giovedì 29 marzo 2012

Just in time

Nell'intervista ripresa ieri su Lipperatura, Luciano Gallino fa un'utilissima analisi su quelle che sono le origini della precarietà e le motivazioni che la rendono epidemica: non si tratta di un problema di costi (o del fatto che i padroni hanno paura di doversi tenere per forza un lavoratore che a un certo punto comincia a rubare, si gira i pollici dalla mattina alla sera o finge malanni per concedersi ripetute vacanze extra, come pure sostiene una buona fetta di popolazione ingrassata a pane e Libero). Ed è altrettanto falso che la precarietà aiuti a rilanciare l'occupazione in un momento in cui, per qualche misterioso motivo, il lavoro andrebbe estinguendosi dalla faccia della terra, tant'è che negli ultimi vent'anni, cioè da quando la flessibilità lavorativa è stata introdotta e poi continuamente incrementata, l'occupazione in Italia non è cresciuta (vedere i dati qui).

Il grande vantaggio dei lavoratori precari, è che si può mandarli via quando non servono più, o si può modificare il loro stipendio e la loro presenza in modo totalmente discrezionale. E le imprese hanno talmente approfittato di questa possibilità, che ora tutto il sistema economico ne è completamente dipendente. Come spiega Gallino, hanno ridotto all'osso il numero dei loro impiegati fissi, e hanno esternalizzato e precarizzato il più possibile, tanto che ora ogni anello della catena funziona così.

E' il lavoro just in time, cioè il lavoro che comincia esattamente nel momento in cui ce n'è bisogno per finire esattamente nel momento in cui non è più indispensabile. E' il principio del risparmio energetico applicato agli esseri umani. Per cui da un full time si può passare a un part time in un battibaleno, a seconda della stagione dell'anno o di quanto sono gonfie le casse di un'azienda, oppure si può essere assunti e licenziati a fasi alterne, rimbalzando tra l'occupazione e la disoccupazione come se ci si trovasse appesi a un elastico da bunjee jumping. Così come il clima stravolto dall'inquinamento, anche l'economia globalizzata vive stagioni di grande devastazione e l'arsura polverizzatrice può cedere il passo a repentine alluvioni. Peccato che gli imprenditori, grandi o piccoli che siano, abbiano utilizzzato le pietre degli argini per costruirsi la casa al mare.

La casa al mare è tutt'altro che una - peraltro banale - metafora. I due tratti fondamentali che caratterizzano la fisionomia economica degli ultimi 20 anni sono un po' ovunque l'aumento della forbice che separa i ricchi dai poveri e la precarizzazione del lavoro, che diventa via via sempre più flessibile e informale. Il rischio di impresa viene fatto ricadere sui lavoratori, fatto che ha la straordinaria conseguenza di causare un'impennata nei profitti. E laddove i grandi danno l'esempio, i piccoli seguono a ruota.

E scendendo a valanga dal globale alla solita localissima pizzeria, ecco che quello che va blaterando il mio capo da qualche giorno - "qui dentro siamo diventati troppi" - assume tutta un'altra proporzione. I ristoranti da asporto non appena il clima diventa più tiepido iniziano a lavorare meno. E allora si finge di cadere dalle nuvole e si chiede a qualcuna di sacrificarsi (quella qualcuna, per inciso, al momento sono ovviamente io), affidandole il gravoso e nobile compito di scendere a patti con la dura realtà della vita e di caricarsi sulle spalle il peso della riduzione delle entrate.

E per inciso, il fatto che il capro dell'occasione sia una lavoratrice è anch'esso perfettamente in linea con l'andazzo generale, dal momento che questa situazione, com'è ovvio, affligge tutti, però precarizza di più le donne, che rappresentano il 50% della forza lavoro precaria pur essendo solo il 40% della forza lavoro totale.

Come cantava Gene Kelly, stringendo la mano di Julie Andrews, "Just in time I find you, just in time. Before you came my time was runnin' low".

mercoledì 21 marzo 2012

La disoccupazione in Italia

Ci sono giornate in cui sembra di non contare proprio nulla, in cui ci si sente al centro di una ragnatela di fili di cui nessun apice è nelle nostre mani. Intrappolati come conigli presi al laccio, con il ventre stritolato dai cavi, gonfiamo il torace per far spazio ai polmoni e pensiamo solo a resistere, un respiro alla volta. Ci schiacciamo a terra, lasciando al mimetismo tutte le nostre speranze. Nel frattempo, sopra le nostre teste soffiano i venti più terribili, che ci bruciano sulla pelle come se trasportassero sabbia. Erodono piano piano ogni involucro del nostro corpo, scuotendo i muscoli, schiantandosi sulle ossa, annichilendo i nostri sensi coi loro boati. Solo il cacciatore sa dove siamo, e solo lui può liberarci. Un paradosso che le nostre menti ubriache di panico non riescono a risolvere.

