mercoledì 30 novembre 2011

Precariato e influenza

Capita a tutti, precarie e precari compresi, di beccarsi l'influenza ogni tanto. Tuttavia, persino una cosa così semplice e che rientra nell'ordine dell'assai probabile, nel mondo in cui vige la legge del precariato diventa piuttosto complicata. Ecco alcuni esempi.

Se avete un contratto a progetto, può capitare che il vostro datore di lavoro sia uno di quei padroni di buon cuore, che vi tiene a progetto perché - dice lui - non è che può fare altrimenti, con i tempi che corrono. Allora non se la prenderà se non vi recate al lavoro per un giorno o due, e non vi decurterà l'assenza dal già magrissimo mensile. Piuttosto, utilizzerà la sua generosa concessione come un argomento per dimostrare che ok, sei a progetto, però è come se ce le avessi le tutele, è solo che così paghiamo meno tasse, però vedi che poi la malattia, per esempio, ce l'hai. Codesti padroni di solito non assumono donne perché hanno il problema che restano incinte, e vi preferiscono anche se non siete del sud, non tanto per razzismo quanto per il fatto che più è lontana la vostra famiglia e più potrebbe venirvi la voglia di chiedere le ferie.

Se siete dei freelance e lavorate principalmente da casa, della vostra influenza non importerà niente a nessuno. Farete le vostre consuete ore di lavoro - magari dodici - dal letto, sotto le coperte. E' il brutto di essere autonomi, vi diranno i vostri clienti, però vuoi mettere la libertà.

Se siete dei portapizze, magari pakistani, andrete al lavoro lo stesso. Un paio di giorni di assenza, con la concorrenza che c'è, possono costarvi il posto e così, nonostante il lavoro che fate vi porti ad ammalarvi anche più degli altri precari, passerete come al solito la giornata a cavallo di un motorino, con l'aria fredda che vi taglia gli occhi e le guance. Butterete giù una tazza di té al cardamomo sperando che vi preservi dalla polmonite che, tra le sigarette e il lavoro, non smette un attimo, per tutto l'inverno, di seguire i vostri passi.

Se invece siete pagate ad ore e per di più in nero, vi farete un sacco di paranoie. Dopo una buona mezz'ora di titubanza, chiamerete il vostro capo e, nella nebbia della febbre, scambierete il suo "Non preoccuparti, ce la facciamo" per una formula di licenziamento. Passerete tutta la mattina a implorare un'entità qualunque affinché ingolfi il telefono di chiamate, faccia andare il tilt la cassa e magari renda anche i colleghi improvvisamente muti e alieni alla lingua italiana. Qualunque cosa riesca nell'intento di far capire al capo che voi, ancorché generiche e superprecarie, servite.

Se invece vi trovate nella condizione di non avere neanche uno straccio di lavoro, nemmeno la partita IVA, neanche un rimborso spese simbolico, l'influenza rappresenterà per voi una magnifica occasione di vacanza. Finalmente potrete passare una giornata a leggere, a scrivere o a fare quello che vi pare - almeno negli intervalli tra un pisolino febbricitante e l'altro - invece che trascorrere il vostro tempo tra interinali, colloqui più o meno fittizi, trame relazionali che potrebbero, forse un giorno, materializzarsi in una vaga possibilità di collaborazione occasionale. Ve la godrete, l'influenza, come quella tregua che cercate da tanto, come il poter riposare senza sensi di colpa, senza il dubbio, martellante, di essere causa del vostro stesso male.

In ogni caso, sia che abbiate accolto con favore o meno l'influenza, sappiate che forse ve la siete presa da un portapizze che ha starnutito sul vostro pranzo.

sabato 26 novembre 2011

Chi ha paura dei poveri?

