venerdì 23 settembre 2011

La sinistra che ha scordato il Referendum

Dal Referendum sono passati poco più di tre mesi, eppure sembra di vivere in un altro paese. Dietro la minaccia costante del default, le rivendicazioni espresse in quelle due giornate di Giugno sembrano far parte di un'altra epoca, quando eravamo sereni e pieni di sogni. Sarò ripetitiva, ma è proprio così che agisce la shock economy. Finora, gli shock che ci hanno inferto sono stati piccoli sobbalzi, scossette da qualche decina di volt, eppure sono bastate a farci tornare digeribili le stesse soluzioni che avevamo bandito con forza una stagione fa.

Infatti, ecco che Tito Boeri - guru della pseudo-sinistra liberista e della sinistra confusa - rilancia davanti a uno Iacona adorante la sua proposta per salvarci tutti: liberalizzare i servizi. Le care vecchie privatizzazioni dei beni comuni, cacciate a pedate dalla porta, rientrano sotto mentite spoglie dalla finestra bocconiana.

Non so se avete mai visto un animale chiuso dentro un recinto elettrificato. Anche qui, la scossa che può prendere è una bazzecola, niente di più di quella che si prova ogni tanto toccando la portiera di un auto. Eppure, questo basta a far sì che non si avvicini nemmeno al recinto, se non con grande disagio.

Dodici anni dopo Seattle, ai recinti di cui parlava Naomi Klein hanno aggiunto un bel nastro metallico collegato a una batteria, mentre le finestre...beh quelle verrebbe voglia di tenerle chiuse. Qualche giorno fa Wu Ming proponeva su Twitter di trovare una nuova arma del popolo, al posto dei forconi dell'epoca moderna: io propongo un paio di cesoie, di quelle con i manici ricoperti di plastica isolante.

giovedì 15 settembre 2011

Dizionario tascabile di neolingua per giovani disoccupati

Pubblico con grandissimo piacere un contributo che è arrivato a questo blog da parte di un giovane lavoratore disoccupato, altrimenti detto, nella neolingua di cui sopra, neet:

Da qualche mese sono diventato un "neet": not in employment, education or training. Un'etichetta nuova di zecca coniata da sociologi ed economisti per rendere più cool la figura – ormai pressoché maggioritaria – del buon vecchio "giovane disoccupato".

Fino a pochi mesi fa lavoravo. Il contratto – co.co.pro., per la cronaca – è terminato, e io non l'ho voluto rinnovare.

La cosa vi stupisce? Io, da povero ingenuo e fiducioso cittadino democratico liberale, ho fatto questo ragionamento: se il mercato del lavoro, come sostengono gli apologeti della flessibilità, non è mai stato così libero e flessibile, la cosa dovrebbe valere tanto per i datori di lavoro, liberi di lasciarti a casa quando vogliono, quanto per il lavoratore, libero di lasciare nella merda i suoi datori di lavoro quando preferisce – soprattutto, aggiungo io, se il datore in questione si dimostra propenso allo sfruttamento e impermeabile ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni lavorative.

Se, di nuovo, il mercato del lavoro non è mai stato così libero e flessibile, tanto l'uno quanto l'altro non dovrebbero avere grossi problemi a trovare altre occasioni – di libero sfruttamento in un caso, di libero impiego nell'altro.

E invece, chissà come mai, il datore di lavoro trova subito un rimpiazzo, da pagare ancora meno e da sfruttare ancora più del precedente. Mentre il lavoratore si trova con il culo a terra, costretto ad auto-impiegarsi in quel lungo, penoso, frustrante e gratuito lavoro che consiste nel... cercare un nuovo lavoro.

Veniamo così al primo assioma del "libero mercato del lavoro", che enuncerò di seguito in neolingua:

(1) Il mercato del lavoro è libero e flessibile per tutti. Per il datore di lavoro, però, il mercato del lavoro è libero in quanto flessibile; mentre, per il lavoratore, è flessibile in quanto libero.

Di seguito la spiegazione del primo assioma nella lingua corrente: le riforme neoliberali del mondo del lavoro hanno abolito – e stanno tuttora abolendo – tutele, diritti e garanzie in nome della "flessibilità". Per i datori di lavoro, la flessibilità vuol dire quindi libertà di licenziamento; per i lavoratori, vuol dire invece precariato e lunghi intervalli di disoccupazione tra un lavoro e l'altro nel caso malaugurato in cui subiscano un licenziamento o si licenzino loro stessi.

