fortunati". E perché non abbiamo scelta: non ci lasciano la possibilità di scegliere o non siamo in grado di ottenere gli strumenti che forse ci aiuterebbero a scegliere e ci potrebbero allontanare dalla schiavitù del bisogno.

    Chiudo: bel post e bel blog
    ciao

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