Nei momenti di crisi la distanza che ci separa dalla miseria, quell'elastico che tendiamo con tutte le nostre forze puntando i piedi sul terreno, si accorcia notevolmente. L'elastico di colpo si fa più spesso e robusto, e difficile da tirare. Ci sentiamo trascinare, scaviamo solchi nel terreno con i talloni, e andiamo nel panico quando della tanto temuta povertà, che fino a quel momento riuscivamo a tenere d'occhio da lontano, iniziamo a scorgere gli orrendi dettagli.

Ed ecco allora che tutto ciò che riesce a darci l'illusione di esserne ancora distanti ci consola, e iniziamo a provare una grande gratitudine per quegli omini in pettorina gialla che ci aspettano alla cassa del supermercato, chidendoci di donare un pacco di biscotti o un barattolo di passata. Tra noi e il povero, il barbone, il lavoratore decaduto, il disoccupato cronico, il pensionato ridotto alla fame, ora ci sono loro, con le loro facce buone e i loro scatoloni ricolmi di ricchezza.

Niente scava più distanza tra la ricchezza e la povertà della beneficenza, ma la beneficenza fatta per interposta persona, mica quella dei cinque euro messi in mano al Senegalese che vende i libri per strada: quello ti viene tanto vicino che puoi vedere le sue labbra spaccate, i suoi occhi stanchi, i suoi denti rosi dalla carie. E ti vengono i brividi, perché lo sai di avere un dente cariato pure tu, ma per andare dal dentista hai deciso di aspettare tempi migliori. Prende il tuo stesso treno, il Senegalese, perché come te abita fuori città, dove l'affitto costa meno. Nei giorni feriali avete più o meno lo stesso odore. Certe mattine daresti una mano per non incontrarlo mai più. Daresti un pacco di biscotti al giorno, per tutta la vita, per non incontrarlo mai più.

Dedicato a tutti coloro che oggi, giornata nazionale della colletta alimentare, se la sono presa con i Wu Ming pur di non ammettere che l'evento sia organizzato da CL e che non sia, quindi, pura emanazione della bontà sociale, cui affidare ciecamente la propria offerta apotropaica. Immagino facciate parte dell'85% di italiani che si dicono spaventati dal futuro. Ne faccio parte anch'io, in pieno. Ho anche paura dell'aereo, degli incendi, dei botti di capodanno, dell'autostrada e se sono da sola a casa anche il buio mi inquieta un po'. Ma la paura dei poveri è troppo vigliacca persino per me.

giovedì 24 novembre 2011

Di cameriere, statistiche, uomini che costruiscono falli con la verdura e violenza di genere

In un bar del centro c'è una cameriera piuttosto scontrosa. Non sorride mai, non alza lo sguardo sui clienti quando li serve, ma mantiene gli occhi fissi sui bicchieri e sulle tazze che sta scaricando al tavolo. Attraversa il locale a grandi falcate, con aria indifferente. Un amico, mentre aspettavamo che lei ci servisse, una volta disse che quella ragazza aveva precisamente l'aria di una capace di prendere un cliente a morsi.

Il bar è uno di quei bar in cui appena cala il sole la gente inizia a parlare a voce troppo alta. Quella volta feci notare al mio amico il fatto che, in un posto del genere, una cameriera carina e gentile allo stesso tempo avrebbe una vita tutt'altro che facile. I clienti ci mettono un attimo a scambiare la tua buon educazione per disponibilità sessuale, specialmente dopo un paio di spritz.

La molestia non è qualcosa di riducibile al suo semplice aspetto sessuale. Quando un cliente, un passante, un professore o chicchessia ti rompe le ovaie a proposito del tuo culo, del tuo bel visino o di qualunque altra cosa, non ti sta, ovviamente, facendo un complimento, e fin qui ci siamo. Sta facendo di te un oggetto, e questo è certo, ti sta dicendo, sotto sotto, "tu sei mia se lo voglio". Ma non solo, sta anche dicendo "il tuo bar è mio, questa strada è mia, le aule in cui studi sono mie", Sta esprimendo la sua supremazia sui tuoi luoghi, sul tuo tempo, sulle cose in cui investi le tue energie e sulle tue necessità.