Ho quasi 28 anni, e ho l'ambizione di considerarmi "giovane". Fino a qualche mese fa ho lavorato, mentre ora sono disoccupato. Potrei quindi definirmi un giovane lavoratore disoccupato. Logico, no?

No. Perché la neolingua ha coniato per me un'etichetta tutta nuova e molto fashion: quella di "neet", appunto. Non sono attualmente occupato, sono giovane e ho lavorato fino all'altro ieri; eppure, non posso considerarmi un "lavoratore". Sono qualcos'altro.

Veniamo così al secondo assioma del "libero mercato del lavoro", che enuncerò di seguito in neolingua:

(2) Un lavoratore di età inferiore ai 31 anni, nel momento in cui viene a cessare il rapporto di lavoro in corso, cessa anche di essere un lavoratore.

Di seguito la spiegazione del secondo assioma nella lingua corrente: se ti fosse riconosciuto il titolo di "lavoratore", ne conseguirebbe che avresti dei diritti e potresti avanzare delle legittime rivendicazioni legate al tuo status. Ma questo il sistema non se lo può permettere. Per cui ti neghiamo lo status di lavoratore e ti appioppiamo uno status nuovo di zecca, coniato per l'occasione dagli ingegneri della neolingua con un carico di connotazioni negative il cui scopo deliberato è farti sentire in colpa per la tua miserrima condizione.

Per l'ex giovane lavoratore che si scopre neet e si trova a fare i conti con la sua rinnovata "libertà", la ricerca di un nuovo lavoro presenta una serie pressoché infinita di ostacoli, seccature e umiliazioni.

Il proverbiale "giro delle sette chiese" ti spinge anzitutto a bussare alla porta delle care, vecchie agenzie interinali. Soltanto per scoprire che aprono due volte alla settimana per un'ora o due al massimo, che molte ricevono solo su appuntamento (in attesa del quale possono trascorrere intere settimane), che per alcune è necessario prima del colloquio registrarsi in internet; e, soprattutto, che un numero spaventoso di persone nelle tue stesse condizioni – o in condizioni di gran lunga peggiori delle tue – ha avuto la tua stessa idea mezz'ora prima di te. Dietro una scrivania, nel frattempo, un'impiegata sottopagata accumula curricula su curricula senza promettere nulla.

Alla porta di una di queste agenzie, è appeso un cartello. C'è scritto: "curricula, iscrizioni, domande di lavoro".

Che strano, penso. Nei manuali di economia chi va in cerca di lavoro si dice che offre del lavoro, non che lo "domanda". A domandare lavoro sono semmai i datori di lavoro. In fondo, il lavoratore viene pagato per il lavoro che svolge, mentre il datore di lavoro è quello che paga...

La stessa curiosa inversione la ritrovo poco dopo nelle pagine di un giornale con "offerte" di lavoro che acquisto all'edicola vicina.

Su questo particolare aspetto, la neolingua del libero mercato tocca il suo vertice insuperato. Perché, se ci si pensa bene, invertire l'ordine di offerta e domanda in riferimento al lavoro equivale a trasformare il lavoro in... una merce che il lavoratore acquista sul mercato!

Che strano. Un signore con la lunga barba nato in Germania all'inizio dell'Ottocento diceva che nel sistema capitalistico le cose stanno, in fondo, proprio così. Infatti il tempo, le energie e le competenze impiegate dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni non sono pagate come dovrebbero; questo succede perché il datore di lavoro – quello che una volta era chiamato "il capitalista" – in un certo senso "ci fa la cresta" tendendo per sé una parte del valore prodotto dal lavoratore. Quindi è come se il lavoratore "comprasse" il suo posto di lavoro, nella misura in cui rinuncia – perché la cede di fatto al datore di lavoro – ad una parte della sua legittima retribuzione.

Di nuovo, che strano. Pensavo che il signore con la lunga barba fosse un relitto del passato, e invece aveva capito tutto. In fondo, ai suoi tempi, mettere in evidenza una cosa del gere significava dare ai lavoratori un buon motivo per incazzarsi. Oggi, invece, una condizione del genere è accettata come normale. Chissà se quelli dell'agenzia interinale col cartello e quelli del giornale hanno mai letto i suoi libri...

