mercoledì 28 dicembre 2011

Fincantieri in crociera

Ormeggiata nel porto di una piccola città di provincia, la Costa Concordia da il meglio di sé. Bianca, luccicante di finestre e di centinaia di metri di luci colorate appese a festa per il Natale e per il grande evento della partenza. Sua sorella minore Costa Deliziosa, ormeggiata al suo fianco, sta per partire per una crociera di 101 giorni che farà il giro del mondo, toccando sei continenti, e anche lei, Costa Concordia, si prepara salpare. Se non fosse che ognuna di queste navi contiene una spa futuristica, un cinema 4D, una discoteca e che i prezzi (nel caso della Deliziosa, a cinque cifre) sono in euro, sembrerebbe di trovarsi nella Belle Epoque. E in effetti c'è, in questa giornata, un ché di molto vecchio, un inconfondibile sapore di Fine Ottocento.

La piccola città post-industriale, con le vecchie fabbriche di mattoni abbandonate sul retro dei nuovi palazzi di vetro azzurro chiaro, per l'occasione si è intasata di pullman e auto di vacanzieri impazienti di prendere possesso del loro posto all'interno del lussuoso transatlantico. I palazzi sbiaditi - quelli di cui la crisi ha stoppato il maquillage - assumevano di fronte alla nave la tonalità beige delle miserie quotidiane, dei posti in cui si lavora e si vive e ci si diverte poi poco, delle tristi località in cui nessuno vorrebbe mai mettere piede.

A quaranta chilometri di distanza, in un tratto di litorale cancellato dalle mappe marittime in possesso dell'equipaggio della grande nave, si trova il presidio degli operai della Fincantieri di Sestri Ponente. Di fronte alla Costa Concordia, che esorbita di decine di metri dalla skyline delle casette del porto, che sembrerebbe capace di spaccare la città in due con un colpo d'elica e di prua e che in effetti, nel mare, crea danni di non molto dissimili, viene quasi da rimproverarli: dopo aver costruito un simile mostro, costretti dall'onere del lavoro, non dovevate lasciarlo andare. Dovevate sequestrarlo, gettare a mare i bulloni degli immensi motori, spegnerlo per sempre.

Ed è quello che stanno facendo, in effetti, con la Oceania Riviera, un'altra Las Vegas galleggiante che dovrebbe prendere il mare a primavera. La terranno chiusa nel recinto del cantiere fino a quando non riusciranno ad ottenere qualche garanzia su un futuro che vada oltre i due anni della cassa integrazione. Il nuovo mostro ancora in costruzione, immagino, avrà già cominciato ad emettere tonanti cigolii di disappunto.

Da Savona, la Costa Concordia le lancia richiami che fanno tremare i muri. Vedrai, sembra dirle, un giorno anche tu brulicherai di passeggeri paganti, marinai candidi, cameriere filippine, e salperai da qui verso un domani di sogno e ricchezza. Le altre navi - sono ben tre in totale - incastrate l'una accanto all'altra nel piccolo porto, le fanno eco. Tra mostri la solidarietà davvero non manca.

martedì 27 dicembre 2011

L'acqua, il fuoco e la ruggine. Appunti sulla Liguria che brucia, si allaga e resiste

Non è mica normale vedersi passare i canadair sopra la testa e non farci più caso. La maggior parte della gente forse non li ha neanche mai visti in vita sua, questi aerei rossi e gialli, che ad osservarli da lontano, stagliati contro il cielo e poi pronti a tuffarsi nell'acqua, sembrano dei giganteschi gabbiani colorati. Tracciano nell'aria un'ellisse di goccioline, che svaniscono nell'atmosfera secca e alle narici si confondono con l'alito salmastro del vento di mare. Si sollevano dalla superficie marina lentamente, sfiorano la diga foranea con le loro pance pesanti e fluttuano tra i battelli ormeggiati, i capannoni delle fabbriche, i condomini. Si alzano fino alla cresta delle montagne - in volo sono pochi secondi - e virano per gettarsi a capofitto nelle gole ricoperte di nebbia grigia e lì spalancare le loro gabbie toraciche per generare - salata, contraffatta - la pioggia. Giureresti di non vederli più venire fuori. Aspetti il botto da un momento all'altro.

Non è mica normale essere abituati a uno spettacolo del genere. Rassegnarsi agli incendi - all'odore di bruciato, al nero delle colline, al frastuono degli aerei e degli elicotteri che arrivano a fermare le fiamme - come se si trattasse di incidenti stradali, inevitabili nell'oceano turbinoso delle probabilità. E così anche per le frane, per l'acqua che tracima e alla fine spacca le rive, facendo crollare orti, strade, boschi. A volte case. Si finisce per ululare la propria indignazione e portarsi le mani alla fronte, in compagnia, al mercato, al bar, dopo la messa, ai pranzi di Natale, e basta.

C'è una parola per indicare la causa degli incendi e delle alluvioni che ogni anno, alternandosi durante le stagioni, arrivano a flagellare qualche pezzo di Liguria: abbandono. Si lasciano i boschi ai rovi, gli orti alle erbacce, i canali e i ruscelli alle piante assetate. E quella natura post-agricola, priva di ogni equilibrio, erosa anch'essa da millenni di sottomissione all'uomo, si ammala, brucia o viene sfondata dall'acqua. Si è abbandonato le montagne con i corpi, prima di tutto, e poi con il pensiero. Ci si è trasferiti in città, verso le fabbriche e il denaro, lontano dalle mulattiere da percorrere per cavare da poche strisce sottili di terra un po' d'olio, di vino e di verdura. Ci si è dimenticati dei boschi, che dopo immense fatiche non regalavano altro che frutti selvatici, troppo volubili per poterci contare davvero, e un po' di legna con cui scaldarsi male, nel modo stupido in cui scaldano le stufe. Chi aveva tempo conservava un pezzo di terra per tenerci le galline e i conigli, e per farci l'orto d'estate. Ma senza allontanarsi troppo dalle città e dai paesi, visto che di spazio disponibile ora ce n'era in abbondanza e non c'era più bisogno di arrampicarsi lungo le coste. I boschi sono diventati un hobby per fungai, cacciatori e appassionati di sport estremi, e sono diventati dei grovigli di specie spinose, capaci di vivere nell'aridità dell'incuria. Ad ogni stagione secca, pezzo pezzo, anneriscono nel fuoco, rendendo ancora più cupe e inutili le montagne.

Ormai la fabbrica non c'è più, ma nessuno vuole voltarsi indietro, a quella terra ingrata di vini acidi e di frutti indigesti. Si costruiscono palazzi che guardano il mare e nello spazio liquido spalancato davanti si proiettano le proprie speranze. Pur di non rivolgersi più ai picchi, si costruisce persino sul mare, vi si allungano appendici di pianure che non esistono gettandovi migliaia di tonnellate di cemento. Delle fabbriche, che spopolarono l'entroterra in pochi decenni, sono rimaste ormai solo le fondamenta tossiche, lentamente bonificate per farne propaggini di porto, luoghi in cui la merce e le persone transitano verso altre mete. La loro ruggine rimane nei fondali nascosti e si rintana nei polmoni della gente, nelle ciminiere bianche e rosse, nei greti dei torrenti. Lì l'industria ancora arde la sua legna, che è fatta di risorse lontane e di gente che sta qui, che si ammala e crepa da un secolo almeno.

Di questo, però, non ci dimentichiamo.

Qui, qui e qui trovate un po' di notizie e di contatti da chi resiste.

sabato 24 dicembre 2011

Happy Birthday

Il mio amico pizza boy è una fonte inesauribile di buoni oroscopi. Chiunque avesse vissuto un 2011 come il suo non esiterebbe un attimo nel definirlo "un anno di merda", legato a un paese di merda, a un momento storico di merda.

Lui no. Lui fa mente locale e dice "Non è andato così male. Ho imparato tante cose". E poi continua: "Il 2012 sarà un anno diverso, per tutti. Per me e per i miei amici sarà un bell'anno sicuramente". Ha un buon consiglio per tutti lui, e riuscirebbe a infondere ottimismo ed energia vitale anche al più anemico dei nichilisti. Su di me ha l'effetto di una vacanza, di un bagno termale: mi fa sentire pulita, ritemprata, rinvigorita. I nostri caffè pomeridiani sono uno dei motivi per cui, nonostante tutto, continua a piacermi Bologna.

Da qualche tempo non lavoriamo più insieme. Ha trovato un ristorante che gli permette di guadagnare il giusto e di avere tempo libero a sufficienza per fare ciò che davvero ama: lavorare per la CGIL. Per il momento non è proprio un vero lavoro, dato che la retribuzione è solo un rimborso spese, ma lui è felice ugualmente ed è convinto che l'anno nuovo gli porterà buone notizie. Se andate allo sportello per stranieri della CGIL di Bologna lo trovate lì ogni pomeriggio, pronto ad alleviare le vostre beghe burocratiche con l'entusiasmo di coach che si trova lì lì per vincere il suo primo campionato.

Compie gli anni proprio il giorno di Natale. Quindi tanti auguri a lui e anche a tutti voi. Anch'io penso che il 2012 sarà un anno diverso e, perché no, migliore.

sabato 17 dicembre 2011

La mancia

La Signora C. telefona nella pizzeria in cui lavoro un paio di volte a settimana e ordina sempre un primo e un secondo. Abita in una bella casa, in una zona residenziale molto quotata. Almeno così mi hanno detto, io non l'ho mai vista. Questa signora lascia sempre il resto di mancia, e il suo resto di solito non è meno di sette euro. Chi va a consegnare a casa sua non viene scelto a caso: il mio capo manda da lei il dipendente che si trova in maggiori difficoltà economiche, il quale di solito investe immediatamente il denaro extra alla prima pompa di benzina. Io vorrei dirlo al boss che se i suoi fattorini sono così poveri da non avere i soldi per un pieno dipende dal fatto che non sono pagati abbastanza. Ma poi mi taccio perché il sindacalismo, ancorché di base, in un simile ambiente non è proprio contemplato.