Il tuo corpo e la tua mente puoi sottrarle ad un uomo, difendendoti da lui. Ma il tuo luogo di lavoro? La tua università? Le strade in cui cammini? Tu, da sola, non basti. Puoi schivare il viscidume degli uomini mostrandoti particolarmente antipatica, ma non puoi impedirgli di dettare legge dove trascorri il tuo tempo, dove impari, dove ti guadagni da vivere.

E anche se sono d'accordo con la maggior parte di quanto scritto dall'autrice di questa magnifica lettera, non credo affatto che ciò di cui abbiamo bisogno siano luoghi protetti, rifugi in cui costruire le nostre vite, al riparo. Quello che ci vuole, credo, è invece un'alta marea che affoghi tutti coloro che, appesantiti dai loro ego gonfi di testosterone, non siano capaci di smetterla; un'ondata che, ritirandosi, scopra finalmente strade in cui possiamo camminare in pace, e bar in cui possiamo servire birre su birre senza doverle contare, senza dover monitorare lo stato alcolemico dei clienti per evitare che ci rovinino l'ennesima serata.

Io sono stata fortunata. Per una settimana è venuto a lavorare in pizzeria un cuoco amico del mio capo, uno di quegli uomini che amano riempire l'aria attorno a sé del frastuono delle loro battute, del chiasso dei loro doppisensi, urlati e ripetuti solo perché urlare e ripetere "io sono maschio e tu no" risulterebbe alla lunga poco divertente persino alle orecchie di quegli imbecilli dei loro amici. Sapendo che questo atteggiamento da primate, ovviamente, mi infastidiva, il cuoco lo perpetrava in mia presenza persino con maggiore convinzione. Le sue eccezionali affermazioni di virilità consistevano, ad esempio, nell'innalzare in cucina sculture vegetali in cui a spiccare, tipicamente, erano grosse carote piantate in verticale, posizionate dove io potessi ritrovarmele proprio davanti agli occhi. A causa delle sue simpatiche trovate ho passato una brutta settimana. Per fortuna, ripeto, il tizio è rimasto solo qualche giorno, ma se non fosse andata così? Che avrei fatto?

Nonostante l'apparenza irsuta, il testosterone è un ormone debole, basta poco per mandarlo in crisi. Per lo stesso principio, dovrebbe essere tutt'altro che impossibile insegnare ai ragazzi a non molestare, a lasciare in pace le loro simili. Per quando riguarda molti uomini adulti, credo che l'unica cosa saggia da fare sia evitare che nuociano e attendere che il tempo ce ne liberi, ma i ragazzi?

Ancora una volta, non siamo noi donne a dover imparare, non siamo noi che sbagliamo, sono gli uomini. E allora, che siano loro a fare i corsi di recupero, che siano loro i destinatari delle pubblicità progresso, delle statistiche e dei volantini sulla violenza di genere. I luoghi in cui si verbalizza la violenza, in cui la violenza appare e viene discussa, sono solo ritagliati su di noi, sono solo nostri. La violenza di genere non è nostra, è loro, da sempre.

Questo post arrabbiato e sconclusionato è stato ispirato da quest'altro post di Lipperatura, a sua volta collegato all’uscita delle inquietanti statistiche sulla violenza di genere subita dalle studentesse dell’Alma Mater di Bologna.

lunedì 21 novembre 2011

Working poors

I ragazzi in cerca di lavoro arrivano verso le sei e mezza, nel caso ci fosse bisogno di loro quella stessa sera. Gli incidenti sono frequenti, e le pizzerie da asporto possono ritrovarsi a corto di personale da un momento all'altro. Questi fattorini itineranti sono talmente numerosi che il loro passaggio, uno per volta, un po' ogni giorno, fa parte della routine.

