sabato 14 maggio 2011

Pane, Twitter e fantasia: l'Egitto in rivolta visto da qui

Venerdì scorso, dopo aver ascoltato dal palco di Piazza di Porta Ravegnana alcuni interessanti interventi di lavoratori ed altri meno interessanti interventi di dirigenti sindacali, decisi di cercare un posto comodo e all’ombra per mangiare un panino. Lo sciopero generale era andato benone, a giudicare dai due lunghi cortei con cui avevo attraversato il centro della città; sicuramente meglio di quanto si aspettavano gli organizzatori, che per prudenza o scaramanzia avevano deciso di far confluire la manifestazione nello stretto imbuto di via Rizzoli, invece che in Piazza Maggiore. In piazza, mentre i partecipanti allo sciopero andavano disperdendosi, si formavano piccoli capannelli di delusi, pronti a rimproverare i lavoratori stessi perché a mezzogiorno già mollavano gli striscioni per scapparsene al mare.

Gli scioperi non servono più, ormai sono delle pagliacciate, sono solo un ulteriore disagio. Sembra questa la vulgata più quotata al momento, sposata in toto da una moltitudine interclassista e intergenerazionale di italiani. Una buona parte di essi aggiunge che la speranza sono i giovani, la speranza sono Twitter e Facebook. Avete visto Piazza Tahrir, no?

Ebbene, io Piazza Tahrir l’ho vista, ma mica tanto bene. Da qui, mi pareva che le immagini e le voci ci giungessero un po’ disturbate, un po’ perse nella grana grossa degli speciali di Repubblica Tv. Non ci si capiva niente. Ma chi erano questi rivoltosi? I giovani! La generazione di Twitter! No, gli affamati! I laureati! I borghesi!

Per fortuna, in tanto caos è giunto ancora una volta con salvifico tempismo un post di Giap, questa volta a firma di Wu Ming 2, intitolato “Disintossicare l’Evento, ovvero: come si racconta una rivoluzione?”. Vi si dice, in parole poverissime, che una rivoluzione è qualcosa di intricato, complesso, plurale, che deve la sua forza all’impossibilità, per lunghi periodi di tempo, di recintare entro precisi schemi di cronaca ciò che sta accadendo. Quando si finisce per ingabbiare gli eventi entro cronologie deterministiche, entro timeline verticali come quella elaborata dal Guardian, ecco che la rivoluzione è già mezza che fottuta, ecco che il suo potenziale eversivo, di rottura della linearità, è già stato ricondotto alla norma. Non c’è niente di peggio, per una rivoluzione, che vedersi affibbiato un nome, un fiore, un colore, una data che ne catalizzino la portata simbolica, rinchiudendola in una scatola che chiunque, se è abbastanza bravo, può prendere e portarsi via con sé. In Iran, ad esempio, i khomeinisti ebbero gioco facile quando decisero che i comunisti e i liberali, nella rivoluzione, in fondo non avevano dato un gran contributo, che erano quattro gatti e li si poteva liquidare perché non erano di nessuna utilità per la neonata repubblica: ci riuscirono perché le date e le ricorrenze simbolo di quel processo che aveva portato alla caduta dello Shah ricordavano quasi sempre una scadenza religiosa, le mani insanguinate dei manifestanti feriti o uccisi dalla polizia erano facilmente assimilabili alla simbologia sciita del martirio e l’aggressione da parte dell’Iraq sembrava ricalcare la mitica battaglia di Kerbala tra la dinastia Ommayyade e l’Imam Husseyn.

Sul fiume di persone sfociate in Piazza Tahrir, di nomi ne sono piovuti parecchi. Inizialmente, si usò l’inflazionato “rivolte del pane”, paradigma buono per tutte le stagioni purché si riferisca a sommosse di gente dalla pelle scura, o almeno un po’ brunita (quelli che George Carlin chiamava “brown people”). La rivolta del pane è tipica di popolazioni pre-moderne, proto-umane quasi; è qualcosa di medievale e selvaggio, che fa venire voglia, a noi creature del mondo avanzato, di destinare il nostro cinque per mille alla costruzione di un pozzo in Africa. E’ un evento che ci disgusta, ma a cui guardiamo da lontano; che ci permette di compiacerci della sua ferocia, di provarne una salutare e gradevole paura, pur senza farcene sentire culturalmente ed etnicamente partecipi, e che ci fornisce una realistica parabola educativa per insegnare ai nostri bambini quanto sono fortunati. La rivolta del pane è uno scandalo, ma è lo scandalo che capita sempre altrove, sempre ad opera di altri, di brown people appunto, ed era perciò, fino a non molto tempo fa, il massimo della vita: faceva gocciolare nel nostro cuore l’orgoglio del primo mondo, di chi ha meritato il benessere e, per ricordarsene, deve ogni tanto gettare uno sguardo in basso, tra quelli che ancora, come nelle pestilenziali epoche antiche, si contendono il cibo. Al massimo, recuperando il famoso motto, possiamo rimproverarci di non avergli insegnato a pescare.

