giovedì 28 luglio 2011

Nemici

Ci risiamo. Un gruppo di persone lo contesta, e lui perde di nuovo il controllo di ogni freno inibitorio. Nel suo delirio di strabuzzata arroganza questa volta Brunetta ha apostrofato come “cretini”, e poi addirittura “black bloc” e “No Tav” i disturbatori del suo personale show, approdando infine, a coronamento della lista di epiteti, a un esplicito “siete i nemici di sessanta milioni di italiani”. Con la sua risatina isterica da orchetto di Mordor, ha tirato fuori la più antica e consolidata prassi della destra: additare come nemico chiunque metta in discussione il programma deciso dai più forti.

Nemici sono tutti quelli che i padroni chiamano “altri”: i poveri, gli immigrati, i precari, i contestatori. Un'usanza assai disgustosa che si può ritrovare anche in un incredibile opuscolo sulla prevenzione dello stupro, indirizzato alle donne - come si evince dal colore rosa - che circola in questi giorni nella metropolitana di Roma e nella cui introduzione si dice, quasi testualmente, che in una città piena di stranieri, viaggiatori, manifestanti è normale ed è giusto avere paura. Di più. Come per i terremoti, gli incendi e tutti gli eventi inesorabili della natura, bisogna informarsi e imparare la prevenzione in fatto di stupri.

Nella realtà stravolta dei Brunetta, dei Feltri, dei Borghezio e dei Breivik di tutto il mondo, il ministro è minacciato da quattro cittadini armati solo di buoni polmoni, i marxisti vogliono distruggere la civiltà europea e le donne devono imparare a non farsi stuprare per strada.


Intanto, qui, qualcuno comincia a organizzarsi per uno sciopero precario.

martedì 26 luglio 2011

Breivik, i lettori di Libero e le donne

Io di lettore di Libero ne conosco abbastanza bene uno solo. E’ un uomo che ha superato la cinquantina e che, nonostante io dimostri in ogni modo di odiarlo, non riesce a evitare di farmi l’occhiolino e di darmi dei colpetti sulla testa per avere la mia attenzione mentre sto lavorando. L’anno scorso, prima che iniziassi a trattarlo male anche davanti ai suoi pazienti (perché sì, quest’uomo è una specie di medico), aveva anche preso l’abitudine di tirarmi i capelli. Mia madre dice che con lei lo fa di continuo e che si diverte a raccogliere i capelli femminili che trova sui vestiti o sulle nostre sedie e a metterglieli sull’agenda o sul computer. Quest’uomo è fermamente convinto che gli “islamici” – ma perché cazzo non riusciranno a chiamarli musulmani – ci stiano invadendo, che bisognerebbe cacciarli tutti e che sarebbe meglio se ci fosse la secessione, perché tanto sotto Firenze non c’è nulla da vedere e lui, per quel che lo riguarda, non ci mette mai piede.

L’idea dell’invasione islamica e della necessità di una nuova crociata è molto presente agli elettori di destra italiani, nonché lettori di Libero, il Giornale o la Padania. Qui qualche esempio.

Tuttavia, oggi mi preme sottolineare un particolare aspetto della questione, che spesso viene tralasciato a favore di una generica “paura del multiculturalismo”: l’antifemminismo storico della destra, compresa questa destra particolarmente feroce.

Dello stragista ultra-conservatore Anders Behring Breivik ormai si sa quasi tutto – tranne le cose più importanti, tipo chi sono stati i suoi finanziatori e gli assai probabili complici. Si conoscono le sue opinioni, ad esempio, riguardo ai membri femminili della sua famiglia, alle donne in generale e al femminismo. Breivik afferma, nel suo famosissimo documentone e con parole riportate dal Corriere, che sua madre e sua sorella hanno visto le loro capacità intellettive e procreative ridotte per il fatto di aver avuto troppi partner. Dice che la società dovrebbe tenere conto delle differenze naturali tra uomini e donne e che il ruolo delle donne è decisamente quello di dedicarsi alla cura e alla procreazione. Niente di nuovo, certo, basta leggere un qualunque scarabocchio di Massimo Fini per ritrovare lo stesso genere di idee.

