venerdì 27 luglio 2012

L'Ilva, l'Acna


Durante tutta la mia infanzia, il fiume è stato rosso. Rosso e morto, come se del sangue fosse caduto in una pozza di acqua arrugginita. Non ci sono molti fiumi in Liguria, anzi al di qua delle montagne non ce n'è per niente. Solo dei torrenti stagionali i cui letti fanno in tempo a riempirsi di erbacce e le erbacce a seccare, prima che i rii dell'entroterra portino acqua a sufficienza perché questa possa percorrere tutto il tragitto fino al mare. Capita poche volte l'anno.

Al di là delle montagne invece di fiumi ce ne sono. Da queste parti si chiamano tutti Bormida, e sono di genere femminile. L'acqua gocciola verso la pianura, immaginando la dolce inerzia della piatta valle sterminata, e nel frattempo le montagne si seccano come spugne appese al sole. Di qua l'arsura annerisce i tronchi degli alberi, che sembrano fatti di carbone vivente. Di là le cortecce si allargano sottili e il mais fa ciondolare al vento la sua molle testa piumata.

Il mais che beveva la Bormida di Cengio però per molto tempo è stato un mais speciale. Gli animali che lo mangiavano alla lunga cominciavano a trasudare un odore strano, una puzza di ciminiera che restava nella carne e finiva in bocca alle persone. Il vino sembrava un siero velenoso, il decotto di qualche antico filosofo suicida appena attraversato dall'aria stantia delle cantine. I ghiaccioli che si allungavano dalle pareti di roccia erano proibiti ai bambini, né si poteva andare a giocare sulla riva del fiume gelato. E questo perché c'era l'Acna, la fabbrica che i miei genitori mi avevano insegnato a odiare, ma di cui non dovevo parlare mai con le altre persone del paese.

Gran parte del paese lavorava all'Acna, scoprii quando si decisero a dirmi che in quella fetida città di casermoni davvero ci lavorava qualcuno. Di colpo nella mia mente la gigantesca macina di melme terrificanti si popolò di esseri umani, e fu una scoperta spaventosa. Ne conoscevo persino alcuni, appresi. Da allora per anni li guardai come se nascondessero un orrore segreto, una complicità contaminante con il mostro. "Lo fanno per guadagnarsi uno stipendio", mi dicevano i miei. Ma io, che non avevo ben chiaro il vincolo di necessità tra il lavoro e il denaro e tra il denaro e le cose, continuavo ad essere ripugnata da quelle persone all'apparenza tanto normali.

Poi l'Acna si è spenta, e i suoi spurghi di rosso raggrumato hanno smesso di squagliarsi nel fiume. Sotto al ponte, in un punto in cui l'acqua è più bassa e la corrente fa appena il solletico ai sassolini sul fondo, sono persino arrivati dei cigni e dei germani reali. Animali che trascorrono tutta la loro esistenza con il ventre a mollo e le zampe a pedalare sott'acqua. Prima che scoppiasse questa primavera di piedi palmati - anche sta volta l'ho scoperto dopo - a Cengio c'è stata una specie di guerra. Gli operai bastonavano gli ambientalisti, i medici abbandonavano i malati e i contadini piangevano sulle loro viti al cromo. La fabbrica chiuse dopo sessant'anni di proteste, tribunali, botte, minacce, attentati e centinaia di morti per cancro, in larga parte operai.

Per cento anni, un virus ha abitato nei nervi degli abitanti della valle, operai e non. Stava accucciato al riparo, come una vipera nell'ansa di un fiume, per poi schizzare fuori a fiammate, un fuoco di Sant'Antonio, doloroso e sfiancante, pronto ad aprire la porta ad altre malattie ancora più incurabili. Gli unici che non erano malati erano gli stessi che per tutto il tempo avevano continuato a spalmare i marciapiedi di bava infetta. Qualcuno è passato per il carcere, qualcuno si è sparato un colpo prima che lo prendessero, la maggior parte è invecchiata lontano, senza un prurito di colpa.