Ve la meritate la disoccupazione, dice il mio capo in modo che solo io possa sentire. Ecco da dove viene la disoccupazione in Italia, dalla vostra pigrizia, dalla vostra stupidità, dalla vostra incapacità di lavorare per davvero, di essere dei professionisti in qualcosa, in una cosa qualunque. Io rimango rintronata dalle sue parole, dalla loro crudeltà, dalla loro volontà di ferire. Non ci si aspetta mai un intento così chiaro, così manifestamente diretto a far male. Siamo sempre più portati a muoverci nel grigio delle ambiguità, piuttosto che nel bianco o nel nero. Pensiamo che anche per gli altri sia così.

Oggi è il giorno in cui mi spettano le consegne. Salgo sulla bici e pedalo con le gambe indolenzite dal calore della cucina, gonfie di umidità corporea. Inseguo un filo d'aria per le vie strette di Bologna, senza che riesca a togliermi la sete di ossigeno. Sento le guance incresparsi precocemente di rughe, e maledico tutto, la città, il lavoro, la mia squallida età mezzana, tempo di intervallo tra le epoche vere, quelle che in passato di scioglievano l'una nell'altra quando il lavoro e i figli giungevano senza che in testa si avesse ancora un capello bianco. Ora è un solo un tempo in cui non ci si raccapezza, e si sperimenta una povertà pari solo a quella dei nostri nonni, a quella che i nostri nonni credevano di avere deposto insieme alle armi e che invece hanno ritrovato da vecchi, rovistando nei cassonetti, scavando negli armadi alla ricerca di un vecchio grembiule.

Finisco il mio turno, lascio il denaro su uno scaffale accanto all'uscita sul retro. Forse è meglio se me ne torno tra i disoccupati, dico al mio capo, visto che sembra essere quello posto che fa per me. Mi sembra giusto scegliere una frase teatrale, mi sembra più che corretto pronunciare qualcosa di maestoso mentre con uno scatto di addominali e un colpo delle zampe posteriori mando in pezzi la trappola. Il mio datore di lavoro mi chiama mentre sono già sulla bici. Non ce l'avevo con te, dice. Ce l'avevo coi pakistani. Mi chiedo se gli insulti che gli ho rivolto bastino ad emettere una diagnosi di dignità, se mi permettano di indossare, almeno per qualche ora, il fard vermiglio dell'orgoglio e di fingere di aver ottenuto una piccola vittoria, di fingere quasi di non averla ottenuta solo per me.

Per oggi bastano, concludo. Bastano quasi.

giovedì 15 marzo 2012

Il dono della parola

Per i migranti la lingua dell'arrivo non è un semplice strumento. O meglio, non lo è per il paese a cui giungono. La lingua è un arma utilizzata per gettare acqua sulla minaccia di meticciato che rappresentano, e diventa la via principale attraverso cui ottenere la tanto desiderata "integrazione". Integrare qualcuno in una società, in una comunità nazionale, è un'azione che può essere compiuta solo dopo aver reso quel qualcuno integrabile, e imporre a un* stranier*- come fa la legislazione italiana dal 2009 - di presentare una certificazione di conoscenza della lingua italiana come condizione per l'ottenimento del permesso di soggiorno di lungo periodo, è una scelta che ha davvero poco a che fare con una qualche necessità pratica e con una politica davvero pragmatica sulla migrazione. Del resto, come diceva Sayad (o Sayyad che dir si voglia), nessuno stato è in grado di ideare politiche sulla migrazione che non siano anche provvedimenti morali - e che quindi inevitabilmente prescindano da quelle che sono le urgenze reali - perché quella che lo stato cinge e delimità è anche e soprattutto una comunità morale. La morale che lo stato porta avanti è ovviamente quella della classe che in quel momento è più forte e che è stata in grado di imporre i propri interessi. In questo caso una classe composta, in media, da uomini bianchi, completamente avulsi dalle piccole e grandi problematiche di vita che tutti sperimentiamo (l'affitto, la spesa che costa cara, il lavoro che non c'è e via dicendo), a cui creare fratture nella società e dare vita a un cuscinetto di poverissimi ed emarginati su cui i penultimi possano tutto sommato sentirsi comodi non può che essere utile.