Ho sempre trovato la mancia una pratica barbara, tipica dei paesi del neoliberismo più spinto e dell'informalità più misera (che poi sono la stessa parola in due contesti diversi); un modo per sgravare il padrone dai suoi oneri nei confronti dei dipendenti, facendoli ricadere sul cliente. Eppure quando mi capita di fare qualche consegna in bici o di corsa nei dintorni della pizzeria - con il freddo, l'odore di fritto e i conti da tenere a mente che non mi si staccano di dosso un secondo - mi capita di borbottare tra i denti non pochi improperi contro gli spilorci che non mi sganciano neanche una monetina dorata. Mi viene da rinfacciargli il loro denaro speso tanto alla leggera, sperperato in pizze costose e piatti di pesce. La prossima volta dalla Signora C ci vado io.

Poi torno in me e penso che di quegli spiccioli non ne ho davvero bisogno, a differenza dei miei colleghi. Che mi regalerebbero solo la demente soddisfazione di un guadagno in apparenza emancipato dalla tasca del padrone. Così me ne torno in pizzeria ribadendo alla me stessa di un attimo prima - immemore dell'ingiustizia costitutiva del capitalismo - "plusvalore, plusvalore, plusvalore...".

venerdì 16 dicembre 2011

Su Torino, una poesia di Cesare Pavese

Ozio


Tutti i gran manifesti attaccati sui muri,

che presentano spra uno sfondo di fabbriche
l'operaio robusto che si erge nel cielo,
vanno in pezzi, nel sole e nell'acqua. Masino bestemmia
a veder la sua faccia più fiera, sui muri
delle vie, e doverle girare cercando lavoro.
Uno si alza al mattino e si ferma a guardare i giornali
nelle edicole vive di facce di donna a colori:
fa confronti con quelle che passano e perde il suo tempo,
ché ogni donna ha le occhiaie più stracche. Compaiono a un tratto
coi cartelli dei cinematografi addosso alla testa
e con passi sostanti, i vecchiotti vestiti di rosso
e Masino, fissando le facce deformi
e i colori, si tocca le guance e le sente più vuote.

Ogni volta che mangia, Masino ritorna a girare,
perché è segno che ha già lavorato. Traversa le vie
e non guarda più in faccia nessuno. La sera, ritorna
e si stende un momento nei prati con quella ragazza.
Quando è solo, gli piace restare nei prati
tra le case isolate e i rumori sommessi
e talvolta fa un sonno. Le donne non mancano,
come quando era ancora meccanico: adesso è Masino
a cercarne una sola e volerla fedele.
Una volta - da quando va in giro - ha atterrato un rivale
e i colleghi, che li hanno trovati in un fosso,
han dovuto bendargli una mano. Anche quelli non fanno più nulla
e tre o quattro, affamati, han formato una banda
di clarino e chitarre - volevano averci Masino
che cantasse - e girare le vie e raccogliere i soldi.
Lui Masino ha risposto che canta per niente
ogni volta che ha voglia, ma andare a svegliare le serve
per le strade, è un lavoro da napoli. I giorni che mangia,
porta ancora con sé pochi amici a metà la collina:
là si chiudono in qualche osteria e ne cantano un pezzo
loro soli, da uomini. Andavano un tempo anche in barca,
ma dal fiume si vede la fabbrica, e fa brutto sangue.

Dopo un giorno a strisciare le suole davanti agli affissi,
alla sera Masino finisce al cinema
dove ha già lavorato, una volta. Fa bene quel buio
alla vista spossata dai troppi lampioni.
Tener dietro alla storia non è una fatica:
vi si vede una bella ragazza e talvolta c'è uomini
che si picchiano secco. Vi sono paesi
che varrebbe la pena di viverci, al posto
degli stupidi attori. Masino contempla,
su un paese di nude colline, di prati e di fabbriche,
la sua testa ingrandita in primissimi piani.
Quelli almeno non danno la rabbia che danno i cartelli
colorati, sugli angoli, e i musi di donna dipinti.

da Poesie del disamore

domenica 11 dicembre 2011

Fare l'amore a Torino. Torino brucia

Come ha giustamente scritto Michela Murgia di quanto avvenuto ieri sera a Torino, la prima notizia è il pogrom. La seconda notizia riguarda invece una ragazzina che, piuttosto che confessare di aver fatto l'amore, ha inventato per sé una storia fatta di aiuole incolte, periferie buie, stupri. Vegetazione urbana che fa da tana a esseri subumani, i quali torturano le ragazze in cambio di un cellulare e di un orgasmo sporco, illecito, uguale a loro. Un intero immaginario fatto di luoghi squallidi, razzismo, paura, preso in blocco e rovesciato sul tavolo.

L'astuzia femminile - quella terrificante qualità su cui basano il loro potere le matrigne delle favole - è frutto della discriminazione. Si tratta di spremersi le meningi alla continua ricerca di soluzioni, per ritagliare uno spicchio di spazio per te e per salvarti quando, invece, ti scoprono. Inventare intricati castelli di balle per trascorrere la notte con il ragazzo che ti piace, o anche solo per uscire con lui. Tenere sotto controllo le telefonate dei genitori, scegliere la giusta linea dell'autobus per non rischiare di incontrare qualcuno, valutare con attenzione un luogo sicuro in cui scambiarsi baci e carezze. E quando questo non basta, avere un piano B, che dev'essere sicuro però, deve riuscire dove tutto il resto ha fallito, dev'essere il proverbiale asso nella manica: la bugia con il più alto valore possibile.

L'ultima carta per questa ragazzina messa alle strette è stato uno schifoso impasto di razzismo, classismo, senso dell'onore usato come rifugio e come giustificazione al sempiterno desiderio di segregare le donne, voglia di riscatto e ricerca di una coesione facile, ready made, raccolta per strada. La narrazione di una società immiserita e frantumata, che cerca se stessa nelle pagine di giornali che sempre più sfacciatamente approfittano delle sue debolezze per compiacere il potente di turno, il quale in vista delle prossime elezioni legge e ringrazia. Quello che questa ragazzina sa del mondo in cui vive, quello che ha intuito con i suoi occhi attenti che cercano appigli, è che sul suo reazionarismo potrà sempre contare per salvarsi in corner.

Qui lo storify di @jumpinshark su tutta la vicenda.

martedì 6 dicembre 2011

Giovani e vecchi

Mia nonna ha 91 anni e campa con la minima. Ovvero, più o meno quanto prendo io con il mio lavoro in pizzeria. Infatti faccio anche altro per tirare su due soldi, ma lei non ha questa possibilità. E' così vecchia che il suo corpo si è fatto piccolissimo, la sua pelle sottile come carta velina, le sue mani tanto incerte che al mattino ha bisogno di aiuto persino per aprire la caffettiera. Quello che lo stato le manda è quello che ha, e non può difendersi né fare altrimenti. Mia madre e mia zia le pagano la badante d'estate, quando in città si sente morire e vuole tornare in campagna, dove ha sempre vissuto.

Per sua fortuna - e anche mia e dei miei cugini - la cosiddetta "generazione sandwich" al momento non è ancora alla canna del gas, e spesso riesce a sostenere un poco sia i vecchi che i giovani. Quando ieri ho sentito mia madre, che è già in pensione, ha detto che è giusto che siano i più vecchi a pagare, perché sono quelli che hanno scialacquato, che sono ingrassati alla tavola dello stato sociale senza pensare alle conseguenze.

Come ha raccontato Loredana Lipperini nel suo Non è un paese per vecchie, i pensionati italiani sono i più poveri d'Europa. Eppure tagliare sulla loro pelle sembra giusto, sembra necessario, anche se è tanto triste. Largo ai giovani, si dice, sono loro che stanno pagando la crisi. In tempi così duri, ci vogliono provvedimenti altrettanto netti, che spazzino via il vecchiume e facciano sopravvivere quello che merita. L'importante è prendere le scelte più difficili con la tenerezza nel cuore, e un po' controvoglia.

Quello che merita, sono i giovani raccontati dall'infotainment in prima serata, quelle brave ragazze e quei bravi ragazzi che hanno studiato tanto e poi vanno all'estero per cambiare il mondo con la loro incorrotta creatività. Piacciono tanto questi giovani, sono un brand favoloso, il jolly che fa quadrare la scala e che permette di sbaragliare tutti gli avversari. Basta tirarli fuori, tirare fuori quel sogno di rinascita che rappresentano, che di colpo diventiamo pronti a tutto. La loro voglia di fare emenderà i vecchi dai peccati della loro vita confortevole, all'ombra dell'articolo 18, della sanità e della scuola pubblica. Sacrifichiamoci per loro, stringiamo la cinghia affinché possano andare com'è loro natura a combattere sul fronte duro e giusto del libero mercato, dove la meritocrazia premierà i migliori. Mica come ai vecchi tempi, quando i sindacati ti paravano il culo e andavi in pensione ancora giovane e in gamba. Che mollaccioni che eravamo, che squallidi viveur decadenti, con tutte le nostre tutele e il nostro denaro facile. I giovani invece, loro sono limpidi, belli, pieni di nuove energie. Loro sono il futuro. E' nelle loro mani che andrà il mondo nuovo, che sarà più povero magari, però più pulito e più autentico, come loro.

domenica 4 dicembre 2011

Incubi e deliri (precari)

Quand'ero ragazzina pensavo che l'insonnia fosse un problema dei vecchi. A quindici anni mi innamorai per la prima volta e persi il sonno per un paio di settimane, ma non ricordo di aver avuto ancora problemi simili per periodi altrettanto lunghi. A volte facevo nottata a leggere oppure a straziarmi per qualche turbamento emotivo, ma si trattava di episodi che si risolvevano sempre, la notte successiva, con una gran dormita.