Oggi il virus ha lasciato la valle e la Bormida di Cengio. Si è estinto, come si stanno estinguendo gli operai dell'Acna. Vecchi, e in tanti malati. Di questa malattia rimangono altri ceppi, che incendiano intere città. Prosperano nella diossina, succhiano l'arsenico e il cadmio dalla rugiada e dall'umidità del vento, ingrassano dove il mare è povero di pesci e la terra da frutti immangiabili. Più l'acqua è spessa di olii e l'aria è pesante di scarichi, e più loro galleggiano leggeri, sparpagliandosi come pollini maturi. Dove c'è la miseria e i campi sono appestati, i virus scalpitano nelle ventiquattrore in cui li tengono rinchiusi prima di liberarli tra la folla. E hanno effetti anche sulle fragili intercapedini della mente, creando solidarietà impensabili come quella tra operai e avvelenatori, tra intossicati e utilizzatori di armi chimiche. Ogni volta che coppie di mani si stringono alle spalle di una intera città, i virus hanno brividi di gioia. Quando si firmano concessioni, accordi, patti, finti risarcimenti, loro partoriscono nuovi venuti.

A Cengio il fuoco è passato e il fiume è pulito, ma la valle è persino più povera di prima, povera com'era nei secoli lontani, precedenti alla fabbrica. I veleni sono stati rinchiusi e placati, ma le vigne non sono tornate. Nessuno comprerebbe il dolcetto della Val Bormida. Il virus lascia delle cicatrici incancellabili, sfregia i volti e marchia le colline. A un certo punto, penso, ci si scorderà dell'Acna.  

venerdì 13 luglio 2012

I giornalisti italiani e la Tunisia

E' l'ennesimo caso mediatico che vede coinvolta una donna bianca e un uomo non-bianco da quando tutti i maggiori giornali e i maggiori partiti hanno scelto di sfruttare l'atavico incubo del colonizzatore per attirarsi pubblico. Parlo di caso mediatico perché del caso in sé, dopo le ultime uscite della procura, non si capisce nulla. In ogni caso la povera ragazza - delle cui abitudini sessuali nel remoto continente di provenienza sembra strano che non abbiano ancora pubblicato accurati reportage. Ma forse è perché le ore di viaggio sono tante e nessun inviato del Corriere è ancora atterrato - ha tutta la mia solidarietà.

Ebbene, sembra proprio che tra i giornalisti italiani e la Tunisia sia successo qualcosa. La strage di Erba fino ad ora è stato l'esempio più eclatante di tale patologia, ma anche questa schifosa vicenda non scherza. Oggi, dopo la lettura dell'ultimo articolo del Corriere, ho deciso di fare un piccolo sondaggio, non molto originale, ma che è riuscito lo stesso a stupirmi.

Nell'articolo del Corriere sopra citato, la parola "tunisino" compare 7 volte, accompagnata anche da un "immigrato". Nel frattempo, la parola "uomo" è usata solo 3 volte. Repubblica si comporta in modo più politicamente corretto, e inanella "solo" 5 riferimenti alla nazionalità dell'uomo. Ma il vero apice si raggiunge con i lanci d'agenzia di AGI e ANSA. La prima utilizza la parola "tunisino" per ben 3 volte in un totale di 111 parole, la seconda arriva allo stesso risultato (in un caso "tunisino" è sostituito con "nordafricano") in sole 98 parole. Neanche i miei datori di lavoro chiedono ai loro scrittori SEO di inserire in un articolo la stessa keyword con una simile frequenza.


Che cosa suscita la psicosi della Tunisia negli organi di stampa italiani? Forse quella minacciosa sillaba iniziale "TU", così dentale, che collega il nome del paese sull'altra sponda del Mediterraneo a termini quali "tumore", "tuono", "turpe". A pensare proprio male male verrebbe da dire che quella sillaba forse solletica anche un inconscio desiderio di identificazione.

