lunedì 30 aprile 2012

Quando il femminicida è un "survivalista"

Lo confesso, ultimamente faccio molta fatica a sostenere a proposito di sessismo, discriminazione e tanto più di femminicidio, un qualunque dibattito sul web. La prospettiva di discuterne faccia a faccia con un maschilista, guardandolo negli occhi e potendogli urlare a pieni polmoni tutto quello che provo per quelli come lui, mi disgusta di meno che farlo tenendo le mani a galleggiare ordinatamente sopra una tastiera, con il mio avversario altrettanto comodo e a proprio agio nel comfort di casa sua. Sono convinta che i maschilisti andrebbero schiodati dalle poltrone attaccate a cui - e questa è l'unica giustizia - inesorabilmente invecchiano, e incalzati per la strada, nelle piazze, perchè all'aria aperta le loro idee e le loro persone emanano l'inequivocabile odore della materia di cui sono fatte.

Tutta via al riparo del mio blog e alla larga dagli stalker telematici che sembrano non avere altra occupazione che quella di perseguitare le femministe, voglio parlare di un articolo che, in mezzo al mare di orrori che vengono quotidianamente scaricati dalla stampa sulle donne uccise, mi ha particolarmente colpita. Si tratta di una notizia di cronaca estera, e forse per questo il giornalista s'è sentito libero di tralasciare le cautele che, anche qui forse, cominciano a essere applicate sui femminicidi nostrani.

Il titolo dell'articolo, apparso sul Corriere.it a firma di Guido Olimpo, dice: "Usa, muore nel bunker costruito per sopravvivere alla fine del mondo". Sotto al titolo il sommario ci comunica, innanzitutto, che il bunker era stato costruito dal morto (che fino ad ora ci sembra un povero fesso trapassato per via di qualche disgrazia) in otto anni di duro lavoro. Quindi veniamo a sapere che il tizio, prima di crepare, aveva ucciso moglie e figlia.

L'articolo comincia con quello che a questo punto sappiamo essere un assassino, che stipa provviste nel suo super-bunker. Era un survivalista, ci dice Guido Olimpo, e ora cito pari pari: "Odiava lo Stato ed era convinto che la fine del mondo fosse vicina. Invece è arrivata la sua fine. L’uomo, 41 anni, ha ucciso la moglie Lynette (39 anni) e la figlia, Kaylene (18 anni), poi si è tolto la vita all’interno del suo rifugio segreto.". La SUA fine. Della fine della moglie e della figlia adolescente, o magari della loro vita, non si sa nulla e nient'altro si scoprirà dall'articolo, solo che i loro cadaveri sono stati trovati dai pompieri che hanno spento l'incendio appiccato dall'assassino alla casa che, oltre che SUA (ma Olimpo si scorda di dircelo) era anche loro.

Dopo un breve resoconto dell'assedio al bunker del "survivalista", Olimpo passa a descrivere, altrettanto brevemente, il movente. "Forse un gesto di follia", dice, dovuto - pensate - alla paranoia post 11 settembre, aggravata dall'elezione di un presidente di colore. Sono pazzi questi MMericani. Le due povere donne uccise - una appena ragazzina - scompaiono in un moto di orgoglio e di superiorità vecchio continentale, perché quelli mangiano male e non hanno mica la nostra cultura. In quelle strade lunghe senza niente, nei paesini dispersi, con tutta la criminalità e gli attentati, certo che alla fine si diventa matti. 

Ed ecco una foto di Lynette e Kaylene Keller, quella che il Corriere non ha mai pubblicato.




martedì 24 aprile 2012

Quando il capo è un maschilista

L. mi racconta questa storia ridendo, ma la sua è una risata che non ha nulla di liberatorio. E' la risata di chi trova le cose troppo assurde e grottesche per riderne davvero, e allora usa il sarcasmo per mettere tra sè e il resto almeno una barriera di carta, che le permetta di continuare a fare il suo lavoro senza avere sempre davanti agli occhi un pessimo spettacolo.