Ora invece oscillo tra periodi di sonno piuttosto regolare ed altri in cui l'insonnia viene a tirarmi le coperte, in compagnia dei più odiosi dei suoi parenti: gli incubi. Gli incubi che si accompagnano all'insonnia sono di un genere che si muove a sciami. Si susseguono a volte per diverse notti consecutive e lasciano la mente spossata e i polmoni esausti, strizzati come spugne, dopo lunghe sessioni di tempo incosciente trascorse a inseguirli.

Nell'ultimo incubo che ricordo ho sognato il mio letto. Per raggiungerlo dovevo salire una lunghissima scala a pioli il cui tratto finale era stato costruito legando insieme tubi e pezzi di metallo, e che giungeva fino al cornicione di un palazzo. Sopra questo cornicione, largo poco più di un metro, stava appunto il mio letto, ed era lì che vivevo. Non era una mia scelta, ovviamente, ma anzi qualcuno o qualcosa mi avevano costretta lì, a dormire nella vertigine e con la costante paura di precipitare. Come se non bastasse, il cornicione - e con esso il mio letto - iniziava a staccarsi dalla parete del palazzo, a inclinarsi e a franare. Io cercavo di salvarmi, ma la scala mi terrorizzava quasi quanto la caduta ed ero certa che avrebbe definitivamente ceduto durante la mia fuga.

Nonostante il mio vero letto si trovi al sicuro tra le quattro mura e il solido pavimento della mia stanza bolognese, non posso fare a meno di pensare che questo sogno rispecchi piuttosto bene la realtà. L'unico errore del mio inconscio è stato quello di immaginare che su quel cornicione vivessi da sola.

Eccoci, noi stormo di precari terrorizzati dal vuoto, costretti a vivere appollaiati come uccelli senza averne le ali. Incapaci, spesso, di dormire davvero, sporgendoci da sotto le lenzuola controlliamo compulsivamente il ciglio della nostra postazione. Il precario-piccione è una nuova figura di insonne, del tutto particolare: non sa volare ma dimora ugualmente nei luoghi più impervi, ad altezze vertiginose. Tuttavia la sensazione che prova nel raggiungere i suoi giacigli nei picchi non è quella dell'innalzamento, ma quella della profondità, dello sbalzo terribile che ti trascina giù, con fatale puntualità. Al piano terra, sussurrano voci da dentro i palazzi, da qualche tempo non c'è più posto proprio per nessuno.


giovedì 1 dicembre 2011

Achtung, Libero!

Ieri è stata decisamente la giornata di Camillo Langone. Questo oscuro membro della squadra di Libero ha scalato i TT di Twitter a velocità oserei dire bieberiana, rimanendo saldo sul podio anche oggi e beccandosi gli insulti di una percentuale davvero cospicua degli utenti della rete.

Le reazioni alla sua trovata per nulla originale vanno dal non meno banale e sessista - anche un tantino fuori luogo -"la mamma dei cretini è sempre incinta" alle osservazioni sul fatto che forse i libri sono la scusa che usa la moglie di Langone stesso quando vuole evitare le attenzioni del marito. Come se il problema, per gente come questo tizio, fosse il fatto che le donne fanno troppo poco sesso e non, invece, il fatto che lo facciano non a scopo procreativo, com'è del resto senso comune per tutti i reazionari della stessa risma.

Come ribellione a questo coro di cinguettii sciocchi, portatori del sessismo della nostra epoca, quello che vuole proteggere il diritto delle donne a scopare e che, così facendo, continua a schiacciarle sul loro sesso, Loredana Lipperini ha proposto il silenzio. Purtroppo invece, penso io, il nostro silenzio non gioverebbe affatto alla nostra causa, che è quella di far sparire la discriminazione tutta, compresa quella che digitano, distrattamente, molti di coloro che ieri hanno riso delle teorie di Langone. Non lo so se si può davvero agire nel bel mezzo di quel genere di ubriacatura da TT - una cosa che su Twitter ultimamente vedo accadere sempre più spesso e che mi inquieta non poco -, ma forse vale la pena tentare.

Un altro motivo per cui di questo tizio e di quelli come lui bisogna parlare, è perché non rappresentano affatto la vocina di una sparuta combriccola di maniaci del Medioevo, un fenomeno che starebbe bene in un museo sull'Inquisizione spagnola. Sono, invece, personaggi che hanno un ruolo politico, che è quello di andare a solleticare i pruriti più orrendi di quello che è il target di Libero, che non è certo limitato ai seguaci di Padre Tam. E' questo il punto. Qual'è il target di questo giornale apparentemente tanto "di nicchia"?

Vi basti sapere che Libero viene distribuito gratuitamente, almeno qui a Bologna, in almeno uno dei più grandi alberghi in cui tipicamente alloggiano manager, medici e altri professionisti in viaggio di lavoro. A costoro il quotidiano di Langone e Belpietro viene fatto trovare sul tavolo insieme alla colazione. Ecco chi sono i lettori su cui Libero punta, professionisti di profilo abbastanza alto, solitamente uomini, che ricoprono ruoli dirigenziali o comunque fanno lavori che li rendono molto visibili e influenti. Come ho già raccontato, io di lettore di Libero ne conosco uno solo, ed è un medico. Non un monaco orripilato dalla vita moderna, ma una di quelle tipiche persone a cui, in una piccola città, qualcuno prima o poi chiede di far parte di una lista elettorale, e spesso anche, come passatempo serale, di entrare nella massoneria locale (non scherzo).

Su Langone - il cui incredibile ritratto era già stato scattatto mesi fa dal fantastico Mazzetta - posso anche ridere, ma su quelli che leggono i suoi articoli, magari trovandoli, sotto sotto, stuzzicanti, no.

mercoledì 30 novembre 2011

Precariato e influenza

Capita a tutti, precarie e precari compresi, di beccarsi l'influenza ogni tanto. Tuttavia, persino una cosa così semplice e che rientra nell'ordine dell'assai probabile, nel mondo in cui vige la legge del precariato diventa piuttosto complicata. Ecco alcuni esempi.

Se avete un contratto a progetto, può capitare che il vostro datore di lavoro sia uno di quei padroni di buon cuore, che vi tiene a progetto perché - dice lui - non è che può fare altrimenti, con i tempi che corrono. Allora non se la prenderà se non vi recate al lavoro per un giorno o due, e non vi decurterà l'assenza dal già magrissimo mensile. Piuttosto, utilizzerà la sua generosa concessione come un argomento per dimostrare che ok, sei a progetto, però è come se ce le avessi le tutele, è solo che così paghiamo meno tasse, però vedi che poi la malattia, per esempio, ce l'hai. Codesti padroni di solito non assumono donne perché hanno il problema che restano incinte, e vi preferiscono anche se non siete del sud, non tanto per razzismo quanto per il fatto che più è lontana la vostra famiglia e più potrebbe venirvi la voglia di chiedere le ferie.

Se siete dei freelance e lavorate principalmente da casa, della vostra influenza non importerà niente a nessuno. Farete le vostre consuete ore di lavoro - magari dodici - dal letto, sotto le coperte. E' il brutto di essere autonomi, vi diranno i vostri clienti, però vuoi mettere la libertà.

Se siete dei portapizze, magari pakistani, andrete al lavoro lo stesso. Un paio di giorni di assenza, con la concorrenza che c'è, possono costarvi il posto e così, nonostante il lavoro che fate vi porti ad ammalarvi anche più degli altri precari, passerete come al solito la giornata a cavallo di un motorino, con l'aria fredda che vi taglia gli occhi e le guance. Butterete giù una tazza di té al cardamomo sperando che vi preservi dalla polmonite che, tra le sigarette e il lavoro, non smette un attimo, per tutto l'inverno, di seguire i vostri passi.

Se invece siete pagate ad ore e per di più in nero, vi farete un sacco di paranoie. Dopo una buona mezz'ora di titubanza, chiamerete il vostro capo e, nella nebbia della febbre, scambierete il suo "Non preoccuparti, ce la facciamo" per una formula di licenziamento. Passerete tutta la mattina a implorare un'entità qualunque affinché ingolfi il telefono di chiamate, faccia andare il tilt la cassa e magari renda anche i colleghi improvvisamente muti e alieni alla lingua italiana. Qualunque cosa riesca nell'intento di far capire al capo che voi, ancorché generiche e superprecarie, servite.

Se invece vi trovate nella condizione di non avere neanche uno straccio di lavoro, nemmeno la partita IVA, neanche un rimborso spese simbolico, l'influenza rappresenterà per voi una magnifica occasione di vacanza. Finalmente potrete passare una giornata a leggere, a scrivere o a fare quello che vi pare - almeno negli intervalli tra un pisolino febbricitante e l'altro - invece che trascorrere il vostro tempo tra interinali, colloqui più o meno fittizi, trame relazionali che potrebbero, forse un giorno, materializzarsi in una vaga possibilità di collaborazione occasionale. Ve la godrete, l'influenza, come quella tregua che cercate da tanto, come il poter riposare senza sensi di colpa, senza il dubbio, martellante, di essere causa del vostro stesso male.

In ogni caso, sia che abbiate accolto con favore o meno l'influenza, sappiate che forse ve la siete presa da un portapizze che ha starnutito sul vostro pranzo.

sabato 26 novembre 2011

Chi ha paura dei poveri?

Nei momenti di crisi la distanza che ci separa dalla miseria, quell'elastico che tendiamo con tutte le nostre forze puntando i piedi sul terreno, si accorcia notevolmente. L'elastico di colpo si fa più spesso e robusto, e difficile da tirare. Ci sentiamo trascinare, scaviamo solchi nel terreno con i talloni, e andiamo nel panico quando della tanto temuta povertà, che fino a quel momento riuscivamo a tenere d'occhio da lontano, iniziamo a scorgere gli orrendi dettagli.

Ed ecco allora che tutto ciò che riesce a darci l'illusione di esserne ancora distanti ci consola, e iniziamo a provare una grande gratitudine per quegli omini in pettorina gialla che ci aspettano alla cassa del supermercato, chidendoci di donare un pacco di biscotti o un barattolo di passata. Tra noi e il povero, il barbone, il lavoratore decaduto, il disoccupato cronico, il pensionato ridotto alla fame, ora ci sono loro, con le loro facce buone e i loro scatoloni ricolmi di ricchezza.