Quindi la lingua smette di essere canale di comunicazione, ponte tra individui e realtà, per diventare invece leva della discriminazione, vessillo che si utilizza contro l'altro per, alla fine, tappargli la bocca. Da quando la legge del luglio 2009 è entrata in vigore, le domande di permesso di soggiorno sono scese anche del 7% tra i migranti con grandi difficoltà nei confronti della lingua italiana (come quelli di provenienza cinese) o quelli con bassa scolarità e quindi maggiori difficoltà nel seguire un corso di lingua e superare un esame (fonte Fernanda Minuz). Questo non significa che quei migranti non ci sono più, ma che sono più clandestini e fragili di prima e, quindi, più utili a fare da manodopera semi-schiavizzata o a fungere da bersaglio per eventuali ulteriori provvedimenti repressivi, da sbandierare in periodo elettorale. E dalla Montblanc dei legislatori, questo inchiostro gocciola fino ad inquinare le falde - già di per sé esposte e drammaticamente vicine alle discariche - della società.

A., uno dei ragazzi pakistani che lavorano con me, ha la quinta elementare e da due giorni non apre bocca. I due uomini bianchi che gli danno gli ordini non gli fanno passare un errore grammaticale, una coniugazione sbagliata, un avverbio reinventato nel modo particolare che è proprio di coloro che parlano punjabi. Quando non basta l'italiano a zittirlo, utilizzano contro di lui il dialetto, la lama affilata dell'infanzia e delle cose più private, quelle che per A. saranno per sempre sconosciute. Ma il dialetto di questi uomini bianchi è sporco, le sue metafore sono imbrattate anch'esse di migrazione. E allora c'è l'arma suprema, quella che fa più male, la bestemmia. "Io mica lo penso davvero", dice uno degli uomini bianchi quando lo straniero, per l'ennesima volta, gli chiede di non bestemmiare di fronte a lui, "lo dico per dire". Ovvero, lo dico per te.

mercoledì 14 marzo 2012

It's a message to you, Rudy

Le cucine sono un ambiente molto particolare: tanto forzatamente femminilizzate nella loro dimensione privata (si vedano le pubblicità di commestibili o di prodotti per la casa , passate pressoché indenni attraverso qualunque mutamento sociale), quanto immancabilmente maschili in quella pubblica.

Le cucine dei ristoranti, fatte salve le incursioni di cameriere e personale di sala vario, sono una zona praticamente off-limits per le donne, in cui gli uomini impongono il loro ordine attraverso il mantenimento di una sorta di caos militare. E come in ogni esercito anche qui ci sono ruoli ben precisi, determinati da una gerarchia che ricalca, cercando persino di approfondirle, le fratture che ci sono nella società, ovviamente debitamente interpretate con gli occhiali del virilismo più squallido e marcio. Perciò gli italiani saranno superiori agli stranieri, e tra gli stranieri i più vessati saranno quelli che parlano peggio l'italiano, ma anche quelli che non hanno una moglie o una fidanzata, e che si dimostrano particolarmente imbranati nel rapporto con le donne (ovviamente sempre nell'ottica disturbata del maschilismo).

E la lavoratrice che per sua disgrazia si trova in un simile ecosistema? Che fine fa? Come se la cava? Così come nell'esercito regolare, le donne sono outsider, che quindi si vedono assegnata una posizione dopo un certo periodo di assestamento in cui la malcapitata viene testata. I cuochi - i colonnelli delle cucine - la mettono alla prova con battutine fastidiose o assegnandole compiti comunemente considerati poco adatti ad una donna. Agli stress test la lavoratrice può rispondere affermando la propria identità di genere - e nel qual caso sarà condannata ad una vita di esoneri e di iper-femminizzazione del suo ruolo tanto da essere, alla fine, sputata fuori dalle cucine stesse - oppure pretendendo di essere trattata alla pari di un uomo. In questa seconda circostanza dovrà continuamente contrattare la sua collocazione e magari anche, se è particolarmente testarda ed utopista, utilizzare la maggiore respirabilità dell'aria (pur putrida) che la circonda per agire come un cuneo nei confronti delle apparentemente inscalfibili gerarchie della ristorazione. Laddove riuscisse, l'enormità dell'impresa e il suo profondo significato politico la riscatterebbero certamente da una vita lavorativa di miseria intellettuale e noia. Potrebbe affermare, quantomeno a se stessa, di essere un'eroina del proletariato e di aver dato il suo contributo sulla via del progresso della classe operaia verso una società di uguali.