Il suo capo è un maschilista, un maschilista rampante, di quelli che usano il successo come dimostrazione della loro superiorità e allo stesso tempo come strumento per imporla. Per esempio, assumendo solo dipendenti donne, e tediandole con battutine e doppi sensi a cui, per la loro posizione appunto, si presume che non debbano reagire, ma che anzi sono invitate ad assecondare. E quando la conturbante realtà dei fatti - per quante cravatte, moto da corsa e battute sessiste lui sia in grado di estrarre dalla ventiquattr'ore - irrompe spezzando l'incantesimo che custodisce la porta del suo ufficio, tanto vale negarla, perché non si espanda come una macchia di sudore freddo sulla camicia o come un'onda di vendite sul suo titolo in borsa.

"Ho cacciato la nostra collaboratrice a Roma", dice alle ragazze dell'ufficio bolognese, "ci ha quasi fatto perdere un cliente. Allora l'ho cazziata talmente tanto che lei ha dovuto chinare la testa e andarsene". Il maschilista non ha bisogno di verità matematiche, di certezze storicamente comprovate o di logiche incontrovertibili. Nel suo mondo non ce ne sono, e lui ha imparato a farne a meno fin dall'infanzia, come quelle piante di pomodori che si adattano a vivere all'ombra. Alla pari dei pomodori i maschilisti devono allungarsi sempre di più, allontanandosi da terra, per cercare una qualche luce che li conforti.

Dall'alto della sua vertiginosa posizione, il datore di lavoro può scorgere la ex collaboratrice romana mentre raccoglie le sue poche cose dalla scrivania dell'ufficio e consegna la lettera di dimissioni, e può far finta di non vedere il sorriso stampato sulla sua faccia e i biglietti per la partenza (in direzione di una borsa di studio e di un lavoro di certo migliore) già infilati nella tasca. O forse non la guarda nemmeno e, seduto alla sua poltrona girevole, ripercorre mentalmente la cazziata immaginaria con cui, già si è scordato di pensare, s'è salvato in corner.


venerdì 13 aprile 2012

La strategia del bruco artico, ovvero la piccola impresa ai tempi del governo tecnico

Non bisogna avere un olfatto canino per accorgersi che da quando il governo tecnico si è installato a capo del paese l'aria è cambiata, e anche parecchio. Ma non si è fatta più pulita, al contrario. Nell'epoca del governo tecnico, la guardia di finanza si aggira per strade deserte, pattugliando la recessione. Le capatine a Cortina o nelle zone più upper class della Milano da bere, sono solo piccole deviazioni, perché le vie che in realtà persegue sono quelle in cui una volta si aggirava, con l'immancabile "buono stipendio" in tasca, la classe media. Quei portici colorati, luccicanti di ristorantini, pasticcerie, negozietti di articoli da regalo e via dicendo, sono ora tetri tunnel in cui le serrande si abbassano - definitivamente - ad ogni rintocco di ora. Loschi figuri, inviati da uno stato mai così vigoroso e risoluto nell'estrarre l'imponibile, apparentemente, da ogni palmo di terra che rientri sotto la sua giurisdizione, si aggirano tra le auto parcheggiate, nei negozi, tra le padelle della ristorazione al minuto, lasciando dietro di sé una scia di multe e verbali. "Alla buon ora!", si sarebbe detto qualche tempo fa, quando pagare le tasse era considerato un emblema di nobiltà e si riteneva più che d'obbligo sottoporre il paese a un lavacro fiscale per ripulirlo dei suoi secoli di caos e illegalità. Ora che la crisi morde e i creditori bussano alla porta, la faccenda appare sotto tutta un'altra luce.


In due anni in Emilia Romagna hanno chiuso 1500 ristoranti, principalmente di fascia media. Attività in buona parte nate e cresciute nel fertile brodo del lavoro nero e dell'evasione, che ne hanno fatto una delle colonne portanti, se non l'impalcatura stessa, del loro successo. Calano i consumi, crescono le spese per le forniture e a dare il colpo di grazia arriva la mannaia del fisco, tanto più affilata e devastante proprio perché arriva in un momento in cui la gente ha la sensazione di avere perso definitivamente il controllo sulla sfera politica. La forbice di Monti&Company taglia, insieme alle pensioni e ai diritti, quella cordicella che ancora congiungeva potere politico ed elettorato, lasciando nel disorientamento più totale coloro che fino a ieri avevano creduto di avere saldamente legato alle spalle il paracadute della democrazia.