Niente scava più distanza tra la ricchezza e la povertà della beneficenza, ma la beneficenza fatta per interposta persona, mica quella dei cinque euro messi in mano al Senegalese che vende i libri per strada: quello ti viene tanto vicino che puoi vedere le sue labbra spaccate, i suoi occhi stanchi, i suoi denti rosi dalla carie. E ti vengono i brividi, perché lo sai di avere un dente cariato pure tu, ma per andare dal dentista hai deciso di aspettare tempi migliori. Prende il tuo stesso treno, il Senegalese, perché come te abita fuori città, dove l'affitto costa meno. Nei giorni feriali avete più o meno lo stesso odore. Certe mattine daresti una mano per non incontrarlo mai più. Daresti un pacco di biscotti al giorno, per tutta la vita, per non incontrarlo mai più.

Dedicato a tutti coloro che oggi, giornata nazionale della colletta alimentare, se la sono presa con i Wu Ming pur di non ammettere che l'evento sia organizzato da CL e che non sia, quindi, pura emanazione della bontà sociale, cui affidare ciecamente la propria offerta apotropaica. Immagino facciate parte dell'85% di italiani che si dicono spaventati dal futuro. Ne faccio parte anch'io, in pieno. Ho anche paura dell'aereo, degli incendi, dei botti di capodanno, dell'autostrada e se sono da sola a casa anche il buio mi inquieta un po'. Ma la paura dei poveri è troppo vigliacca persino per me.

giovedì 24 novembre 2011

Di cameriere, statistiche, uomini che costruiscono falli con la verdura e violenza di genere

In un bar del centro c'è una cameriera piuttosto scontrosa. Non sorride mai, non alza lo sguardo sui clienti quando li serve, ma mantiene gli occhi fissi sui bicchieri e sulle tazze che sta scaricando al tavolo. Attraversa il locale a grandi falcate, con aria indifferente. Un amico, mentre aspettavamo che lei ci servisse, una volta disse che quella ragazza aveva precisamente l'aria di una capace di prendere un cliente a morsi.

Il bar è uno di quei bar in cui appena cala il sole la gente inizia a parlare a voce troppo alta. Quella volta feci notare al mio amico il fatto che, in un posto del genere, una cameriera carina e gentile allo stesso tempo avrebbe una vita tutt'altro che facile. I clienti ci mettono un attimo a scambiare la tua buon educazione per disponibilità sessuale, specialmente dopo un paio di spritz.

La molestia non è qualcosa di riducibile al suo semplice aspetto sessuale. Quando un cliente, un passante, un professore o chicchessia ti rompe le ovaie a proposito del tuo culo, del tuo bel visino o di qualunque altra cosa, non ti sta, ovviamente, facendo un complimento, e fin qui ci siamo. Sta facendo di te un oggetto, e questo è certo, ti sta dicendo, sotto sotto, "tu sei mia se lo voglio". Ma non solo, sta anche dicendo "il tuo bar è mio, questa strada è mia, le aule in cui studi sono mie", Sta esprimendo la sua supremazia sui tuoi luoghi, sul tuo tempo, sulle cose in cui investi le tue energie e sulle tue necessità.

Il tuo corpo e la tua mente puoi sottrarle ad un uomo, difendendoti da lui. Ma il tuo luogo di lavoro? La tua università? Le strade in cui cammini? Tu, da sola, non basti. Puoi schivare il viscidume degli uomini mostrandoti particolarmente antipatica, ma non puoi impedirgli di dettare legge dove trascorri il tuo tempo, dove impari, dove ti guadagni da vivere.

E anche se sono d'accordo con la maggior parte di quanto scritto dall'autrice di questa magnifica lettera, non credo affatto che ciò di cui abbiamo bisogno siano luoghi protetti, rifugi in cui costruire le nostre vite, al riparo. Quello che ci vuole, credo, è invece un'alta marea che affoghi tutti coloro che, appesantiti dai loro ego gonfi di testosterone, non siano capaci di smetterla; un'ondata che, ritirandosi, scopra finalmente strade in cui possiamo camminare in pace, e bar in cui possiamo servire birre su birre senza doverle contare, senza dover monitorare lo stato alcolemico dei clienti per evitare che ci rovinino l'ennesima serata.

Io sono stata fortunata. Per una settimana è venuto a lavorare in pizzeria un cuoco amico del mio capo, uno di quegli uomini che amano riempire l'aria attorno a sé del frastuono delle loro battute, del chiasso dei loro doppisensi, urlati e ripetuti solo perché urlare e ripetere "io sono maschio e tu no" risulterebbe alla lunga poco divertente persino alle orecchie di quegli imbecilli dei loro amici. Sapendo che questo atteggiamento da primate, ovviamente, mi infastidiva, il cuoco lo perpetrava in mia presenza persino con maggiore convinzione. Le sue eccezionali affermazioni di virilità consistevano, ad esempio, nell'innalzare in cucina sculture vegetali in cui a spiccare, tipicamente, erano grosse carote piantate in verticale, posizionate dove io potessi ritrovarmele proprio davanti agli occhi. A causa delle sue simpatiche trovate ho passato una brutta settimana. Per fortuna, ripeto, il tizio è rimasto solo qualche giorno, ma se non fosse andata così? Che avrei fatto?

Nonostante l'apparenza irsuta, il testosterone è un ormone debole, basta poco per mandarlo in crisi. Per lo stesso principio, dovrebbe essere tutt'altro che impossibile insegnare ai ragazzi a non molestare, a lasciare in pace le loro simili. Per quando riguarda molti uomini adulti, credo che l'unica cosa saggia da fare sia evitare che nuociano e attendere che il tempo ce ne liberi, ma i ragazzi?

Ancora una volta, non siamo noi donne a dover imparare, non siamo noi che sbagliamo, sono gli uomini. E allora, che siano loro a fare i corsi di recupero, che siano loro i destinatari delle pubblicità progresso, delle statistiche e dei volantini sulla violenza di genere. I luoghi in cui si verbalizza la violenza, in cui la violenza appare e viene discussa, sono solo ritagliati su di noi, sono solo nostri. La violenza di genere non è nostra, è loro, da sempre.

Questo post arrabbiato e sconclusionato è stato ispirato da quest'altro post di Lipperatura, a sua volta collegato all’uscita delle inquietanti statistiche sulla violenza di genere subita dalle studentesse dell’Alma Mater di Bologna.

lunedì 21 novembre 2011

Working poors

I ragazzi in cerca di lavoro arrivano verso le sei e mezza, nel caso ci fosse bisogno di loro quella stessa sera. Gli incidenti sono frequenti, e le pizzerie da asporto possono ritrovarsi a corto di personale da un momento all'altro. Questi fattorini itineranti sono talmente numerosi che il loro passaggio, uno per volta, un po' ogni giorno, fa parte della routine.

L'amico che lavora con me ha fatto un incidente proprio qualche giorno fa. Il mio primo pensiero, quando l'ho saputo, è andato alla sua testa e alle sue gambe, ma il pensiero successivo, una frazione di secondo dopo, andava già al suo motorino. Non si è fatto molto male, ma il manubrio non risponde più come dovrebbe e i soldi per aggiustarlo - così come l'assicurazione - non ci sono. Quella mattina, dopo aver fatto le ultime consegne su un motorino rotto, il mio amico è tornato a casa per bere un bicchiere di latte e zafferano contro il dolore.

Come in un film neorealista insopportabilmente in ritardo, il mio amico non ha i soldi per pagare i suoi creditori, nè per ricaricare il cellulare, né per far riparare la sua moto. In pratica non ha i soldi neanche per lavorare. Eppure passa in pizzeria più di sessanta ore a settimana.

Ogni tanto, qualcuno a cui lui deve dei soldi si fa vivo alla nostra porta, o lo costringe a lunghe telefonate. Ci sono volute parecchie centinaia di euro di pizzo soltanto perché potesse avere la residenza a Bologna, e quindi il permesso di soggiorno. Ieri ha deciso di rivolgersi a suo fratello in Pakistan, perché gli spedisca qui, nell'Italia del suo sfortunato approdo, quello che laggiù è l'equivalente di un anno di stipendio. Per lo strazio non mangia quasi nulla e i suoi capelli, già bianchi, sono diventati ancora più ispidi.

C'è qualcosa di così insopportabile nella sua fatica che a volte è meglio fingere che non ci sia. Scherziamo come se niente fosse. Non so se sia per questo, ma certe mattine mi sembra persino allegro. Forse gli piace specchiarsi nel mio brontolio leggero, di chi non ha pensieri troppo gravi, e immaginarsi libero, quantomeno, da alcune delle sue catene.

domenica 13 novembre 2011

Dead Land Walking

Ed è con lo champagne stappato in piazza e i ringraziamenti a Napolitano che un esecutivo ormai stabilmente nelle mani di organismi internazionali senza alcun rapporto con la democrazia ha fatto passare una legge che nei fatti distrugge alcuni degli ultimissimi argini che la società italiana aveva costruito contro il neoliberismo. L'annullamento del risultato del referendum, fatto inghiottire come una pastiglia di Rohypnol disciolta già nel primo dei nostri calici.

Dell'agenda di Mario Monti si sa già praticamente tutto: svendita dei beni pubblici, liberalizzazioni, privatizzazioni, tagli. Niente di diverso dalle ricette applicate in Grecia, ma prima ancora nella Russia del golpe di Eltcin, in Cile, in Ecuador e ovunque a questi personaggi siano state lasciate le mani libere. Come nel copione di ogni operazione di shock economy, percorreremo il nostro miglio verde nello stordimento, accecati dalla paura. Qualcuno reagirà, è nell'ordine delle cose, ma la maggior parte delle persone accoglierà con un sospiro di sollievo l'avvento dei nuovi padroni.