Così l'ostinata lavoratrice combatte le sue battaglie, anche se la loro portata non supera la soglia dell'ingresso posteriore di un ristorante. I marxisti direbbero che le lotte più piccole servono a dare alla classe la self-confidence necessaria per, un giorno, guidare la rivoluzione.

E tra tutte le battaglie quella certamente più significativa dal punto di vista della discriminazione di genere è quella sul caffè. Fare il caffè tocca a lei, di default, anche se sta facendo altro. Così come è suo compito versarlo e zuccherarlo per tutti, affinché la dolcezza e la grazia innate al suo sesso possano elevare al massimo grado di gradevolezza un rituale che sancisce l'inizio della giornata. Ovviamente interrompere uno qualunque dei compiti ripetitivi e monotoni che svolge in cucina per fare il caffè non le costa nulla in termini di performance lavorativa, ma ha certamente un prezzo simbolico e di rappresentazione che la tenace femminista non vuole per nulla pagare. "Fallo tu", dice lei al collega che ha avanzato la proposta. "Io?" risponde lui non capendo il motivo del rifiuto. "Devo tagliare il pane", afferma la lavoratrice fingendo affaccendamento. Dopo un attimo di esitazione, il collega accetta e inizia a svitare la caffettiera con la testa china sul lavandino, come se non avesse mai preparato un caffè in vita sua.


PS: ho appena scoperto che la ricerca "cuoco" su google immagini da questo risultato: qualche clip art comica sul mestiere del cuoco, seguita da centinaia di immagini della protagonista femminile di Big Bang Theory.

lunedì 12 marzo 2012

Cyberpizza

Come sapete il tempo che dedico a procurarmi il pane quotidiano si suddivide tra due attività assai diverse. C'è una parte della mia giornata in cui marcio freneticamente negli angusti spazi di una cucina, mentre c'è un'altra parte in cui, col pc sulle ginocchia, metto a frutto, per il beneficio del web, il mio indubbio talento nello scrivere contenuti insensati e in generale nel dedicarmi ad attività telematiche senza alcuna utilità sociale. Che è poi quello di cui, in numeri assoluti, il web ha bisogno nella maggioranza dei casi (si veda questo post in cui parlavo di Odesk).

Ultimamente però mi sono imbattuta in un'incredibile tipo di impresa, nella quale i miei due ambiti lavorativi riescono a fondersi producendo un ibrido tanto inquietante quanto follemente efficace: i siti che offrono la possibilià di ordinare il cibo via web. I geni del male che se li sono inventati sono riusciti in un compito apparentemente impossibile da realizzare: costruire una mediazione plausibile e redditizia tra l'affamato consumatore e il ristoratore. In un passato ormai lontanissimo - tipo 3 o 4 anni fa - per mangiare una pizza era necessario sollevare la cornetta del telefono, confessare i propri desideri alimentari a una frettolosa e accaldata lavoratrice - quando non, addirittura, a un Maghrebino con un disdicevole accento - e poi attendere l'arrivo della consegna. Oppure, nella preistoria, bisognava recarsi fisicamente alla pizzeria sotto casa e aspettare con le braccia conserte che la pietanza uscisse dai forni.

Nel secondo decennio del terzo millennio il consumatore non deve affrontare nulla di tutto questo, né deve interrompere la sua quotidiana corvè su Farmville o la sua sessione serale di Chat Roulette per avere a casa del cibo. Gli basta collegarsi a un sito come PizzaBo, CosaOrdino o simili per ordinare online, "in 3 click", la cena, eliminando il fastidio del contatto umano e risparmiando il costo della telefonata. Inoltre dopo un certo numero di ordini si può avere accesso a notevoli sconti sulle ordinazioni.

I siti che ho citato hanno delle caratteristiche comuni: una schermata for dummies e le già citate offerte promozionali. In parole povere, sono progettati per far sì che il consumatore possa usufruire del servizio senza dover interrompere per non più di dieci secondi l'attività in cui è impegnato sul web, che si tratti di una partita di poker, di una videotelefonata via Skype o della visione in streaming dell'ultima puntata di Fringe. In tutto questo, il cibo è semplicemente qualcosa che arriva a casa dopo che l'unico sforzo fatto dal cliente affamato è stato quello di decidere cosa mangiare. Quando si dice che internet è spesso un media peggiorativo di quelli che sono i difetti degli utenti, ebbene ecco qua un'altra dimostrazione.

