Ho abbandonato da tempo questo blog al suo destino, ma mi sembra
che possa essere utile recuperarlo per rievocare dei ricordi, ricordi
punzecchiati dagli eventi recenti e dal dibattito che ne è seguito.
Parlo ovviamente dei famigerati forconi e della reazione che hanno
suscitato in molti siti di movimento. La discussione sulla necessità
di intervenire o meno è a dir poco accesa, e ha prodotto un fiume di
articoli con cui è praticamente impossibile restare al passo.
Ebbene, a me i forconi non hanno fatto venire in mente gli eventi
di Piazza Statuto del 1962, per niente, e invece mi hanno portato
alla mente fatti ben più vicini nel tempo, ma per contrasto. Era il
2011, mese di maggio, quando in Spagna le piazze erano abitate notte
e giorno da migliaia di persone, a loro volta ispirate dalle piazze
tunisine ed egiziane, e negli Stati Uniti si preparava quel ciclo di
lotte che ha portato, due anni dopo, tra le altre cose all
'incredibile elezione di una socialista nel consiglio comunale di una metropoli come Seattle.
Dalle nostre parti, a maggio, quell'onda anomala era arrivata in
modo appena percepibile, un singhiozzo d'acqua di laguna. Eppure i
numeri complessivi delle sconclusionate piazze “indignate”
italiane non erano diversi da quelli visti in questi giorni.
Sottraete alle mobilitazioni odierne i fasci e i personaggi in odore
di criminalità organizzata, e avrete all'incirca i numeri delle
acampade nostrane, con l'indiscutibile di più di una distribuzione
più capillare, non relegata (sempre nella formula manifestazioni
meno fasci) a Torino e a pochi altri sprazzi.
C'erano indubbiamente molta confusione, molta ingenuità e
disorganizzazione; ignoranza e populismo, anche, a volte. Ma fascisti
non ce n'erano. Non c'erano realtà organizzate che stavano cercando
di costruire un
fronte sociale reazionario, né
imprenditori in Jaguar, né mafiosi, né padroncini vari con in cuore
il sogno delle giunte sudamericane. Non c'erano neanche i media, e
questo è un punto da tenere a mente.
A Bologna – parlo di quello che è successo qui perché, visto
il carattere davvero spontaneo di quelle piccole mobilitazioni, avere
un'idea esaustiva di quello che accadeva altrove non era facile –
in piazza c'erano studenti universitari e medi, giovani precari,
disoccupati, operai, migranti, senzatetto, poveri di ogni tipo. Tra
le azioni che avevamo, nel nostro piccolo, compiuto, c'erano
iniziative di solidarietà verso i rifugiati che dormivano ai
giardini della Montagnola, assemblee di rudimentale auto-coscienza
sulle problematiche di genere, gruppi di discussione su temi come
precarietà e reddito minimo, sostegni ai presidi anti-sfratto e alle
lotte per il diritto all'abitare, assemblee nelle quali erano
invitati a portare le loro testimonianze militanti No Tav e operai in
lotta.
Il tutto in piazza Maggiore, con un sistema di amplificazione
raffazzonato mettendo insieme pezzi dati in prestito da persone
comuni e con le cene nelle quali ognuno portava qualcosa, compresi i
senzatetto, che quando potevano prendevano qualche merendina in più
alla mensa della Caritas. A volte erano degli sconosciuti passanti a
portarci qualche panino e un pacco di biscotti. Avevamo persino
trovato il modo di fare delle vere e proprie tavolate comuni.
Avevamo una piccola biblioteca di strada e una mostra fotografica,
appesa ai muri esterni di Palazzo d'Accursio, e avevamo adornato il
monumento ai partigiani di piante vive, che con le loro radici
dovevano opporsi alle corone di fiori morenti deposte dalle autorità.
Gli spazzini venivano a salutare quelli di noi ancora svegli nel
cuore della notte, e poi passavano oltre, senza neanche scendere dal
furgoncino. Piazza del Nettuno, nonostante il caos di pentole,
cartelli, coperte, teli anti-pioggia, a detta sempre degli stessi
spazzini, non era mai stata più pulita.
Noi, poi, avevamo l'assemblea, una cosa che non si è vista, che
io sappia, nelle proteste di questi giorni. Tra i forconi bolognesi,
per lo meno, so di per certo che l'unico vago scimmiottamento di
questa pratica è stato portato da un pittoresco personaggio locale,
e non certo dai promotori. Da noi, l'assemblea prendeva le decisioni,
ed era davvero aperta e libera da scelte predeterminate, persino
troppo. È vero, assomigliava a un raduno di fricchettoni fuori tempo
massimo, ma tanto quanto i gruppi che oggi vanno a minacciare i
negozianti, tra cui quelli di una
libreria di sinistra,
sembrano squadracce fasciste.
Militanti politici se ne videro, certo. Erano diversi i/le
compagn* che passavano e che avevano voglia di “sporcarsi le mani”.
Pochissimi, però, in confronto ai numeri che contavano allora le
realtà di movimento bolognesi. Meno ancora le realtà organizzate
che erano intervenute, per così dire, mettendoci la faccia. Molt* di
noi scrutavano l'orizzonte in attesa di quella stragrande maggioranza
di realtà di movimento, con le loro analisi avanzate e la loro
capacità organizzativa, che ci ignoravano, insieme al 90% di
giornali, radio e tv, anche locali. Continuarono a ignorarci,
lanciandoci persino addosso il sospetto di cripto-fascismo, oggi
tanto stigmatizzato quando pure in piazza ci sono i fascisti veri.
Quel movimento confuso, sconclusionato, ignorante – ma lo eravamo
poi tanto? - finì come era iniziato, senza analisi sociologiche o
dilanianti discussioni a dirimerne le ambivalenze, quelle sì,
proficue.
Ora, perché a due anni di distanza, con i forconi ci si comporta
così diversamente? Perché d'improvviso quel movimento che di
spontaneo ha davvero poco, che risponde a parole d'ordine
reazionarie, che picchia e minaccia, che applaude Forza Nuova e
fischia la Fiom, diventa un terreno d'intervento così
imprescindibile? Non dico che sia sbagliato intervenire, laddove in
piazza ci sono i poveri che Revelli descrive, ma perché ora sì e
allora no? Non è che il fatto che su quelle proteste siano accesi
tutti i riflettori del paese c'entra qualcosa? Non è che il senso
comune di sinistra è finito anche un po' perché in passato è stato
ignorato, considerato troppo spurio e irrecuperabile?
È vero, c'è un grande lavoro di rialfabetizzazione da fare e
c'era anche allora. Ma allora c'era gente comune – non militanti
politici o lavoratori della cultura, ma studenti, operai,
disoccupati, lavoratori sepolti nel sotterraneo del nero, senzatetto
e migranti – che in piazza, invece della bandiera italiana,
spontaneamente, perché sembrava loro un bisogno, portava una
biblioteca.
Dedico questa piccola riflessione ad
Antonio, il miglior
bibliotecario che Piazza Maggiore abbia mai visto.