Repubblica, con la nonchalance di uno Zelig che sa di fare propria sempre l'immagine del più forte, ha già preso a salmodiare la propaganda del nuovo governo: il gigantesco post-it con cui, a quanto pare, ha intenzione di ricoprire un paese intero.

Nel film La città incantata, c'è una scena che mi ha sempre colpita moltissimo: la bambina protagonista, Chihiro, ha appena visto i suoi genitori puniti da un incantesimo e si ritrova da sola in mezzo a una folla di spiriti che sembra travolgerla. Non solo, ma si accorge anche che il suo corpo sta perdendo consistenza e che è sul punto di scomparire del tutto. Un abitante della città incantata, il maestro Aku, la scorge e le offre una bacca da mangiare. Grazie ad essa Chiriro piange enormi lacrime di paura e torna visibile, pronta ad affrontare il duro lavoro che la aspetta per riconquistare la libertà per sé e per i suoi genitori.

Oggi penso che anche a noi occorrerebbe una di quelle bacche, così potremmo piangere per noi stessi, per i nostri errori, per le nostre incertezze, per la povertà che già viviamo e per quella che ci aspetta. Dopo aver versato le nostre lacrime, potremmo finalmente spogliarci dell'abito funebre che già ci hanno fatto indossare nella certezza di seppellirci, e così ritrovare la nostra voce per parlarci e le nostre braccia per rimboccarci le maniche.

venerdì 11 novembre 2011

Segni

Il mio amico A. è uno che crede nei segni. Qualche giorno fa, lui e un suo amico stavano seduti in un parco a parlare di soldi, che è quello di cui i poveri parlano quasi sempre. Nel giallo dorato delle foglie, un bel momento sono cadute sette foglie ancora verdissime, proprio ai loro piedi. Il mio amico le ha raccolte e la divise: quattro le ha date al suo amico, che si è appena sposato, e tre le ha prese per sé.

Poi è venuto al lavoro, in pizzeria, e si è licenziato. Il capo gli ha risposto semplicemente "Perfetto". Stamattina, giorno di fenomenali congiunture numerologiche, ha ricevuto una telefonata in cui confidava da tempo. Il fatto che sia venerdì, giorno sacro, non ha fatto altro che rafforzare la sua fiducia. Trascorrerà il pomeriggio, nella pausa del lavoro, in moschea a ringraziare Allah per ciò che già gli ha dato e ad implorarlo di non chiudergli la via.

Il mio amico è una persona talmente straordinaria che, nel buio più fosco, è capace di scorgere presagi positivi tra le foglie degli alberi. Io non gliel'ho detto, ma ho paura che questo 11.11.11 sia una gran truffa, l'ennesimo abbaglio dell'essere umano, però gli invidio il coraggio e la gentilezza delle sue speranze.

Un venerdì notte, mi ha raccontato, ha sognato che mi vedeva partecipare a una gara di corsa e tagliare per prima il traguardo. Non lo so a che si riferisse, dato che l'unico traguardo che ho davanti al momento è quello di pagarmi con le mie forze tutte le spese, e non sono nemmeno certa di farcela. Forse qualcosa di più lontano, qualcosa che ancora non vedo.

mercoledì 9 novembre 2011

La brutta aria

La pizzeria in cui lavoro è più esemplificativa, come Italia in miniatura, di qualunque parco a tema: c'è il capo ex-militante antisistema e ora sfruttatore feroce, ci sono i licenziamenti, c'è il sessismo, ci sono i clandestini e c'è anche l'evasione fiscale. C'è lo stipendio da fame, ci sono i diritti e i doveri detti a voce inter nos, c'è il caos e l'arrangiarsi giorno per giorno e però dai, cazzo, che qui si mangia come da nessun altra parte.

Ebbene, in questo piccolo mondo la scossa degli spread a 575 punti, del tetro ritrarsi di ogni parvenza di democrazia, dei rendimenti che già gli strozzini globali hanno messo da parte la benzina per darti fuoco alla macchina, s'è sentita eccome. Ieri sera e stamattina il telefono ha squillato appena per qualche ordine dietetico, in due momenti della settimana da mesi sempre ruggenti. I clienti più danarosi - grossi uffici occupati da compagnie finanziarie e assicurazioni - hanno pranzato in bianco, senza andare minimamente a scalfire le nostre scorte di sughi e primi fastosi. In cucina, invece del rumore secco delle padelle, si udivano suoni fruscianti di pulizia e voglia di smobilitazione. Il capo, in uno dei suoi consueti sproloqui politico-gastronomici, si è persino messo a blaterare di anticapitalismo e a sfanculare la Marcegaglia, che il baratro lei lo vede forse in fotografia.

Insomma, io non lo so se la due giorni più sfigata della mia carriera di cassiera, caduta proprio nel momento in cui più si fanno scure le ombre sul futuro del paese, sia solo una coincidenza. Fatto sta che nella piccola Italia di questa scalcinata pizzeria di Bologna tira una brutta, bruttissima aria.


Qui un interessante schema che spiega quali sono i paesi più esposti nei confronti del debito italiano e, quindi, quelli più interessati a prolungare ad libitum la nostra agonia finanziaria.

martedì 8 novembre 2011

Articolo 2. Diritto alla vita

Il governo Berlusconi non esiste più da tempo e il parlamento italiano è uno stagno fangoso isolato in una pianura arida, con gli ultimi coccodrilli rimasti che continuano a dibattersi solo per evitare che la melma attorno a loro, seccandosi, li intrappoli a morte. E' uno spettacolo che certamente potrà interessare qualche zoologo sadico - come sono, in fondo, i molti Divi dell'infotainment che già si preparano per il party del dopo-Silvio - ma che a molti altri fa semplicemente ribrezzo. Anche perché dopo il party non ci aspetta certo un risveglio con cappuccino, brioche e un bel Polase per i postumi.

I burocrati delle istituzioni europee e del FMI infatti sono già nascosti dietro alle tende, per infliggerci quella che sarà certamente una delle più memorabili feste a sorpresa della nostra epoca. Gli stessi burocrati che nella loro Convenzione per i diritti dell'uomo (CEDU, poi inserita attraverso la Carta dei diritti fondamentali della UE nel Trattato di Lisbona) così scrivevano a proposito del diritto alla vita:

"Articolo 2 - Diritto alla vita

1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena.

2. La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza
resosi assolutamente necessario:
a. per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale;
b. per eseguire un arresto regolare o per impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta;
c. per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione."

Attenzione a non festeggiare troppo, da sbronzi non si può dormire con un occhio aperto. Intanto a Londra già la polizia sarà autorizzata, durante la grande manifestazione di domani, ad utilizzare veicoli blindati e proiettili di gomma, esattamente come avvenuto durante i riot di quest'estate.

lunedì 7 novembre 2011

La crisi e i cortocircuiti del maschilismo

La settimana scorsa il mio capo ha cacciato il cuoco neoassunto, quello che doveva scalzarmi dal mio posto di lavoro come tuttofare generica in nero. L'ex-neocuoco ha poco più di vent'anni, ed è appena arrivato a Bologna dal sud. Il capo l'ha mandato via non appena si è presentata l'occasione, approfittando di un cliente scontento per accusare il poveretto di un errore in cui non c'entrava praticamente nulla. Il ragazzo ha inghiottito la rabbia e ha chiesto scusa, ma non è servito. Ecco come salgono gli indici di disoccupazione giovanile, con un grumo di merda e di lacrime buttato giù, e qualcuno dall'altra parte a cui non importa niente.

Quando ho saputo che il cuoco era stato mandato via e che il mio stipendio era salvo, lì per lì non ci ho capito nulla. Ho pensato si trattasse di una questione personale o del segno definitivo della pazzia del capo, ma poi la triste verità mi è arrivata alle orecchie tra le chiacchiere della cucina: io costo meno.

A giugno, durante le strane settimane del presidio accampato di Piazza Maggiore, decidemmo di organizzare un laboratorio sulla discriminazione di genere. Sapevamo che avrebbero partecipato molti passanti e tanta gente che non aveva mai realmente affrontato il discorso, così optammo per lasciar fluire il dibattito, per vedere dove portava. Ebbene, la maggior parte degli uomini intervenuti sostenne la tesi che la discriminazione nei confronti delle donne non esista, e che in realtà le donne siano spesso avvantaggiate sul lavoro e nella vita. Credo di aver già parlato di quanto l'ondata di quel discorso - pronunciato con rabbia o con risatine di sufficienza, con fatalismo o con paternalismo viscido - mi colpì. Non c'era quasi bocca maschile che non ne esternasse una sua versione.

Chiunque abbia letto Operaie, lo splendido reportage di Leslie T. Chang, ha certamente ricavato la mia stessa impressione: il capitalismo attuale si relaziona con le donne in modo particolare. Le donne sono, diciamo, i suoi lavoratori ideali. Meno sindacalizzate degli uomini, sono anche più ricattabili, per ovvie ragioni biologiche, e rimpiazzabili, perché spesso ricoprono mansioni generiche. E' per questo che a volte, durante congiunture economiche come quelle - di crisi - in cui stiamo vivendo, le premia. Nel complesso la società è più povera. Anche le donne lo sono, perché non crescono i loro stipendi e diminuiscono quelli dei loro mariti, padri, fratelli, figli o compagni. Eppure, ad occhi offuscati come quelli dei passanti di Piazza Maggiore sembra che le donne vincano. Chissà se è la stessa cosa che ha pensato il povero cuoco.

Qui un post di Struggles in Italy sull'argomento e qui uno di Lipperatura sull'ultimo Gender Gap Report.

mercoledì 2 novembre 2011

Psicopatologia alimentare della crisi

Nelle cucine il tempo passa rapido, così rapido che dopo tanti anni in Italia sei povero come quando eri appena arrivato, anzi persino di più. Così rapido che l’italiano lo balbetti a malapena, e ancora utilizzi la terza persona dei verbi quando parli di te. Ne butti via a palate di tempo, tutti i giorni della tua vita tranne qualche sabato o domenica mattina, per dormire. Non te ne accorgi nemmeno, da tanto sei abituato a perderlo per strada. Ti scivola fuori dalle tasche assieme agli spiccioli.