Ogni cultura politica che divide l’umanità in razze, nel senso foucaultiano, cioè tipi umani, comunità o quant’altro vuole il controllo sulle donne. La purezza della “razza” può essere perseguita solo laddove c’è il controllo sulle donne (cioè sugli uteri). L’antifemminismo è una delle matrici fondamentali della destra, che ha come suo centro la cosiddetta “tradizione”. La tradizione è il luogo in cui i rapporti di forza uomo-donna sono fissati in un immaginario equilibrio tutto a vantaggio dell’uomo. Non esistono altri modelli di donna che non siano la madre e la prostituta.

Sto scrivendo delle banalità, ma mi premeva sottolineare questo aspetto dell’ideologia a cui Breivik, ma anche Borghezio, Massimo Fini e tutti coloro che veleggiano a destra, si ispirano. Loro si oppongono ad ogni idea che tende all’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e quindi anche all’eguaglianza tra i sessi.

Qualcuno su twitter ha giustamente messo in guardia contro il rischio di “psichiatrizzare” il fascismo, e io sono perfettamente d’accordo. L’antifemminismo di questa gentaglia non ha a che fare con la loro infanzia da figli di divorziati, o con un’adolescenza di spasimanti rifiutati, o con una vita adulta solitaria. Riguarda un’ideologia che ha tra i suoi punti fermi il fatto di attribuire alle donne un posto preciso nel mondo, un posto di naturale sudditanza.

Il lettore di Libero che non riesce a salutarmi come saluterebbe un uomo, con un normalissimo “buongiorno” e che si sente in diritto di disturbarmi per tirarmi i capelli non ha (solo) un problema di relazione con le donne, ha un’ideologia che giustifica quel tipo di relazione. Non è un cretino che non sa avere a che fare con le donne, è un reazionario qualunque.

Breivik, che enumerava i partner sessuali di sua sorella, non è un uomo ossessionato da quanto trombano le donne che lo circondano. O meglio, lo è, ma allo stesso modo di un reazionario qualunque.

mercoledì 20 luglio 2011

Cultura della precarità rulez

Ecco come uno dei siti più seguiti dalle ragazze e dai ragazzi italiani, Studenti.it, oggi parla di lavoro, curriculum e colloquio, prendendo spunto niente meno che da la Repubblica, portabandiera della nouvelle vague del centro sinistra italiano. Nei loro consigli per giovani disoccupati, come vedete, gli ingredienti della distruttiva cultura della precarietà ci sono tutti: essere ruffiani, spudorati, tramaccioni. Sfruttare le proprie conoscenze con fiuto da furetti. Andare a ripescare dalla naftalina le vecchie foto di classe delle elementari e rintracciare i compagni di scuola, cercando quelli che hanno fatto carriera. E se per caso incappate in un vecchio compagno di banco che fa il muratore o che è disoccupato come voi valutate con attenzione, probabilmente è il caso di mandarlo a cagare.

Ricordatevi che il curriculum non basta più, perché è la vostra vita ad essere un curriculum. I social network sono la vostra vetrina, davanti a cui un potenziale datore di lavoro, prima o poi, potrebbe sempre trovarsi a passeggiare. Il vostro tempo libero non va agito per caso, ma va sfruttato per crearvi delle possibilità. Per esempio, mentre ve ne state a gocciolare sudore in palestra, tendete le orecchie a quello che si stanno dicendo i due muscolosi omaccioni dietro di voi. Magari uno dei due è un qualche tipo di manager, un selezionatore di risorse umane, un quadro che può in un modo o nell'altro agganciarvi all'agognata possibilità di un lavoro.

Giocate con i colori, abbinandoli a quelli dell'azienda a cui spedite il curriculum. Non sia mai che il colletto della vostra camicia non sia abbinato al loro logo.

La disoccupazione? Questione di sfumature.

martedì 19 luglio 2011

Parliamo di soldi?

In questi giorni di grandi sommovimenti telematici di indignazione contro la casta, mi sono ritrovata anch'io a strepitare contro la televisione e il computer, scagliando a gran voce ingiurie e maledizioni contro il Formigoni in versione Costa Azzurra o contro una Mussolini ancora più imbarazzante del solito, impegnata ad argomentare gli stratosferici stipendi degli onorevoli tirando in ballo l'alto costo della vita. Mi sono quindi unita, anche se solo tra le quattro mura del mio salotto e non con una bella sfilza di punti esclamativi su facebook, al coro virtuale dei 250 mila e più fan dell'ormai imprescindibile ex-precario di Montecitorio, e mi sono sentita, mio malgrado, parte di loro.