La piccola e piccolissima impresa, che in Italia rappresenta uno dei maggiori habitat della classe media, ha poche chance di sopravvivenza. In moltissimi casi, decine di migliaia nel solo 2011, l'azienda, semplicemente, chiude, lasciando per strada i lavoratori e, spesso, costringendo il proprietario al cappio di enormi debiti. Negli ultimi anni i casi di suicidio per cause economiche sono aumentati di un quarto.

In altri casi, l'azienda sceglie la strategia, appunto, del bruco dei climi più inospitali: si congela, rallentando fino a che non le rimane soltanto un lumicino di vita, in attesa di accumulare abbastanza forza per divenire finalmente qualcos'altro. Nel caso delle imprese, non si tratta di una creatura alata, ma di diventare liquido, denaro con cui campare per un po', in attesa di tempi migliori, di un espatrio fortunato o di qualche altra occasione. Laddove i giganti finiscono per investire il frutto della liquefazione delle loro industrie al blackjack della borsa - con profitti stratosferici - i piccoli si accontentano di ridurre al minimo le spese fino a riuscire, magari, a volatilizzare definitivamente l'azienda, vendendola al miglior offerente. E' questo che provoca lo tzunami della Legge quando si abbatte su un'economia largamente informale e per di più sull'orlo del tracollo.

In tutto ciò, i lavoratori si trovano presi tra due fuochi: da una parte il datore di lavoro, dall'altra lo Stato, pronto ad assorbire denaro come una spugna asciutta. L'imprenditore vuole liberarsi di loro, lo Stato montiano vuole liberarli dal lavoro nero. Due intenti che trovano una straordinaria confluenza nel momento in cui il lavoratore, guarda caso, perde il posto.

Che lo scopo dell'attuale riforma sul lavoro non sia per nulla quello di tutelare maggiormente i lavoratori precari ma, semmai, di renderli ancora più precari e nel frattempo di aumentare anche un po' le tasse, mi pare logico. Tanto più se, e se n'è accorto persino il super-liberista Tito Boeri, le tasse si possono far pagare al lavoratore stesso, riducendogli lo stipendio. Per inciso, questo accade già in tutti quegli ambiti in cui il nero prevale, nei casi in cui il lavoratore pretenda/necessiti di avere un contratto in regola. Sono moltissimi i migranti che pagano di tasca loro i contributi collegati a un contratto che gli serve per ottenere un permesso di soggiorno. In un futuro ormai alle porte, i lavoratori pagheranno il prezzo di una legalità che non li garantirà contro la perdita del posto di lavoro, né contro una vecchiaia di povertà, né contro un sicuro decadimento di tutto ciò che è pubblico, dalla scuola, alla sanità, ai trasporti, alle risorse naturali e storiche.

lunedì 2 aprile 2012

La rubrica culinar-precaria del lunedì: inno all'asparagina

Dopo il risotto al praticello ecco un'altra ricetta dedicata a coloro che trovano estremamente stimolante (e persino eccitante) dal punto di vista gastronomico, andare rubacchiando il cibo alle frasche all'apparenza più aride e spinose. In tempi come questi - in cui il denaro nelle tasche va prosciugandosi con la stessa ineluttabile costanza con cui evapora il lago d'Aral, in cui ogni stato governato da psicopatici del pianeta sembra possedere l'atomica o esserci vicino e in cui la fatidica data del 12/12/12 si avvicina - l'idea di essere in grado di procurarsi di che mangiare into the wild e senza l'ausilio del triste soldo, torna ad esercitare un grosso fascino. Per me, che da bambina sognavo di essere un animale selvatico e che preferivo avere mal di pancia piuttosto che smettere di sgranocchiare ghiande non appena trovavo un leccio appetitoso, non c'è nulla di nuovo e anzi talvolta mi scopro a rispondere con odiosissimi accenni all'acqua calda a quei decrescitisti e appassionati di ecobio che d'un tratto si accorgono dell'insalata di campo o delle more. Bella scoperta! Io a sei anni passavo i sabati a nutrirmi di corbezzoli e fiori di trifoglio.