Dall’altra parte del banco, là dove non arriva il calore dei forni, il tempo invece va centellinato minuto per minuto, va divorato fino all’ultimo secondo, per non perdere il ritmo e non farsi lasciare a terra dal folle autobus ai cui sedili tocca stare aggrappati. Anche il cibo è diventato un’unità di tempo, una casella tra le tante, che può schiudersi aprendo il coperchio di una vaschetta d’alluminio. Il suo contenuto - il calore e l’energia che sosterranno una giornata di lavoro - è un nome che compie il viaggio di andata dentro un filo del telefono, e quello di ritorno in una cassa legata a un motorino.

Nei momenti di magra, quando il cibo degli altri rimane a stagnare nei frigoriferi, inizia la processione degli emissari dei vari giganti del coupon: Groupon, Groupalia e così via. Loro sanno quando si lavora meno e quando i titolari sono più sensibili a tutte quelle sgangherate proposte che promettono di tenerli a galla. Arrivano a luglio o nelle vuote giornate di ponte, quando semplicemente tener aperto un locale significa rimetterci diversi biglietti da cento. E allora ecco la loro soluzione: il coupon, il ristorante a portata di crisi. Una proposta con talmente tanti non detti da rasentare il confine della truffa.

E quando i clienti arrivano, con in mano il loro coupon fresco di stampante, glielo leggi in faccia quasi sempre che sapere chi c’è dall’altra parte del banco gli importa ancora di meno che ai clienti delle vaschette di alluminio. Vengono da te per riempirsi la pancia il più possibile, non importa di cosa. Per bere fino all’ultimo sorso di quello che il loro foglietto vale, e possibilmente di più. E’ una bulimia che mastica denaro e carta, prima che cibo.

A volte qualcuno telefona per sapere se possiamo andare a comprargli le sigarette o a fargli un po’ di spesa, mentre gli portiamo la cena. Di solito nella voce c’è un velo di imbarazzo, perché a rispondere al telefono c’è un’italiana. Nelle decine di pizzerie di proprietà di stranieri che ci sono in questa città, fare questo genere di servizi è la norma, specialmente da quando i soldi in circolazione sono diventati di meno.

Intanto il fiume di cibo, nell’indifferenza generale, continua a scorrere.

mercoledì 26 ottobre 2011

Alcuni strani collegamenti tra il futuro, Studenti.it e il fatto di spaccare vetrine

Ormai non sono più studentessa da un paio d'anni, e da molti di più non appartengo alla fascia d'età degli studenti che frequentano il sito Studenti.it, quindi può essere che non capisca, che abbia le traveggole o che mi faccia semplicemente trascinare da un accesso di rabbia precaria.
Tuttavia, dopo aver dato un'occhiata all'ultima newsletter del sito ho avuto come uno strano prurito, come una voglia di spaccar vetrine. E se è successo a me, che sono una ventisettenne anemica, non oso immaginare come possano sentirsi un ragazzo o una ragazza nel pieno dei loro diciassette anni.

Sì, perché quando un sito che propone serissimi sondaggi sulla condizione sociale dei giovani in Italia, che offre innumerevoli servizi di orientamento al lavoro e che pubblica costantemente offerte di impiego, spiega senza un filo di ironia che tra le dieci professioni del futuro ci sono il "fashion feng shui" e lo "psicologo canino" beh...il dubbio di essere presi per il culo penso che sorga più che legittimamente. E anche una certa ansia per l'arrivo imminente di questo benedetto futuro.

Nella Gallery di Studenti.it - non so perché, ma i cosiddetti "lavori del futuro" sono pubblicati una gallery fotografica - compaiono, oltre a quelle citate sopra, professioni quali il compcierge, il soul coach o il pararescuer. Quest'ultima sarebbe una figura professionale che si occupa di fornire aiuto in caso di calamità naturali o guerre.

Insomma, il futuro di Studenti.it appartiene a una civiltà le cui redini sono tenute da personaggi che dormono in alberghi di lusso, risiedono in appartamenti in linea con le raccomandazioni del taoismo, convivono con cani che devono possedere un solido equilibrio psichico e, nel loro tempo libero, hanno bisogno di un coach per l'anima. Tutto questo mentre all'esterno infuriano la guerra e il tracollo ambientale e le imprese - o i singoli ricconi - fanno la fila per assumere professionisti in grado di trarre in salvo i loro impiegati e le loro proprietà. Penso che un po' di nervosismo, dopo un simile quadro, sia del tutto comprensibile.

Dei meravigliosi consigli che Studenti.it infligge ai suoi giovani lettori avevo già parlato qui.

venerdì 21 ottobre 2011

Cari amici disoccupati, vi sono mancata?

Non temete, vi sto salutando dal ciglio della buca in cui vi trovate. Fra poco, con ogni probabilità, sarò di nuovo con voi, a grattare con le unghie le pareti fangose della gigantesca, profondissima trappola per animali in cui siamo finiti, e a rosicchiare i viveri che ci lanciano da lassù. Il mio capo, infatti, sembra non sapere che farsene di una cassiera-lavapiatti-sgobbatrice generica, dato che ha bisogno di un cuoco, e non saprei proprio come dargli torto. Peccato che nel frattempo sublimi la frustrazione prendendo a calci le padelle e rendendo il lavoro un inferno a me a ai due ragazzi pakistani con cui condivido la sfiga.

Quandò risiederò di nuovo lì tra voi, lontana dal sole dell'indipendenza economica, dovrò tornare a tamburellarmi sulle tempie alla ricerca di qualche fonte da cui spremere un po' di denaro. Le soluzioni che mi vengono al momento sono poche: vendere illegalmente crostatine fatte in casa per strada - idea che mi frulla in testa da un po', non fosse che ho paura dei tribunali -, cucire mutande artistiche da spacciare come originalissimi regali di Natale oppure andare a fare le pulizie. Restano i mille lavoretti via web, quelli a cui ora dedico i ritagli di tempo e i ritagli delle mie speranze.

"Inventiamoci qualcosa" mi dice il disoccupato accanto a me. Io direi che, più che inventare, qua occorrerebbe imparare da quei leggiadri circensi che si vedono in tv d'estate, e costruire delle piramidi umane in grado di suparare l'enorme distanza tra il pavimento della buca e la superficie. Una volta lassù i primi che escono potrebbero lanciare delle funi agli altri, e farli uscire uno ad uno. Sarebbe bello, poi, ricoprire questa maledetta buca, buttandoci dentro le macerie di quello che - nella furia della vendetta - distruggeremo.

Magari ecco, possibilmente senza che ci finiscano in mezzo le dita di un ragazzo, o le primavere di un altro, trascorse tra il carcere e il tribunale ad un'età in cui la responsabilità non è proprio tutta tua.

Per il resto, sul 15O si è già detto tutto qui.

lunedì 10 ottobre 2011

Defeticizzare la pizza da asporto

Per A, l’amico che lavora con me, il sabato e la domenica sono giorni di riposo. Questo nonostante comunque trascorra in pizzeria – tra preparazioni, consegne e pulizie – circa sette ore. Durante i giorni “feriali” lavora dodici ore al giorno in cambio di ottocento euro al mese e di un contratto regolare, che gli ha dato la possibilità di volare in Pakistan per qualche settimana con in tasca un permesso di soggiorno. Non tornava a casa da sei anni. Ora è talmente pieno di debiti che non può ricomprare i vestiti che i suoi vecchi padroni di casa hanno buttato nella spazzatura, dopo aver sfrattato lui e i suoi quattro coinquilini dal bilocale in cui abitavano. Alla fine di ogni serata calda di questa lunga coda d’estate ringraziava Allah, per avergli concesso di non congelare mentre sfrecciava in motorino per le strade di Bologna

Ogni giorno che passa i suoi capelli sono più bianchi. A quanto pare due lauree e sei lingue non bastano a staccarsi da quel maledetto motorino e a trovare un lavoro al chiuso, al caldo. Dice che quando i clienti pagano con un biglietto da cinquanta euro aspettano di ricevere il resto prima di allungargli la banconota, e a volte, facendo finta di niente, cercano persino chiudergli la porta in faccia senza dargliela.

Io sono fortunata, non ho debiti e posso mettermi in tasca tutto quello che arriva. Sei euro l’ora. Quando ho visto la prima paga settimanale non ci credevo. Nell’altra pizzeria in cui ho lavorato – non ho resistito più di qualche giorno – prendevo esattamente la metà, in nero. I ragazzi che lavoravano con me erano tutti clandestini tranne uno, un rifugiato, scappato dall’Iran quando aveva quindici anni. Siccome avevo studiato il persiano mi aveva presa in simpatia e correva ad aiutarmi ogni volta che mi incasinavo con la cassa. Il padrone invece, quello stronzo, era egiziano e credo ci godesse non poco a sottopagare un’italiana.

R., il ragazzo iraniano, una volta si era schiantato talmente forte contro un bidone della spazzatura che il suo casco si era spaccato a metà. Lui non era religioso, e diceva semplicemente di aver avuto culo.

C’è qualcosa di strano nelle decine di pizzerie da asporto di questa città. Aprono, chiudono, cambiano nome, e l’umanità che le fa tirare avanti è sempre la stessa, si sposta da una all’altra, fluendo, senza che nulla, nel continuum di cibo che viaggia a settanta all’ora per la città, si interrompa. Nemmeno una vibrazione, un tremolio di incertezza, giunge su quelle migliaia di bocche affamate.

Stay foolish, diceva quello là. Stay hungry.

martedì 4 ottobre 2011

Ma Barletta dov'è?

Una delle cose più incredibili del capitalismo è che si tratta di un sistema economico fondato sulle capacità di rimozione dell'essere umano. Pensando di essere consumatori, rimuoviamo il fatto di essere anche, dal momento che di norma lavoriamo, produttori. E poiché, come scriveva Wu Ming 1, "Il consumatore è l’ultimo anello della catena distributiva, non il primo della catena produttiva", quando ci consideriamo consumatori accettiamo di posizionarci al termine di un processo, in fondo alle cose, nel punto in cui non c'è più niente da fare e ogni azione è, nel migliore dei casi, un lontano brusio che non infastidisce le orecchie che vorrebbe assordare.