Non è per snobismo, è che io penso veramente che quando si va a guardare al nudo soldo, quando questo diventa l'ossessione e l'origine del male, ci sia sotto qualcosa di profondamente sbagliato. I Pink Floyd hanno descritto alla perfezione l'atteggiamento di cui sto parlando:

Money, it's a crime.
Share it fairly but don't take a slice of my pie.
Money, so they say
Is the root of all evil today.
But if you ask for a raise it's no surprise that they're
giving none away.

Il nudo soldo, il denaro spogliato del suo valore sociale, politico – e persino, anche se è un paradosso, economico - anche se sembra avere una radice morale in realtà non ha alcuna moralità. Alcuni ex politici arrivano a prendere 40.000 euro di pensione al mese. La casta è merda. Però concetti come la redistribuzione delle risorse e del reddito sono tabù, offlimits, idee NIMBY che non devono azzardarsi a varcare la porta di casa, anzi è anche meglio se ne se stanno fuori dai confini comunali, o regionali, o se non ci sono per niente. Žižek parlerebbe di invidia.

A me fanno schifo i politici, che c'entrano il reddito e le risorse? E' proprio questa la domanda che mi sono sentita polemicamente porre e alla quale ho risposto, con saldo spirito di anti-capitalista, che è il sistema ad essere sbagliato, che i politici sono così ricchi perché è tutta una classe ad essere ricca, è il sistema che è tutto teso a creare le disuguaglianze.

Eppure, lo scandalo di quel denaro, di quelle pensioni oscenamente ricche – quasi 70 volte quello che prende mia nonna dopo una vita da contadina – è troppo grande per non far tremare i polsi anche a chi, come me, considera il capitalismo e lo stato che lo serve di per sé inaccettabili. Tanto grande anche da offuscare una manovra che persino Pierluigi Bersani ha definito classista, una manovra che vessa gli ammalati e le famiglie con figli a carico.

Come fare per affrontare questo argomento così pressante senza cadere nella torbida retorica di grillini, attivisti da facciabuco e spidertrumini vari? Don Cave mi ha giustamente fatto notare che è sufficiente affrontare il discorso in una prospettiva di classe, affermando, come già avevo fatto io, che non si può slegare la pensione o lo stipendio orrendamente alti dei politici al sistema produttivo in cui viviamo, un sistema in cui lo stato serve solo a tutelare gli interessi dei più forti.

Eppure, c'è ancora qualcosa che non mi quadra. Cos'è?

giovedì 14 luglio 2011

Io ricordo Genova

Sono nata e cresciuta in una città che si trova a 40 chilometri da Genova, un piccolo centro di industria pesante dismessa, marinai e contadini immigrati. Simile alla grande città più a est, ma allo stesso tempo irrimediabilmente separata da essa dalla storia e da quello strano imbarazzo diffidente che porta talvolta la gente nata sul mare a guardare più volentieri verso l'interno e le montagne che verso altri porti.

Nel luglio del 2001 non avevo ancora 17 anni e Genova era per me la città dove aveva studiato mio padre, quell'enorme reticolo di vicoli che i miei genitori attraversavano correndo, trascinando per mano me e mia sorella bambine, quando andavamo un paio di volte all'anno a comprare gli aghi da agopuntura in una bottega cinese al primo piano di un tetro palazzo del centro storico. Allora certe zone potevano essere pericolose anche in pieno giorno.

Era il quartiere di ruggine, Cornigliano, che scorreva fuori dai finestrini del treno, nelle mie prime esplorazioni dei festival e dei negozi della grande città. Era qualcosa che c'entrava con i dischi di De André, ma non sapevo ancora come. Non capivo in che modo le due Genova, quella che conoscevo attraverso il poeta e quella che vedevo con i miei occhi, potessero essere lo stesso luogo. Iniziai a capirci qualcosa un paio di anni dopo, dopo il G8 e i massacri visti in tv.

In quel luglio la mia piccola cittadina di provincia, fieramente indipendente, fu inghiottita suo malgrado dal caos che la metropoli, recintata e blindata, sputava verso le periferie: le vie invase dai camion costretti a uscire dall'autostrada, la polizia ovunque, l’invito a non parcheggiare le auto nei dintorni della stazione o nelle zone più centrali (sembra incredibile, ma è così). Il tg regionale ci sottoponeva ogni sera a tutta una liturgia di incitamenti all'ansia e alla paura.