L'amico che lavora con me ha fatto un incidente proprio qualche giorno fa. Il mio primo pensiero, quando l'ho saputo, è andato alla sua testa e alle sue gambe, ma il pensiero successivo, una frazione di secondo dopo, andava già al suo motorino. Non si è fatto molto male, ma il manubrio non risponde più come dovrebbe e i soldi per aggiustarlo - così come l'assicurazione - non ci sono. Quella mattina, dopo aver fatto le ultime consegne su un motorino rotto, il mio amico è tornato a casa per bere un bicchiere di latte e zafferano contro il dolore.

Come in un film neorealista insopportabilmente in ritardo, il mio amico non ha i soldi per pagare i suoi creditori, nè per ricaricare il cellulare, né per far riparare la sua moto. In pratica non ha i soldi neanche per lavorare. Eppure passa in pizzeria più di sessanta ore a settimana.

Ogni tanto, qualcuno a cui lui deve dei soldi si fa vivo alla nostra porta, o lo costringe a lunghe telefonate. Ci sono volute parecchie centinaia di euro di pizzo soltanto perché potesse avere la residenza a Bologna, e quindi il permesso di soggiorno. Ieri ha deciso di rivolgersi a suo fratello in Pakistan, perché gli spedisca qui, nell'Italia del suo sfortunato approdo, quello che laggiù è l'equivalente di un anno di stipendio. Per lo strazio non mangia quasi nulla e i suoi capelli, già bianchi, sono diventati ancora più ispidi.

C'è qualcosa di così insopportabile nella sua fatica che a volte è meglio fingere che non ci sia. Scherziamo come se niente fosse. Non so se sia per questo, ma certe mattine mi sembra persino allegro. Forse gli piace specchiarsi nel mio brontolio leggero, di chi non ha pensieri troppo gravi, e immaginarsi libero, quantomeno, da alcune delle sue catene.

domenica 13 novembre 2011

Dead Land Walking

Ed è con lo champagne stappato in piazza e i ringraziamenti a Napolitano che un esecutivo ormai stabilmente nelle mani di organismi internazionali senza alcun rapporto con la democrazia ha fatto passare una legge che nei fatti distrugge alcuni degli ultimissimi argini che la società italiana aveva costruito contro il neoliberismo. L'annullamento del risultato del referendum, fatto inghiottire come una pastiglia di Rohypnol disciolta già nel primo dei nostri calici.

Dell'agenda di Mario Monti si sa già praticamente tutto: svendita dei beni pubblici, liberalizzazioni, privatizzazioni, tagli. Niente di diverso dalle ricette applicate in Grecia, ma prima ancora nella Russia del golpe di Eltcin, in Cile, in Ecuador e ovunque a questi personaggi siano state lasciate le mani libere. Come nel copione di ogni operazione di shock economy, percorreremo il nostro miglio verde nello stordimento, accecati dalla paura. Qualcuno reagirà, è nell'ordine delle cose, ma la maggior parte delle persone accoglierà con un sospiro di sollievo l'avvento dei nuovi padroni.

Repubblica, con la nonchalance di uno Zelig che sa di fare propria sempre l'immagine del più forte, ha già preso a salmodiare la propaganda del nuovo governo: il gigantesco post-it con cui, a quanto pare, ha intenzione di ricoprire un paese intero.

Nel film La città incantata, c'è una scena che mi ha sempre colpita moltissimo: la bambina protagonista, Chihiro, ha appena visto i suoi genitori puniti da un incantesimo e si ritrova da sola in mezzo a una folla di spiriti che sembra travolgerla. Non solo, ma si accorge anche che il suo corpo sta perdendo consistenza e che è sul punto di scomparire del tutto. Un abitante della città incantata, il maestro Aku, la scorge e le offre una bacca da mangiare. Grazie ad essa Chiriro piange enormi lacrime di paura e torna visibile, pronta ad affrontare il duro lavoro che la aspetta per riconquistare la libertà per sé e per i suoi genitori.