In cambio riceviamo l'illusione di non trovarci invece all'altro capo del tragitto, insieme ai Cinesi che assemblano cellulari in enormi fabbriche-città, o agli Indonesiani che cuciono magliette per 14 ore al giorno. L'Oriente produce - i paesi poveri producono -, mentre noi, che siamo ricchi, consumiamo. Quanto è consolatoria questa barzelletta, quanto ci fa sentire al sicuro nel nostro porticciolo alla fine della storia. Quanto ci è cara, per il fatto che ci da la possibilità di continuare ad essere Noi e Loro, lontani su due gradini diversi del podio.

Il consumatore è un individuo che si osserva attraverso una lente di ingrandimento - la lente che il capitalismo gli ha messo davanti agli occhi -, e che per questo pensa di essere, come individuo, pienamente capace di incidere politicamente. E' un farfugliare da ubriachi, che regala enormi vantaggi a chi questo sistema lo comanda per davvero, mentre a noi lascia soltanto lo straniamento un po' euforico di una boccata di popper.

Qui e qui si possono trovare pezzi dell'ennesima storia orrenda, con le operaie uccise mentre lavoravano per meno di 4 euro l'ora in nero. Se non sapete dov'è Barletta, cercatevela su Maps.

Qui potete trovare un post la cui relativa discussione è immediatamente sfociata nel nulla siderale.

Capirai, io ho lavorato anche per meno.

D'ora in poi boicotterò i maglioni.

Niente da aggiungere

domenica 2 ottobre 2011

Anche i lavoratori tra gli occupanti di Wall Street. E per l'1% inizia a mettersi male.

Il TWU è il sindacato americano dei lavoratori dei trasporti, quello che alcuni anni fa aveva organizzato uno sciopero in grado di paralizzare la città di New York, fatto che non accadeva da 25 anni. Ora il membri del TWU, 38.000 solo a New York, hanno votato per sostenere l'occupazione di Wall Street, che prosegue da più di due settimane. Martedì alla protesta si erano aggiunti 700 piloti, in maggioranza delle compagnie Continental e United Airlines, che hanno sfilato in uniforme per le strade del distretto finanziario. Sembra che presto anche l'UAW, il sindacato degli operai dell'auto, esprimerà ufficialmente il suo sostegno.
Il mondo del lavoro si unisce alla protesta di piazza, e mai New York è stata più vicina a Il Cairo: come dimostra il caso egiziano, anche nell'epoca dei "beni immateriali" e della finanziarizzazione dell'economia sono i lavoratori l'unico fattore che può far cambiare passo a un'iniziativa politica di cambiamento, dandole il peso e la forza necessari per portare avanti le sue istanze.
Sono prima di tutto i lavoratori stessi a doversi ripensare come forza in grado di agire e di imporre la sua agenda. Marchionne e quelli come lui sono dei venditori di fumo, il cui unico potere è affondare la nave su cui viaggiano per poi saltare su una scialuppa all'ultimo momento, e magari svignarsela alle Cayman. Loro sono l'1% dell'Occidente, lo 0,14% del mondo.
Come dicevano i Wobblies, ancora tra i primi ad appoggiare l'occupazione di Wall Street:
We have been naught - We shall be All!


venerdì 23 settembre 2011

La sinistra che ha scordato il Referendum

Dal Referendum sono passati poco più di tre mesi, eppure sembra di vivere in un altro paese. Dietro la minaccia costante del default, le rivendicazioni espresse in quelle due giornate di Giugno sembrano far parte di un'altra epoca, quando eravamo sereni e pieni di sogni. Sarò ripetitiva, ma è proprio così che agisce la shock economy. Finora, gli shock che ci hanno inferto sono stati piccoli sobbalzi, scossette da qualche decina di volt, eppure sono bastate a farci tornare digeribili le stesse soluzioni che avevamo bandito con forza una stagione fa.

Infatti, ecco che Tito Boeri - guru della pseudo-sinistra liberista e della sinistra confusa - rilancia davanti a uno Iacona adorante la sua proposta per salvarci tutti: liberalizzare i servizi. Le care vecchie privatizzazioni dei beni comuni, cacciate a pedate dalla porta, rientrano sotto mentite spoglie dalla finestra bocconiana.

Non so se avete mai visto un animale chiuso dentro un recinto elettrificato. Anche qui, la scossa che può prendere è una bazzecola, niente di più di quella che si prova ogni tanto toccando la portiera di un auto. Eppure, questo basta a far sì che non si avvicini nemmeno al recinto, se non con grande disagio.

Dodici anni dopo Seattle, ai recinti di cui parlava Naomi Klein hanno aggiunto un bel nastro metallico collegato a una batteria, mentre le finestre...beh quelle verrebbe voglia di tenerle chiuse. Qualche giorno fa Wu Ming proponeva su Twitter di trovare una nuova arma del popolo, al posto dei forconi dell'epoca moderna: io propongo un paio di cesoie, di quelle con i manici ricoperti di plastica isolante.

giovedì 15 settembre 2011

Dizionario tascabile di neolingua per giovani disoccupati

Pubblico con grandissimo piacere un contributo che è arrivato a questo blog da parte di un giovane lavoratore disoccupato, altrimenti detto, nella neolingua di cui sopra, neet:

Da qualche mese sono diventato un "neet": not in employment, education or training. Un'etichetta nuova di zecca coniata da sociologi ed economisti per rendere più cool la figura – ormai pressoché maggioritaria – del buon vecchio "giovane disoccupato".

Fino a pochi mesi fa lavoravo. Il contratto – co.co.pro., per la cronaca – è terminato, e io non l'ho voluto rinnovare.

La cosa vi stupisce? Io, da povero ingenuo e fiducioso cittadino democratico liberale, ho fatto questo ragionamento: se il mercato del lavoro, come sostengono gli apologeti della flessibilità, non è mai stato così libero e flessibile, la cosa dovrebbe valere tanto per i datori di lavoro, liberi di lasciarti a casa quando vogliono, quanto per il lavoratore, libero di lasciare nella merda i suoi datori di lavoro quando preferisce – soprattutto, aggiungo io, se il datore in questione si dimostra propenso allo sfruttamento e impermeabile ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni lavorative.

Se, di nuovo, il mercato del lavoro non è mai stato così libero e flessibile, tanto l'uno quanto l'altro non dovrebbero avere grossi problemi a trovare altre occasioni – di libero sfruttamento in un caso, di libero impiego nell'altro.

E invece, chissà come mai, il datore di lavoro trova subito un rimpiazzo, da pagare ancora meno e da sfruttare ancora più del precedente. Mentre il lavoratore si trova con il culo a terra, costretto ad auto-impiegarsi in quel lungo, penoso, frustrante e gratuito lavoro che consiste nel... cercare un nuovo lavoro.

Veniamo così al primo assioma del "libero mercato del lavoro", che enuncerò di seguito in neolingua:

(1) Il mercato del lavoro è libero e flessibile per tutti. Per il datore di lavoro, però, il mercato del lavoro è libero in quanto flessibile; mentre, per il lavoratore, è flessibile in quanto libero.

Di seguito la spiegazione del primo assioma nella lingua corrente: le riforme neoliberali del mondo del lavoro hanno abolito – e stanno tuttora abolendo – tutele, diritti e garanzie in nome della "flessibilità". Per i datori di lavoro, la flessibilità vuol dire quindi libertà di licenziamento; per i lavoratori, vuol dire invece precariato e lunghi intervalli di disoccupazione tra un lavoro e l'altro nel caso malaugurato in cui subiscano un licenziamento o si licenzino loro stessi.

Ho quasi 28 anni, e ho l'ambizione di considerarmi "giovane". Fino a qualche mese fa ho lavorato, mentre ora sono disoccupato. Potrei quindi definirmi un giovane lavoratore disoccupato. Logico, no?

No. Perché la neolingua ha coniato per me un'etichetta tutta nuova e molto fashion: quella di "neet", appunto. Non sono attualmente occupato, sono giovane e ho lavorato fino all'altro ieri; eppure, non posso considerarmi un "lavoratore". Sono qualcos'altro.

Veniamo così al secondo assioma del "libero mercato del lavoro", che enuncerò di seguito in neolingua:

(2) Un lavoratore di età inferiore ai 31 anni, nel momento in cui viene a cessare il rapporto di lavoro in corso, cessa anche di essere un lavoratore.

Di seguito la spiegazione del secondo assioma nella lingua corrente: se ti fosse riconosciuto il titolo di "lavoratore", ne conseguirebbe che avresti dei diritti e potresti avanzare delle legittime rivendicazioni legate al tuo status. Ma questo il sistema non se lo può permettere. Per cui ti neghiamo lo status di lavoratore e ti appioppiamo uno status nuovo di zecca, coniato per l'occasione dagli ingegneri della neolingua con un carico di connotazioni negative il cui scopo deliberato è farti sentire in colpa per la tua miserrima condizione.

Per l'ex giovane lavoratore che si scopre neet e si trova a fare i conti con la sua rinnovata "libertà", la ricerca di un nuovo lavoro presenta una serie pressoché infinita di ostacoli, seccature e umiliazioni.

Il proverbiale "giro delle sette chiese" ti spinge anzitutto a bussare alla porta delle care, vecchie agenzie interinali. Soltanto per scoprire che aprono due volte alla settimana per un'ora o due al massimo, che molte ricevono solo su appuntamento (in attesa del quale possono trascorrere intere settimane), che per alcune è necessario prima del colloquio registrarsi in internet; e, soprattutto, che un numero spaventoso di persone nelle tue stesse condizioni – o in condizioni di gran lunga peggiori delle tue – ha avuto la tua stessa idea mezz'ora prima di te. Dietro una scrivania, nel frattempo, un'impiegata sottopagata accumula curricula su curricula senza promettere nulla.