Inutile dire che nella grande città, in quei giorni, non ci misi piede. Rimasi a casa, incollata alla tv e alla radio, incapace di credere che davvero quelle scene terribili si stessero svolgendo a un passo da me. Ogni tanto, nelle ore trascorse a seguire le notizie, l'idea di Genova e della repressione mi arrivava addosso come uno schiaffo. La grande città di ruggine non era mai stata così vicina, e non si allontanò mai più, nonostante non me ne sia sentita mai parte, nonostante qualcosa di me provi ancora un brivido di circospezione quando mi addentro nei suoi vicoli – oggi assai diversi da com'erano vent'anni fa -, percorro con lo sguardo i suoi infiniti quartieri allungati verso ponente, cammino nella folla delle sue strade larghe, quelle che videro migliaia di persone, in quei giorni, cercare riparo dalla ferocia dello stato.

Il mio ricordo di quel luglio è la paura, la paura della violenza e del dolore, di un potere che terrorizza, stritola e spacca le persone. Del fatto che tutto questo fosse vicino, quasi a casa mia.


Io ricordo è un progetto che si trova qui.

martedì 12 luglio 2011

Shock Economy

Shock Economy è il termine coniato da Naomi Klein per indicare un meccanismo tipico del neoliberismo, rodato durante gli anni terribili dei colpi di stato filo-USA in America meridionale, e poi esportato in tutto il mondo. Si tratta, sostanzialmente, di approfittare di un evento traumatico (o di crearlo dal nulla alla bisogna) che scuota la popolazione di un paese per imporre politiche economiche che in condizioni normali sarebbero respinte. Nel momento in cui i cittadini si ritrovano spaventati, frastornati, incapaci di reagire in modo coordinato e coerente, varare provvedimenti volti a impoverirli, a rendere il loro lavoro incerto e a derubarli dei beni pubblici: privatizzazioni, tagli, abbassamento dei salari, restrizione dei diritti sindacali e via dicendo.

E’ nel momento dello shock – non un attimo prima – che le decisioni vengono prese, cioè quando coloro che subiranno gli effetti terribili dei provvedimenti sono annichiliti dalla paura. Ha seguito questo iter lo smembramento di paesi come il Cile, l’Argentina, la Russia, l’Iraq; luoghi che hanno sperimentato passaggi violentissimi verso un regime di svendita delle risorse, depauperamento della popolazione e perdita dei diritti. Ma ha imboccato questa strada anche la vicinissima Grecia, proprio in queste settimane, e la imboccheremo anche noi, con l’assai probabile istituzione di un governo di “coesione nazionale” (o “salvezza nazionale”, come l’ha chiamata, nel suo consueto delirio di tracotanza, D’Alema) che prenda quei provvedimenti che nessun governo eletto, in tempi normali – men che meno questo governo – potrebbe permettersi.

I seguaci della dottrina dello shock non perseguono il totale intorpidimento, sanno bene che una parte della popolazione continua ad agire comunque, a ribellarsi. Vogliono però creare una frattura nella normalità, dirottare il treno verso un binario anomalo, incerto, spaventoso. Su quel binario non solo le loro proposte sembrano, nel furore della corsa, accettabili, ma anche le violenze usate per reprimere le proteste. Proprio perché il tempo del diritto è perso lì dietro, da qualche parte.

L’unica soluzione, come già dicevano i 99 Posse, è fermare il treno.


Qui Tito Boeri, economista caro al centro sinistra, raccomanda l’immediata applicazione dell’accordo golpe tra Confindustria e sindacati.

martedì 5 luglio 2011

Sulla violenza

A volte le letture sono tanto più utili perché capitano in un momento particolare, proprio in quel momento lì in cui ce n'era bisogno. Così ecco che proprio pochi giorni prima della grande manifestazione No Tav del 3 luglio mi sono finalmente decisa ad approcciare un testo di Žižek, scegliendo quella che mi è parsa una delle sue opere più agili e alla mia portata, ovvero La violenza invisibile. Nelle pagine iniziali, Žižek elabora, attraverso Lacan, una distinzione tra violenza soggettiva e violenza oggettiva: la prima è quella che salta agli occhi, che si staglia su uno sfondo di normalità; la seconda è quella detta, come da titolo, "invisibile", cioè la violenza nelle imposizioni attuate dal linguaggio stesso, ma anche quella che Žižek chiama "violenza sistemica", ovvero quella generata dal funzionamento del nostro sistema economico e politico. Tra la prima e le seconde c'è un salto non solo qualitativo, ma anche quantitativo: la violenza oggettiva è sempre enormemente di più.