Oggi penso che anche a noi occorrerebbe una di quelle bacche, così potremmo piangere per noi stessi, per i nostri errori, per le nostre incertezze, per la povertà che già viviamo e per quella che ci aspetta. Dopo aver versato le nostre lacrime, potremmo finalmente spogliarci dell'abito funebre che già ci hanno fatto indossare nella certezza di seppellirci, e così ritrovare la nostra voce per parlarci e le nostre braccia per rimboccarci le maniche.

venerdì 11 novembre 2011

Segni

Il mio amico A. è uno che crede nei segni. Qualche giorno fa, lui e un suo amico stavano seduti in un parco a parlare di soldi, che è quello di cui i poveri parlano quasi sempre. Nel giallo dorato delle foglie, un bel momento sono cadute sette foglie ancora verdissime, proprio ai loro piedi. Il mio amico le ha raccolte e la divise: quattro le ha date al suo amico, che si è appena sposato, e tre le ha prese per sé.

Poi è venuto al lavoro, in pizzeria, e si è licenziato. Il capo gli ha risposto semplicemente "Perfetto". Stamattina, giorno di fenomenali congiunture numerologiche, ha ricevuto una telefonata in cui confidava da tempo. Il fatto che sia venerdì, giorno sacro, non ha fatto altro che rafforzare la sua fiducia. Trascorrerà il pomeriggio, nella pausa del lavoro, in moschea a ringraziare Allah per ciò che già gli ha dato e ad implorarlo di non chiudergli la via.

Il mio amico è una persona talmente straordinaria che, nel buio più fosco, è capace di scorgere presagi positivi tra le foglie degli alberi. Io non gliel'ho detto, ma ho paura che questo 11.11.11 sia una gran truffa, l'ennesimo abbaglio dell'essere umano, però gli invidio il coraggio e la gentilezza delle sue speranze.

Un venerdì notte, mi ha raccontato, ha sognato che mi vedeva partecipare a una gara di corsa e tagliare per prima il traguardo. Non lo so a che si riferisse, dato che l'unico traguardo che ho davanti al momento è quello di pagarmi con le mie forze tutte le spese, e non sono nemmeno certa di farcela. Forse qualcosa di più lontano, qualcosa che ancora non vedo.

mercoledì 9 novembre 2011

La brutta aria

La pizzeria in cui lavoro è più esemplificativa, come Italia in miniatura, di qualunque parco a tema: c'è il capo ex-militante antisistema e ora sfruttatore feroce, ci sono i licenziamenti, c'è il sessismo, ci sono i clandestini e c'è anche l'evasione fiscale. C'è lo stipendio da fame, ci sono i diritti e i doveri detti a voce inter nos, c'è il caos e l'arrangiarsi giorno per giorno e però dai, cazzo, che qui si mangia come da nessun altra parte.

Ebbene, in questo piccolo mondo la scossa degli spread a 575 punti, del tetro ritrarsi di ogni parvenza di democrazia, dei rendimenti che già gli strozzini globali hanno messo da parte la benzina per darti fuoco alla macchina, s'è sentita eccome. Ieri sera e stamattina il telefono ha squillato appena per qualche ordine dietetico, in due momenti della settimana da mesi sempre ruggenti. I clienti più danarosi - grossi uffici occupati da compagnie finanziarie e assicurazioni - hanno pranzato in bianco, senza andare minimamente a scalfire le nostre scorte di sughi e primi fastosi. In cucina, invece del rumore secco delle padelle, si udivano suoni fruscianti di pulizia e voglia di smobilitazione. Il capo, in uno dei suoi consueti sproloqui politico-gastronomici, si è persino messo a blaterare di anticapitalismo e a sfanculare la Marcegaglia, che il baratro lei lo vede forse in fotografia.