Gli inventori di questo tipo di impresa - veri interpreti dello spirito degli anni '10 - sono riusciti ad inserirsi in un sistema semplice e lineare come quello che conduce il cibo da asporto da chi lo cucina a chi lo consuma, solleticando proprio la pigrizia, l'alienazione, lo svacco che internet sa far emergere in tanti navigatori. Mi aspetto che prossimamente Riccardo Luna dedichi almeno 4000 battute a questi startuppers di innegabile talento, che sono stati capaci di costruire un business a partire da qualcosa di apparentemente tanto poco redditizio. Loro sono Innovazione certamente più di Groupon, che prevede ancora - come in un inspiegabile rigurgito di Medioevo - di doversi recare fisicamente sul luogo di preparazione della cena, avendo a che fare con camerieri, cuochi, grissini impacchettati e quant'altro, e stazionando a volte per ore al di fuori della Rete, che tutto mette a profitto.

Ovviamente, questi pionieri non regalano i frutti della loro creatività, ma li vendono a caro prezzo. Per un ristoratore entrare a far parte di uno di questi network significa sborsare diverse centinaia di euro e donare ai creativi il dieci per cento del proprio fatturato. La tecnologia degli anni '10, nei luoghi dove il cibo si prepara, non appare nella forma di un sito internet minimal ed efficiente, ma si materializza come una scatoletta dotata di un allarme in tutto identico a quello di un sistema anti-incendio (e immaginate la positività delle reazioni che genera nei lavoratori), e di una minuscola stampante che sputa l'ordine nelle cucine. Alla ricezione dell'ordine il lavoratore deve indicare, schiacciando un apposito pulsante, i minuti di attesa, mentre chi si trova dall'altra parte deve decidere se accettare o meno la tempistica. E' questo, fino al momento della consegna, l'unico contatto tra i due. E mentre la pizza, nella sua inequivocabile fisicità, giunge insieme al fattorino a destinazione, il dieci per cento del suo valore viene metabolizzato nelle viscere della rete.

lunedì 5 marzo 2012

La rubrica culinar-precaria del lunedì: risotto al praticello

Torna la rubrica culinaria del lunedì, uscita con svariati lividi e i gomiti sbucciati da un duro corpo a corpo con le mie incombenze di vita e di lavoro. Soprattutto di lavoro.

Ed è per questo, per sfuggire a queste insipide giornate che sanno di retroilluminazione, tastiera, detersivo per piatti e mozzarella già pretagliata a strisce, che scrivo questa ricetta mantecata nella nostalgia e nell'umore più neri. Una ricetta inventata in un pomeriggio di primavera, quando io e il boyfriend potevamo andare a passeggiare nei parchi fuori Bologna dimenticandoci di guardare l'ora, e poi tornare a casa e metterci a cucinare per noi. Durante quelle incursioni nell'aria buona, spesso e volentieri ne approfittavamo per procurarci una mangiata un po' ladra, trafugata alle erbe appena riemerse dal freddo humus invernale.

Risotto al praticello

Se vi state giustappunto apparecchiando una favolosa passeggiata campestre - beati voi - e leggete questa ricetta con lo zaino già in spalla, prima di tutto riaprite lo zaino e infilateci dentro un paio di guanti. La base di questa ricetta è infatti una gustosissima erba che però è anche nota per arrossare i polpacci dei camminatori imprudenti o le terga di chi, ancora più imprudente, si è abbandonato a un distratto pit-stop nella boscaglia. Parlo ovviamente dell'ortica, quell'erbaccia tanto buona negli shampoo anti-forfora quanto pruriginosa e infestante.

Per raccoglierla vi serviranno, appunto, braghe lunghe e guanti. Poi, vi occorreranno una buona dose di sale in zucca e un po' di intuito igienico: assai sconsigliabile è raccogliere l'ortica nei fossati ai lati delle strade trafficate, quelle dove passano auto sfiatanti polveri sottili o dove i cinofili amano accompagnare i loro amici a quattro zampe per fare i bisogni. Cercate, quindi, luoghi che sappiano di pulito e che non vi ricordino eccessivamente dell'esistenza infausta delle grandi folle umane (e canine).

Una volta trovato un angolo di pruno che vi faccia venire l'acquolina in bocca, dedicatevi alla raccolta. Dovete prendere solo le foglioline in cima alla pianta, quelle piccole e tenerelle che la primavera ha appena fatto germogliare. Il vostro ladrocinio sarà tanto più nobile e giusto quanto più preserverà la colonia di ortiche che avete preso di mira dall'estinzione.