La violenza soggettiva è facile da riconoscere: è quella di un cordone di poliziotti che sparano una pioggia di lacrimogeni su una folla di manifestanti, ed è quella del manifestante che lancia una pietra contro il poliziotto. Quando si passa a tentare di decifrare l'apertura di un cantiere che squarcia una valle, si vedrà che il giudizio, per molti, diventa assai più difficile, che l'immagine è assai meno stagliata sullo sfondo. Se poi ci si interroga sul fatto di immaginare, progettare, costruire e rendere operativa una linea ferroviaria di quel tipo, a quelle condizioni (cioè nelle nostre condizioni) si vedrà che per la maggior parte delle persone la violenza proprio non c'è. Al massimo si considererà un'opera tanto costosa poco opportuna in un contesto economico così critico, ma in fondo potrebbe anche rilanciarci, potrebbe portare lavoro e accrescere questi benedetti scambi con l'Europa (come se la fantastica Europa fosse lì, ad applaudire il nostro arrivo quando finalmente spunteremo dall'altra parte del tunnel). Non si riesce a scorgere, invece, la violenza che si genera come conseguenza della messa in moto di una mole così grande di capitale, capitale che sarà messo a profitto attraverso clientelismi, appalti truccati, sfruttamento del lavoro, distruzione dell'ambiente eccetera.

La violenza sistemica è quella che fa sì, come spiega puntualmente Marco Revelli nel già citato Poveri, noi, che l'Italia sia un paese in cui esiste una frattura netta tra quel 10% di popolazione che possiede quasi la metà della ricchezza e del potere, e tutti gli altri, in particolare quel 50% che si ritrova a doversi spartire il 10% delle risorse. Un paese in cui "la ricchezza dei ricchi, come nelle «società di ceto» tardomedievali, è diventata intoccabile". Una società, cioè, "bloccata", in cui esistono "cittadinanze separate". Un'Italia - ma anche una Grecia, un Egitto, un'Europa - all'interno della quale esiste una frontiera: da una parte il paese delle decisioni e dei vantaggi, dall'altra il paese che non ha alcuna voce in capitolo e i cui interessi sono ignorati.

Frantz Fanon, nelle sue struggenti descrizioni del mondo coloniale, parlava proprio dell'esistenza di una frontiera interna ai paesi sotto il giogo del regime coloniale: si trattava di società la cui caratteristica era la "compartimentazione", l'imposizione forzata di barriere, confini, frontiere il cui scopo era dividere la società tra coloro cui i diritti - anche politici - erano garantiti, e coloro che invece non li avevano. La frontiera era imposta con la violenza, ogni giorno, con un tipo di violenza che si esprimeva sì nella repressione fisica, ma anche nelle politiche economiche, scolastiche o sanitarie che riguardavano gli "indigeni". Il famoso cuore di tenebra dell'Occidente – l'Occidente illuminista dei diritti e del pensiero scientifico - era proprio questo bisogno di conquistare, di sottomettere e di discriminare l'Altro. Lo stesso cuore di tenebra, dico io, di cui si può scorgere la verità terribile guardando nel buio profondo di un tunnel vuoto e inutile lungo 50 chilometri.


venerdì 1 luglio 2011

A proposito delle operaie della MaVib e di vecchie tare familiari: “Patriarcalismo di ritorno”, di Marco Revelli

E' di ieri la notizia che una piccola azienda del milanese, la MaVib, ha licenziato quasi tutte le sue operaie donne, salvaguardando il posto degli uomini, con la motivazione che “quello portato a casa dalle donne è comunque un secondo stipendio”. Non solo, i dirigenti dell'azienda hanno anche affermato che il licenziamento permetterà alle ex-lavoratrici di stare finalmente a casa a curare i bambini, e i colleghi uomini, quando le operaie hanno organizzato una mobilitazione, hanno preferito andare a lavorare regolarmente piuttosto che portare la loro solidarietà.