Il secondo paradigma è certamente quello della “rivolta dei giovani”, che viene spesso usato in modo interscambiabile con quello di “rivolta del web”. Secondo questa narrativa, esiste una “generazione Facebook” la quale, in virtù dell’integrazione nell’Occidente, avrebbe la chiarezza di visione, le capacità organizzative e i buoni sentimenti per opporsi al vecchio regime. Qui, i giovani sono rappresentati come esseri puri, sognatori, limpidi, che è esattamente il modo in cui un mondo ricco di mezz’età desidera guardare alle nuove generazioni (ad esempio, ne parlai in questo post). I giovani sono le forze neutre del bene, sono belli e innocenti come in un musical per teenager. Grazie a internet, essi si sono emancipati dalle lordure della politica, il cui sporco è esemplificato dalla tetraggine delle vecchie sezioni di partito, dalla cupezza fumosa e odorante di birra dei centri sociali, dalle esalazioni acri di sudore degli scioperi. La Rete è oggettiva, dice la verità, genera ragazze e ragazzi scevri dal rozzo materialismo delle lotte di classe e spinti solo da rivendicazioni nobili e universali come la libertà di stampa, la democrazia, la fine della corruzione. La rivolta del Web ci rassicura e permette di assimilare quei giovani a noi e noi a loro. Se la loro battaglia e bella e vittoriosa, lo sarà anche la nostra. Anche noi usiamo Facebook, anche noi frequentiamo i blog, anche noi clicchiamo su siti e campagne per la libertà di stampa e la democrazia. La loro vittoria è la promessa che la nostra idea di vita politica può funzionare, che l’attivismo da pc è davvero allo stesso tempo comodo, pulito e fruttuoso, che non è necessario confrontarsi fisicamente con gli altri se non nel momento cruciale, quando potremo abbattere il tiranno portandoci il pranzo da casa.

Il terzo paradigma è quello della “rivolta di Piazza Tahrir”. L’Evento, che come hanno spiegato i Wu Ming è sempre carico di potenzialità irrisolte, di biforcazioni, di una pluralità di genesi e di luoghi d’origine, diventa invece massimamente delimitato, circoscritto, nitido. A un certo punto la gente s’è ritrovata a Piazza Tahrir e c’è rimasta. Prima, il nulla. Parallelamente, nemmeno. Piazza Tahrir è una forza del bene auto-evidente. Nessun accenno, ad esempio, al fatto che l’Egitto sia attraversato in lungo e in largo da scioperi durissimi da almeno un decennio e nemmeno al fatto che nei due giorni che hanno preceduto la caduta di Mubarak l’Egitto è stato paralizzato da uno sciopero generale; che è stato proprio il totale blocco del paese imposto dai lavoratori a convincere i generali a scalzare il dittatore.

E’ molto comodo il paradigma di Piazza Tahrir, ci fa credere che la rivoluzione si faccia in un attimo, grazie alle buone intenzioni e alla purezza d’animo. Io pago le tasse, non rubo, mi informo, sono contro la Casta. Questo basta, giusto?

Insomma, quando qualcuno dà un nome a una rivoluzione la prima cosa da chiedersi è perché? A chi giova quel nome? Quali interessi tutela? Quali speranze e desideri solletica e quali, invece, sopisce?

I lavoratori hanno avuto un ruolo indispensabile nelle vicende che hanno condotto alla fine di Mubarak e hanno portato all’interno della protesta le loro rivendicazioni: fine del regime di privatizzazioni selvagge portato avanti dall’ex-presidente e dalla sua giunta, sostituzione di tutto il managment corrotto e incapace, emersione del lavoro nero, istituzione di un salario minimo, formazione di sindacati indipendenti. Gli scioperi, altrove, si fanno e servono eccome. Gli scioperi contribuiscono persino alle rivoluzioni e sono davvero lo strumento principe di lotta per i lavoratori. Tutto questo è scomparso dalle narrazioni che i nostri media ci forniscono dei grandi avvenimenti del presente: le rivolte si fanno con Twitter. Cui prodest? Vedete voi.

Nota: per chi desidera avere ulteriori informazioni sulle lotte in corso in Egitto, qui si trova una raccolta di articoli aggiornata giorno per giorno. Grazie a Lorenzo Declich per il lavoro.

1 commento:

  1. Complimenti davvero. Vorrei leggere articoli come questo su giornali pseudorivoluzionari o sedicenti di sinistra come Repubblica o L'Unità.
    Anzi, in questo modo sono proprio loro a scoraggiare l'attivismo e le vere azioni contro le ingiustizie.
    Però non sono sicuro della reale efficacia, nel mondo controllato dalla finanza, degli scioperi; che siano necessarie nuove forme di protesta mi sembra che sia chiaro da parecchio tempo ormai; il problema è "cosa"?

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