Oppure più realisticamente si tratta della visione risorgimentale (ah i 150 anni...) della Tunisia come di un giardino sottratto al nostro condominio dai perfidi vicini francesi, con in più l'umiliazione di annusare dai nostri terrazzi il profumo dei loro barbecue estivi. Terra che ci sarebbe spettata, ai tempi, e che è rimasta un luogo agognato, su cui mai i bravi italiani sono riusciti a stabilire il loro ordine, e che è rimasta un paese insubordinato, mai ridotto all'obbedienza verso i Savoia né verso il fascismo. "Tunisia" allora diventa sinonimo di paese traditore, abitato da genti incolte che avrebbero potuto addomesticarsi al nostro benevolo dominio di fratelli maggiori, bianchi e cattolici, ma che per qualche motivo incomprensibile hanno scelto di non farlo.

Oggi, la Tunisia è addirittura un paese che si è liberato da sé da un dittatore, contravvenendo a tutte le regole non scritte della diplomazia intercontinentale. Un luogo in cui orde barbare hanno sradicato un padrone senza bisogno di cacciabombardieri decollati dalle nostre illuminate coste, e così facendo hanno sguarnito i confini settentrionali, come per un perfido scherzo, come in quel programma televisivo in cui il VIP di turno si ritrova chiuso in una stanza insieme a una tigre. Che pena che ci fa, quel miliardario tutto preso a sudare di paura di fronte al gigantesco felino. Che pena.




lunedì 9 luglio 2012

Una poesia che dice davvero tutto sulle Langhe

Antenati, di Cesare Pavese

Stupefatto del mondo mi giunse un'età
che tiravo dei pugni nell'aria e piangevo da solo.
Ascoltare i discorsi di uomini e donne
non sapendo rispondere, è poca allegria.
Ma anche questa è passata: non sono più solo
e, se non so rispondere, so farne a meno.
Ho trovato compagni trovando me stesso.

Ho scoperto che, prima di nascere, sono vissuto
sempre in uomini saldi, signori di sé,
e nessuno sapeva rispondere e tutti erano calmi.
Due cognati hanno aperti un negozio - la prima fortuna
della nostra famiglia - e l'estraneo era serio,
calcolante, spietato, meschino: una donna.
L'altro, il nostro, in negozio leggeva romanzi
- in paese era molto - e i clienti che entravano
si sentivan rispondere a brevi parole
che lo zucchero no, che il solfato neppure,
che era tutto esaurito. E' accaduto più tardi
che quest'ultimo ha dato una mano al cognato fallito.
A pensar questa gente mi sento più forte
che a guardare lo specchio gonfiando le spalle
e atteggiando le labbra a un sorriso solenne.
E' vissuto mio nonno, remoto nei tempi,
che si fece truffare da un suo contadino
e allora zappò lui le vigne - d'estate -
per vedere un lavoro ben fatto. Così
sono sempre vissuto e ho sempre tenuto
una faccia sicura e pagato di mano.

E le donne non contano nella famiglia.
Voglio dire, le donne da noi stanno in casa
e ci mettono al mondo e non dicono nulla
e non contano nulla e non le ricordiamo.
Ogni donna c'infonde nel sangue qualcosa di nuovo,
ma s'annullano tutte nell'opera e noi,
rinnovati così, siamo i soli a durare.
Siamo pieni di vizi, di ticchi e di orrori
- noi, gli uomini, i padri - qualcuno si è ucciso,
ma una sola vergogna non ci ha mai toccato,
non saremo mai donne, mai ombre a nessuno.

Ho trovato una terra trovando i compagni,
una terra cattiva, dov'è un privilegio
non far nulla, pensando al futuro.
Perché il solo lavoro non basta a me e ai miei;
noi sappiamo schiantarci, ma il sogno più grande
dei miei padri fu sempre un far nulla da bravi.
Siamo nati per girovagare su quelle colline,
senza donne, e le mani tenercele dietro la schiena.