Se il risotto si fermasse qui lo si potrebbe intitolare risotto al fossato, o risotto all'irritazione cutanea, ma non è così. Altro ingrediente fondamentale e che cresce con abbondanza in questa stagione è l'erba cipollina, una varietà (credo) di aglio selvatico che in primavera e autunno con i suoi fusti tinge i prati di una sfumatura azzurra e li rende particolarmente stuzzicanti per cinghiali e persone dai gusti decisi. Se avete gusti davvero decisi potete cercare zolle di terreno non troppo compatto ed estrarre i bulbi agliosi della pianta, invece di limitarvi a strappare un mazzetto di foglie. Qualora siate particolarmente fortunati o desiderosi di scarpinare nei boschi, potete procurarvi anche dell'asparagina, che fa dono dei suoi frutti ai trafugatori attenti proprio in questa stagione e che renderà il vostro risotto ancora più ricco e verde.

Alla fine, dopo un pomeriggio di affannose perlustrazioni - intervallate da lunghissime pause di svacco orizzontale con la pancia rivolta al sole di marzo - dovreste aver rubato alla natura sufficienti primizie da condire un risotto di coppia o condiviso con pochi amici intimi. Una volta tornati nella triste città dovrete lavare il tutto con cura (sempre coi guanti!), mettere a bollire un rapido brodo vegetale e quindi far soffriggere le ortiche e, se li avete, gli aglietti. Fate quindi tostare il risotto, coprite di brodo, aggiungete l'erba cipollina (ma lasciatene qualche ciuffo da aggiungere a crudo) e gli eventuali asparagi e portate a cottura. Spero sarete contenti di aver sacrificato una generazione di vegetali ancora in fasce per soddisfare il vostro palato e per poter raccontare agli amici che voi potreste campare tranquillamente anche senza il denaro. Spero che siate contenti davvero. Io vi invidio con tutto il mio cuore.

E siccome oltre che invidia provo anche tanta nostalgia, posto questo scorcio verde della Langa lontana.

venerdì 2 marzo 2012

Bologna

Incontro T. mentre sto passeggiando per il mercato della Montagnola. Gli chiedo come sta, mi risponde non tanto bene. Ho un brutto male. Lo ascolto. Sono ricoverato al Giovanni XXIII, almeno mi danno un tetto sopra la testa.

Non so che dire, cerco un suggerimento qualunque sul suo viso. Ma è tranquillo, dice lui, rispondendo alla mia faccia piena di domande autoreferenziali. Non ha l'aria dispiaciuta in effetti. E' sempre stato terribilmente magro, rugoso e senza denti, ma è un barbone e non c'è da stupirsi. Fuma la sua sigaretta e sorride. Davvero, ripete, è tranquillo. Hai visto che è morto Lucio? Ho visto, gli dico, mi è dispiaciuto moltissimo. Tu lo conoscevi bene? Certo che lo conoscevo, dice. Andavo sempre alla cena che lui è Guccini offrivano al Napoleone ogni anno per i barboni.

- T. ha sempre usato quella parola, non l'ho mai sentito dirne un altra. Molti preferiscono non usarne nessuna -

Erano cene bellissime, continua, si mangiava meravigliosamente e alla fine del pasto luculliano salivano sul palco e iniziava il concerto. Non solo: prima di andare via ti davano un cestino con ogni ben di dio e ti mettevano in mano cinquantamila lire a testa. Non lo sapevo, dico.

T. mi racconta ancora di Lucio, dei suoi esordi melodici e dell'arrivo del successo poi, negli anni '70. Dei suoi vestiti strambi e della sua vita privata che, però, è privata. Nel periodo della miniacampada di Piazza del Nettuno passavamo molto tempo insieme. E' stato lui a raccontarmi di quando le panchine in Piazza Grande c'erano davvero, e persino i lampioni. Era una meraviglia la piazza, allora.

In quei giorni, veniva a dare il cambio la mattina presto a chi aveva dormito fuori - lui stava in un rifugio - e impezzava la gente che si avvicinava alla nostra piccola biblioteca di strada, invitandola alle assemblee. Ha sempre avuto la voce roca e il respiro corto, ma in realtà di fiato dimostrava di averne parecchio.

Continuo la mia passeggiata, mi dice. Stai bene, gli dico io, schiacciata dai miei imbarazzi. Non ti preoccupare, tengo duro. Ok, T. Ci vediamo in giro.