Insomma, io non lo so se la due giorni più sfigata della mia carriera di cassiera, caduta proprio nel momento in cui più si fanno scure le ombre sul futuro del paese, sia solo una coincidenza. Fatto sta che nella piccola Italia di questa scalcinata pizzeria di Bologna tira una brutta, bruttissima aria.


Qui un interessante schema che spiega quali sono i paesi più esposti nei confronti del debito italiano e, quindi, quelli più interessati a prolungare ad libitum la nostra agonia finanziaria.

martedì 8 novembre 2011

Articolo 2. Diritto alla vita

Il governo Berlusconi non esiste più da tempo e il parlamento italiano è uno stagno fangoso isolato in una pianura arida, con gli ultimi coccodrilli rimasti che continuano a dibattersi solo per evitare che la melma attorno a loro, seccandosi, li intrappoli a morte. E' uno spettacolo che certamente potrà interessare qualche zoologo sadico - come sono, in fondo, i molti Divi dell'infotainment che già si preparano per il party del dopo-Silvio - ma che a molti altri fa semplicemente ribrezzo. Anche perché dopo il party non ci aspetta certo un risveglio con cappuccino, brioche e un bel Polase per i postumi.

I burocrati delle istituzioni europee e del FMI infatti sono già nascosti dietro alle tende, per infliggerci quella che sarà certamente una delle più memorabili feste a sorpresa della nostra epoca. Gli stessi burocrati che nella loro Convenzione per i diritti dell'uomo (CEDU, poi inserita attraverso la Carta dei diritti fondamentali della UE nel Trattato di Lisbona) così scrivevano a proposito del diritto alla vita:

"Articolo 2 - Diritto alla vita

1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena.

2. La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza
resosi assolutamente necessario:
a. per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale;
b. per eseguire un arresto regolare o per impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta;
c. per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione."

Attenzione a non festeggiare troppo, da sbronzi non si può dormire con un occhio aperto. Intanto a Londra già la polizia sarà autorizzata, durante la grande manifestazione di domani, ad utilizzare veicoli blindati e proiettili di gomma, esattamente come avvenuto durante i riot di quest'estate.

lunedì 7 novembre 2011

La crisi e i cortocircuiti del maschilismo

La settimana scorsa il mio capo ha cacciato il cuoco neoassunto, quello che doveva scalzarmi dal mio posto di lavoro come tuttofare generica in nero. L'ex-neocuoco ha poco più di vent'anni, ed è appena arrivato a Bologna dal sud. Il capo l'ha mandato via non appena si è presentata l'occasione, approfittando di un cliente scontento per accusare il poveretto di un errore in cui non c'entrava praticamente nulla. Il ragazzo ha inghiottito la rabbia e ha chiesto scusa, ma non è servito. Ecco come salgono gli indici di disoccupazione giovanile, con un grumo di merda e di lacrime buttato giù, e qualcuno dall'altra parte a cui non importa niente.

Quando ho saputo che il cuoco era stato mandato via e che il mio stipendio era salvo, lì per lì non ci ho capito nulla. Ho pensato si trattasse di una questione personale o del segno definitivo della pazzia del capo, ma poi la triste verità mi è arrivata alle orecchie tra le chiacchiere della cucina: io costo meno.

A giugno, durante le strane settimane del presidio accampato di Piazza Maggiore, decidemmo di organizzare un laboratorio sulla discriminazione di genere. Sapevamo che avrebbero partecipato molti passanti e tanta gente che non aveva mai realmente affrontato il discorso, così optammo per lasciar fluire il dibattito, per vedere dove portava. Ebbene, la maggior parte degli uomini intervenuti sostenne la tesi che la discriminazione nei confronti delle donne non esista, e che in realtà le donne siano spesso avvantaggiate sul lavoro e nella vita. Credo di aver già parlato di quanto l'ondata di quel discorso - pronunciato con rabbia o con risatine di sufficienza, con fatalismo o con paternalismo viscido - mi colpì. Non c'era quasi bocca maschile che non ne esternasse una sua versione.