Qui, il post di Lipperatura su questa e su altre schifose vicende.

Io, invece, ho deciso di riportare qui un estratto del libro di Marco Revelli Poveri, noi, sull'impatto della crisi sulle famiglie italiane.


Patriarcalismo di ritorno. Padri, figli, famiglia

Le specifiche politiche sociali messe in campo dal governo – incentrate in forma pressoché esclusiva sul doppio pilastro costituito dagli ammortizzatori sociali (leggi cassa integrazione) e dalla famiglia – hanno poi contribuito, per parte loro, a rendere particolarmente selettivo l'impatto della crisi, differenziato non solo per settori produttivi e per collocazione geoeconomica, ma anche, e forse soprattutto, per composizione anagrafica e forza lavoro. A segmentare il mondo del lavoro secondo linee di frattura generazionali, per differenziali costituiti dall'anzianità aziendale e dalla complessa geografia parentale, fino a disegnare un «modello italiano» di rapporto tra povertà e crisi diverso da pressoché tutto il resto d'Europa. Sul breve periodo forse più rassicurante. Ma tendenzialmente più regressivo. E sicuramente disegualitario, con oscillazioni assai forti tra aree di esposizione e aree di copertura. Tra «sommersi» e «salvati».

I giovani, ad esempio, sono stati «massacrati». Quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, di somministrazione, a progetto eccetera. Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi.

[…] I «padri», invece, i lavoratori manuali delle classi d'età centrale e – in quote consistenti – con un'anzianità tale da aver loro assicurato un lavoro a tempo indeterminato, sono, almeno in parte, rimasti sotto l'ombrello protettivo dell'ammortizzatore sociale. Investiti dalla crisi, hanno tuttavia conservato – almeno in un primo tempo – il posto di lavoro e uno zoccolo duro di reddito, assottigliato di un 30-40% dal meccanismo della cassa integrazione, defalcato dalle diverse indennità e dalle quote di lavoro straordinario, ma non estinto. E poiché, statisticamente, sul reddito della famiglia è il salario del padre che incide per la parte essenziale, mentre quello dei figli pesa appena per la metà e quello della donna solo di qualche punto percentuale in più, il saldo finale famigliare si è mantenuto in molti casi – almeno fin'ora – al di sopra della linea di galleggiamento. Smagrito, ridotto all'osso, ristretto all'essenziale, ma comunque sufficiente per non far precipitare tutto il gruppo famigliare. Per frenare (o mascherare) la caduta della famiglia. La quale viene a funzionare, per questa via, da struttura portante di un del tutto originale «welfare informale» all'italiana: organo di redistribuzione di un reddito misto a geometria variabile, in cui il sussidio pubblico viene filtrato dalla figura centrale di un breadwinner patriarcale riconfigurato come nuova cerniera tra Stato e Mercato. E come ripristinato fulcro di una gerarchia altrimenti perduta, chiamata a sostituire il sistema universalistico, ma più impersonale e più costoso, dei diritti.

[...]anche laddove [il modello italiano] «tiene», nei settori centrali e maggioritari del sistema della forza lavoro, il prezzo pagato è alto, soprattutto da parte della famiglia che, chiamata a un ruolo di supplenza rispetto alla regolamentazione pubblica, vede crescere esponenzialmente lo stress a cui viene quotidianamente sottoposta, l'ampiezza del fronte di bisogni da coprire, le mediazioni interne da realizzare. Col risultato di una tendenziale chiusura verso l'esterno. Della esasperazione di quella tendenza al «familismo amorale» che appartiene endemicamente alla tradizione italiana nella forma, ben conosciuta, di un sostanziale egoismo di gruppo e di una reiterata amnesia della dimensione pubblica. Cui si accompagna una parallela verticalizzazione dei rapporti parentali: il rafforzamento, patologico, del modello – anche questo tutto italiano – di famiglia incentrata sul male breadwinner (sull'unico reddito del capofamiglia maschio, adulto, marito-padre), i cui costi sociali sono stati ampiamente documentati; il rinnovato assoggettamento generazionale dei figli ai padri. In sintesi, il ripristino di gerarchie radicate nel bios, e la replica coatta di una tradizione non più reinventabile, come si addice, appunto, a una società che cerca, nel «ritorno all'abituale», un'improbabile rassicurazione contro la «furia del dileguare» di un processo che non sa controllare".