I manuali di economia, quindi, raccontano balle. Le agenzie interinali e i giornali non ne hanno bisogno. Difficilmente qualcuno si complimenterà con loro per la sincerità e il fine senso dell'umorismo.

Ecco dunque il terzo ed ultimo assioma del libero mercato del lavoro, che formuliamo, come da tradizione, in neolingua:

(3) L'aspirante lavoratore entra nel mercato del lavoro come offerente, mentre l'aspirante datore di lavoro entra nel mercato del lavoro come potenziale acquirente. Tuttavia, è il lavoratore a domandare lavoro e il datore di lavoro ad offrirlo.

La spiegazione di questo assioma nella lingua corrente trovatevela da soli, che non è difficile.


Grazie a Don Cave per la lucidità, la rabbia e la dignità.



lunedì 12 settembre 2011

Le scuole serali, la shock economy e il regolamento di conti

Il mio amico C. è entrato in fabbrica da ragazzino. E’ giovane, ma già metà della sua vita l’ha trascorsa facendo il saldatore, prima in Salento ed ora più al nord, per cercare uno stipendio e un padrone migliori. S’era stancato di firmare dimissioni in bianco.

Al nord non ha trovato padroni migliori, sono qualcosa di troppo raro anche lì. Forse è per questo che ha deciso di rimettersi a studiare. Quando hai trent’anni, la scuola è una cosa tremendamente seria, è il luogo dove si possono usare ogni giorno parole nuove, dove si cresce sempre, mentre in fabbrica non cambia mai nulla.

E’ una cosa tanto seria che la si ribalta da cima a fondo se è necessario, che si combatte – e si vince – contro professori pigri e incapaci, contro strutture carenti, contro direttori scolastici ostili ed inetti, che si pianta un casino ogni volta che qualcosa non va e che non si impara quanto si vorrebbe.

La genesi delle scuole serali in Italia è legata a quella del caposaldo del diritto del lavoro italiano, lo Statuto dei lavoratori. Fu quest’ultimo a istituire negli anni '70 scuole pubbliche per l’istruzione degli adulti, come parte di un progetto nato dalle lotte del mondo del lavoro che condusse l’Italia a sperimentare un benessere mai tanto diffuso. Mai i lavoratori, nel rapporto con gli imprenditori, erano stati così forti.

Ora, come tutto quello che è scritto nello Statuto dei lavoratori, anche le scuole serali sono sotto attacco, insieme alla tutela dal licenziamento e persino alla possibilità di non essere sorvegliati da telecamere e guardie giurate durante il lavoro. Insieme a tutto ciò che è emancipazione e diritto per il lavoratore.

Nella scuola del mio amico C, come in centinaia di altri istituti, quest’anno le prime classi non partiranno più. Anche qui si palesa il vero intento delle misure che, in un Italia alle prese con continui shock finanziari, vengono approvate in nome del pareggio dei conti: il pareggio, in realtà, è un tentativo di conseguire una vittoria schiacciante, quanto più possibile definitiva, contro i lavoratori. E’ il famoso regolamento di conti.

Il mio amico C. intanto si è diplomato con il massimo dei voti e ora vuole prendersi una laurea in ingegneria. E’ il suo regolamento di conti personale. Ma gli altri dietro di lui troveranno la strada sbarrata dalla riforma Gelmini e da un buio totale di prospettive, in un orizzonte in cui l’unica cosa da fare sembra arrendersi ai dettami di chi la crisi l’ha fatta per salvare non si sa che cosa. Parlare di progresso e, appunto, di emancipazione, sembra un esercizio intellettuale per filantropi che non tengono i piedi per terra.

Il fascismo, ideologia dei padroni per eccellenza, guarda caso non si preoccupò mai dell’istruzione per gli adulti, proprio perché la scuola non poteva servire all’emancipazione, ma solo a creare Italiani fascisti fino al midollo. Oggi la scuola è vista come un terreno di conquista per il mercato, scelta altrettanto ideologica di quella fascista, presa per creare generazioni di ragazzini e adulti privi dell’idea di bene pubblico e disposti a pagare per qualunque cosa. Agli operai, a quanto pare, non resta che andare al Cepu.