Chiunque abbia letto Operaie, lo splendido reportage di Leslie T. Chang, ha certamente ricavato la mia stessa impressione: il capitalismo attuale si relaziona con le donne in modo particolare. Le donne sono, diciamo, i suoi lavoratori ideali. Meno sindacalizzate degli uomini, sono anche più ricattabili, per ovvie ragioni biologiche, e rimpiazzabili, perché spesso ricoprono mansioni generiche. E' per questo che a volte, durante congiunture economiche come quelle - di crisi - in cui stiamo vivendo, le premia. Nel complesso la società è più povera. Anche le donne lo sono, perché non crescono i loro stipendi e diminuiscono quelli dei loro mariti, padri, fratelli, figli o compagni. Eppure, ad occhi offuscati come quelli dei passanti di Piazza Maggiore sembra che le donne vincano. Chissà se è la stessa cosa che ha pensato il povero cuoco.

Qui un post di Struggles in Italy sull'argomento e qui uno di Lipperatura sull'ultimo Gender Gap Report.

mercoledì 2 novembre 2011

Psicopatologia alimentare della crisi

Nelle cucine il tempo passa rapido, così rapido che dopo tanti anni in Italia sei povero come quando eri appena arrivato, anzi persino di più. Così rapido che l’italiano lo balbetti a malapena, e ancora utilizzi la terza persona dei verbi quando parli di te. Ne butti via a palate di tempo, tutti i giorni della tua vita tranne qualche sabato o domenica mattina, per dormire. Non te ne accorgi nemmeno, da tanto sei abituato a perderlo per strada. Ti scivola fuori dalle tasche assieme agli spiccioli.

Dall’altra parte del banco, là dove non arriva il calore dei forni, il tempo invece va centellinato minuto per minuto, va divorato fino all’ultimo secondo, per non perdere il ritmo e non farsi lasciare a terra dal folle autobus ai cui sedili tocca stare aggrappati. Anche il cibo è diventato un’unità di tempo, una casella tra le tante, che può schiudersi aprendo il coperchio di una vaschetta d’alluminio. Il suo contenuto - il calore e l’energia che sosterranno una giornata di lavoro - è un nome che compie il viaggio di andata dentro un filo del telefono, e quello di ritorno in una cassa legata a un motorino.

Nei momenti di magra, quando il cibo degli altri rimane a stagnare nei frigoriferi, inizia la processione degli emissari dei vari giganti del coupon: Groupon, Groupalia e così via. Loro sanno quando si lavora meno e quando i titolari sono più sensibili a tutte quelle sgangherate proposte che promettono di tenerli a galla. Arrivano a luglio o nelle vuote giornate di ponte, quando semplicemente tener aperto un locale significa rimetterci diversi biglietti da cento. E allora ecco la loro soluzione: il coupon, il ristorante a portata di crisi. Una proposta con talmente tanti non detti da rasentare il confine della truffa.

E quando i clienti arrivano, con in mano il loro coupon fresco di stampante, glielo leggi in faccia quasi sempre che sapere chi c’è dall’altra parte del banco gli importa ancora di meno che ai clienti delle vaschette di alluminio. Vengono da te per riempirsi la pancia il più possibile, non importa di cosa. Per bere fino all’ultimo sorso di quello che il loro foglietto vale, e possibilmente di più. E’ una bulimia che mastica denaro e carta, prima che cibo.

A volte qualcuno telefona per sapere se possiamo andare a comprargli le sigarette o a fargli un po’ di spesa, mentre gli portiamo la cena. Di solito nella voce c’è un velo di imbarazzo, perché a rispondere al telefono c’è un’italiana. Nelle decine di pizzerie di proprietà di stranieri che ci sono in questa città, fare questo genere di servizi è la norma, specialmente da quando i soldi in circolazione sono diventati di meno.

Intanto il fiume di cibo, nell’indifferenza generale, continua a scorrere.