Alla porta di una di queste agenzie, è appeso un cartello. C'è scritto: "curricula, iscrizioni, domande di lavoro".

Che strano, penso. Nei manuali di economia chi va in cerca di lavoro si dice che offre del lavoro, non che lo "domanda". A domandare lavoro sono semmai i datori di lavoro. In fondo, il lavoratore viene pagato per il lavoro che svolge, mentre il datore di lavoro è quello che paga...

La stessa curiosa inversione la ritrovo poco dopo nelle pagine di un giornale con "offerte" di lavoro che acquisto all'edicola vicina.

Su questo particolare aspetto, la neolingua del libero mercato tocca il suo vertice insuperato. Perché, se ci si pensa bene, invertire l'ordine di offerta e domanda in riferimento al lavoro equivale a trasformare il lavoro in... una merce che il lavoratore acquista sul mercato!

Che strano. Un signore con la lunga barba nato in Germania all'inizio dell'Ottocento diceva che nel sistema capitalistico le cose stanno, in fondo, proprio così. Infatti il tempo, le energie e le competenze impiegate dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni non sono pagate come dovrebbero; questo succede perché il datore di lavoro – quello che una volta era chiamato "il capitalista" – in un certo senso "ci fa la cresta" tendendo per sé una parte del valore prodotto dal lavoratore. Quindi è come se il lavoratore "comprasse" il suo posto di lavoro, nella misura in cui rinuncia – perché la cede di fatto al datore di lavoro – ad una parte della sua legittima retribuzione.

Di nuovo, che strano. Pensavo che il signore con la lunga barba fosse un relitto del passato, e invece aveva capito tutto. In fondo, ai suoi tempi, mettere in evidenza una cosa del gere significava dare ai lavoratori un buon motivo per incazzarsi. Oggi, invece, una condizione del genere è accettata come normale. Chissà se quelli dell'agenzia interinale col cartello e quelli del giornale hanno mai letto i suoi libri...

I manuali di economia, quindi, raccontano balle. Le agenzie interinali e i giornali non ne hanno bisogno. Difficilmente qualcuno si complimenterà con loro per la sincerità e il fine senso dell'umorismo.

Ecco dunque il terzo ed ultimo assioma del libero mercato del lavoro, che formuliamo, come da tradizione, in neolingua:

(3) L'aspirante lavoratore entra nel mercato del lavoro come offerente, mentre l'aspirante datore di lavoro entra nel mercato del lavoro come potenziale acquirente. Tuttavia, è il lavoratore a domandare lavoro e il datore di lavoro ad offrirlo.

La spiegazione di questo assioma nella lingua corrente trovatevela da soli, che non è difficile.


Grazie a Don Cave per la lucidità, la rabbia e la dignità.



lunedì 12 settembre 2011

Le scuole serali, la shock economy e il regolamento di conti

Il mio amico C. è entrato in fabbrica da ragazzino. E’ giovane, ma già metà della sua vita l’ha trascorsa facendo il saldatore, prima in Salento ed ora più al nord, per cercare uno stipendio e un padrone migliori. S’era stancato di firmare dimissioni in bianco.

Al nord non ha trovato padroni migliori, sono qualcosa di troppo raro anche lì. Forse è per questo che ha deciso di rimettersi a studiare. Quando hai trent’anni, la scuola è una cosa tremendamente seria, è il luogo dove si possono usare ogni giorno parole nuove, dove si cresce sempre, mentre in fabbrica non cambia mai nulla.

E’ una cosa tanto seria che la si ribalta da cima a fondo se è necessario, che si combatte – e si vince – contro professori pigri e incapaci, contro strutture carenti, contro direttori scolastici ostili ed inetti, che si pianta un casino ogni volta che qualcosa non va e che non si impara quanto si vorrebbe.

La genesi delle scuole serali in Italia è legata a quella del caposaldo del diritto del lavoro italiano, lo Statuto dei lavoratori. Fu quest’ultimo a istituire negli anni '70 scuole pubbliche per l’istruzione degli adulti, come parte di un progetto nato dalle lotte del mondo del lavoro che condusse l’Italia a sperimentare un benessere mai tanto diffuso. Mai i lavoratori, nel rapporto con gli imprenditori, erano stati così forti.

Ora, come tutto quello che è scritto nello Statuto dei lavoratori, anche le scuole serali sono sotto attacco, insieme alla tutela dal licenziamento e persino alla possibilità di non essere sorvegliati da telecamere e guardie giurate durante il lavoro. Insieme a tutto ciò che è emancipazione e diritto per il lavoratore.

Nella scuola del mio amico C, come in centinaia di altri istituti, quest’anno le prime classi non partiranno più. Anche qui si palesa il vero intento delle misure che, in un Italia alle prese con continui shock finanziari, vengono approvate in nome del pareggio dei conti: il pareggio, in realtà, è un tentativo di conseguire una vittoria schiacciante, quanto più possibile definitiva, contro i lavoratori. E’ il famoso regolamento di conti.

Il mio amico C. intanto si è diplomato con il massimo dei voti e ora vuole prendersi una laurea in ingegneria. E’ il suo regolamento di conti personale. Ma gli altri dietro di lui troveranno la strada sbarrata dalla riforma Gelmini e da un buio totale di prospettive, in un orizzonte in cui l’unica cosa da fare sembra arrendersi ai dettami di chi la crisi l’ha fatta per salvare non si sa che cosa. Parlare di progresso e, appunto, di emancipazione, sembra un esercizio intellettuale per filantropi che non tengono i piedi per terra.

Il fascismo, ideologia dei padroni per eccellenza, guarda caso non si preoccupò mai dell’istruzione per gli adulti, proprio perché la scuola non poteva servire all’emancipazione, ma solo a creare Italiani fascisti fino al midollo. Oggi la scuola è vista come un terreno di conquista per il mercato, scelta altrettanto ideologica di quella fascista, presa per creare generazioni di ragazzini e adulti privi dell’idea di bene pubblico e disposti a pagare per qualunque cosa. Agli operai, a quanto pare, non resta che andare al Cepu.

martedì 30 agosto 2011

Il cottimo digitale e il leghismo del web. Pensare a cambiare la rete?

La diffusione di internet ha portato alla nascita di narrazioni di tutti i generi a proposito di questa grande rete globale che ci collega tutti. Si va dalle deliranti prospettive della Casaleggio Associati (qui), genitrice di Beppe Grillo e del suo progetto politico, secondo cui in un futuro lontano la rete produrrà un nuovo mondo di progresso dopo che i tre quarti (non bianchi) del pianeta sono stati distrutti dalla guerra, ai moniti di chi sostiene che internet sia uno stumento di Satana (qui). Miti feticistici utili allo scopo di chi li crea.

Quasi nessuno sembra voler considerare il fatto che internet sia, prima di tutto, il prodotto del lavoro di migliaia di persone sparse per il mondo. Se n'è già parlato, qui. Difficilmente la rete viene osservata come spazio economico in cui si dispiegano le iniziative di imprese di ogni genere, che si tratti di motori di ricerca, negozi o vere e proprie industrie dedite alla produzione di contenuti, e di conseguenza dei lavoratori che operano alle dipendenze di queste imprese. Quel punto di vista è prerogativa quasi soltanto dei lavoratori stessi.

E come in ogni ambito, anche i lavoratori della rete non sono certo estranei a logiche corporativistiche, quando non a un vero e proprio leghismo digitale, che se la prende con gli ultimi arrivati e i più disgraziati per il fatto che gli stipendi si abbassano. Su alcuni blog e forum di freelance (vedere ad esempio qui o qui) il discorso che si fa è "c'è gente che lavora sempre per meno soldi, i freelance non devono accettare, non devono abbassarsi", oppure addirittura "questi non sono dei veri professionisti, sono delle prostitute". E se il primo tipo di discorso è comprensibile (il secondo no), certamente manca di uno sguardo d'insieme sul problema e ha il difetto di avallare quella visione individualistica del lavoro che carica completamente sulle spalle del lavoratore la responsabilità delle sue condizioni, lasciandolo da solo a combattere contro un Golia globale in grado di spazzarlo via in un soffio.

A proposito di questo e della terribile piattaforma Freelancer, Dario Banfi descrive in questo modo la situazione: "E’ un’immigrazione lavorativa silenziosa, ma sedentaria, che si muove nel confine del lavoro intellettuale, là dove i territori sono tracciati da saperi condivisi e dunque aperti alla concorrenza dei freelance di tutto il mondo, che riversano nel costo del lavoro quello della vita nel Paese in cui risiedono. E’ una diga aperta, i confini geografici sono rimossi dal protocollo Http, i lavoratori si ritrovano sulla medesima piazza e basta che sappiano parlare un po’ di inglese e usare i tool dei marketplace per entrare in competizione."

Praticamente il sogno divenuto realtà di ogni credente neoliberista (perché il neoliberismo, come dice giustamente Luciano Gallino, non è una teoria economica ma un credo). Mai come nel lavoro digitale si rivela per quello che è - una boiata - la teoria secondo cui il mercato deciderebbe autonomamente il giusto prezzo per ogni cosa.

Fatte le dovute proporzioni, se ad un'azienda va bene che un pallone sia cucito da un bambino in India, il problema non sono certo né quello della qualità del prodotto, né quello di un decadimento del valore e della dignità della professione del cucitore di palloni. Quello che bisogna chiedersi è: che razza di sistema industriale è quello che accetta e realizza l'idea di far produrre i propri palloni ai bambini indiani? In base a quali regole funziona e qual'è il suo obiettivo?

E che razza di sistema industriale è quello che raccatta "principianti, smanettoni e disperati" da tutto il mondo, per fargli mettere insieme merda digitale che ha il solo scopo di far guadagnare a un lontano committente qualche posizione su Google o qualche dollaro grazie alla vendita di spazi pubblicitari?

Vogliamo pensare a cambiarla questa rete?