Da piccola, il cibo boschivo mi dava una grande sensazione di libertà, spalancava i sicuri recinti della vita domestica e familiare per farmi scorgere un mondo di infinite possibilità di sopravvivenza, in cui me la sarei cavata e anzi, magari, a girar per montagne senza scuole elementari, catechismi, gite obbligate da 012 quando i pantaloni diventavano corti, me la sarei passata persino meglio. Quindi bevevo con sete sempre nuova il sapere che mi trasmettevano i parenti raccoglitori, immagazzinando le informazioni in una sacca da viaggio che, nonostante lo stato indecoroso di molte altre ale della mia memoria, non ha mai mostrato il più piccolo foro.

Il post di oggi non contiene una ricetta particolare, ma semmai qualche consiglio di ricetta e una guida alla raccolta di una pianta tanto repellente quanto capace di regalare frutti gustosi e anche, sul mercato, terribilmente cari. Trattasi dell'asparagina, ovvero della sorella più vecchia, rachitica e selvatica dell'asparago comune. Per chi non la conosce, l'asparagina ha l'apparenza di un ciuffo di lana di vetro portato dal vento a impigliarsi in un cerpuglio di rovi, qualcosa di brutto, persino inquinante forse, e di certo irrimediabilmente sterile. All'osservatrice abituata alle escursioni primaverili a caccia di cibo fresco et gratuito, invece, l'orrendo cespuglio evoca già, nella giusta stagione, la dolcezza delle primizie, di quella breve parentesi di tempo nella quale i lunghi frutti verdi perforano il terreno secco, crescono e si allungano verso il sole tiepido di marzo, umidi di linfe zuccherine e di vita.

Raccoglierli è un gioco da ragazzi, tanto sono indifesi e alla mercé di qualunque animale bipede, quadrupede o di altro tipo che sia, basta indossare scarpe robuste, pantaloni lunghi e, per chi non avesse una vista più che perfetta, un paio di occhiali. Come già detto, l'asparagina ha un'aspetto spiacevole, del tutto trascurabile per chi amasse dei boschi soprattutto la poesia, e infatti non è mai comparsa, che io sappia, in alcun paesaggio impressionista nè la vedrei bene ad arricciare il sottobosco nelle sublimi vallate di Albert Bierstadt. Nè ha la statura metaforica del rovo o dell'ortica, oppure la più prosaica utilità del luppolo. Per tutti questi motivi, sono pochi gli occhi che la notano, e di solito sono occhi che già sanno quello che, tra la peluria spinosa, si può celare.

Per trovare l'asparagina cercate un qualunque angolo di vegetazione che abbia l'aria secca e inospitale, e con poche probabilità di errore scoprirete di esserne circondati. D'aspetto contorto e spesso poco irrorato di clorofilla, ha in realtà il suo deposito di delizie sotto terra, dove i frutti - che in verità si chiamano turioni e che sarebbero nuovi germogli - vengono incubati e poi infine proiettati all'esterno. Non li dovete quindi cercare attaccati alla pianta, ma nelle immediate vicinanze oppure in mezzo a un cespuglio particolarmente fitto, su cui il verde intenso dell'asparago dovrebbe, se fate attenzione, svettare nettamente.

Esplorando sottoboschi, pruni ai confini tra i campi e perimetri di foreste ombrose, dovreste riuscire piuttosto facilmente, se azzeccate il momento propizio, a farvi su un bel mazzetto di verdura con cui condire tagliatelle, imbottire frittate, farcire risotti, rinforzare insalate e via dicendo. Avrete inoltre guadagnato in robustezza fisica, in consapevolezza ambientale, in capacità di osservazione e anche in autostima. Mica poco per un cespuglio che in tutta la storia dell'umanità non si è mai meritato un'espressione di stima, una parola di lode, uno sguardo amorevole, una pennellata d'autore. Io dico che questa è un'ingiustizia.