lunedì 6 giugno 2011

Euforia

La giornata per molti comincia in cucina, per preparare il pranzo sociale da consumare insieme ai ragazzi della Montagnola. Con le pentole e le teglie piene di cibo, attraversiamo il mercato a passo spedito, nel caldo asfissiante di mezzogiorno. Gettiamo sguardi un po' interrogativi alle persone che passeggiano tra le bancarelle, che ondeggiano indifferenti e pacifiche tra una camicia usata e una borsa di tela indiana. Nei nostri pensieri rimbalzano le parole spese da tanti autori sulla sospensione del tempo della rivoluzione, sul fatto che ogni rivoluzione – anche quelle ancora in erba - costruisce un altro tempo, che rompe gli orologi della routine. Per noi, il tempo di cazzeggiare tra le bancarelle della Montagnola, semplicemente, ora non c'è.

Invece, c'è il tempo di pranzare seduti sotto i giganteschi alberi del parco, in compagnia delle decine di ragazzi migranti che da due mesi vivono qui. Si tratta di tunisini sbarcati a Lampedusa e a cui è stato regolarmente riconosciuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Dalle tendopoli di quella che per molti è la porta dell'Europa, sono stati sparpagliati a casaccio in tutta Italia, e poi abbandonati a loro stessi.

Dopo il pranzo, ci sediamo in cerchio all'ombra; Wissam dell'associazione Pari opportunità e sviluppo ci farà da interprete. I ragazzi iniziano a raccontare la loro attraversata marina, prima di tutto, e poi terrestre, alla ricerca di un rifugio in questo paese che avevano immaginato così ricco di opportunità. La maggior parte di loro ha un età che si aggira intorno ai vent'anni, alcuni ne hanno sicuramente qualcuno di meno. Indossano pantaloni lunghi, grosse scarpe da ginnastica, niente che sia adatto alla calura incombente di Bologna.

Molti di loro hanno partecipato alle manifestazioni che hanno condotto alla caduta di Ben Ali, ma si sono poi trovati intrappolati in un'economia affossata dalla fuga del presidente e della sua cricca, e in un paese passato dall'essere una sponda calda di Mediterraneo per migliaia di Europei a diventare una meta evitata dai flussi turistici. Le possibilità di lavoro, in brevissimo tempo, praticamente esaurite. E così ecco l'idea del viaggio, le migliaia di euro per pagare gli scafisti raccimolate a prestito o vendendo i beni di famiglia. Il mare, il pericolo, i tre giorni di viaggio, ci dice un ragazzo, stipati in centoquindici su una barca lunga otto metri.

Una storia già sentita tante volte. La salvezza, Lampedusa. Il ritrovarsi poi gettati, dopo una lunga attesa, in città sconosciute senza un soldo né un indirizzo utile. Gli impiegati della questura che, dopo avergli rilasciato il permesso, li congedano senza avergli indicato qualcuno a cui rivolgersi, senza mai avergli fatto incontrare un mediatore che parlasse la loro lingua. Qui a Bologna sono in sessanta, in tutta Italia probabilmente migliaia.

Dicono che vengono fermati dalle forze dell'ordine per controlli di continuo, anche cinque o sei volte al giorno, non appena si allontanano dai giardini in cui vivono; che alcuni sono anche finiti al CIE di via Mattei, nonostante i documenti in regola. Molti di loro hanno già cercato di lasciare l'Italia, verso la Germania o la Francia, ma sono sempre stati rispediti indietro.

Su quelli che dovrebbero essere i luoghi dell'accoglienza e dell'aiuto, poi, raccontano una lunga serie di brutte esperienze: personale razzista, cibo schifoso, addirittura mense in cui vengono separati dai poveri italiani o comunitari, e in cui si servono pasti peggiori se non si è europei. Torna alla mente la discussione sulla migrazione affrontata qualche giorno fa in assemblea, in cui si diceva che la clandestinità non è tanto questione di illegalità, di infrazione di una qualche legge, ma è un giudizio sulla persona, sulla sua appartenenza “etnica”. Chi è bianco è meno clandestino; chi è africano, arabo, pachistano lo è di più.

Quando chiediamo ai ragazzi come se la sono cavata in queste giornate di temporali, loro ci indicano una grossa magnolia a pochi metri da noi: dai suoi rami pendono coperte, vestiti, valigie. Wissam ci spiega che ottenere delle tende e dei sacchi a pelo dalla Protezione Civile, fin'ora, non è stato possibile.

Ci concediamo un po' di musica prima di tornare in piazza, mentre alcuni dei ragazzi hanno tirato fuori un pallone e si sono messi a giocare a calcio nel piccolo prato in discesa della Montagnola.

Nel pomeriggio, durante il workshop su immaginario e filosofia si parla del fatto che secondo Fredric Jameson lo stato d'animo che caratterizza la nostra epoca è l'euforia. Ne siamo circondati. Attorno al nostro presidio, si sussegue un carnevale di palloncini, gingles suonati con i più vari strumenti, persone in posa per farsi fotografare davanti alla fontana del Nettuno. Nei weekend, la piazza diventa un turbinare continuo di passanti sorridenti e intontiti, di microeventi, di iniziative promozionali di ogni genere. Persino la Madonna di San Luca, che continua a andare avanti e indietro sotto i nostri occhi, sembra catturata dalla stessa euforia.

Ci torna in mente la strana calma del parco della Montagnola, con i ragazzi che giocavano a pallone.

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