Dopo il risotto al praticello ecco un'altra ricetta dedicata a coloro che trovano estremamente stimolante (e persino eccitante) dal punto di vista gastronomico, andare rubacchiando il cibo alle frasche all'apparenza più aride e spinose. In tempi come questi - in cui il denaro nelle tasche va prosciugandosi con la stessa ineluttabile costanza con cui evapora il lago d'Aral, in cui ogni stato governato da psicopatici del pianeta sembra possedere l'atomica o esserci vicino e in cui la fatidica data del 12/12/12 si avvicina - l'idea di essere in grado di procurarsi di che mangiare into the wild e senza l'ausilio del triste soldo, torna ad esercitare un grosso fascino. Per me, che da bambina sognavo di essere un animale selvatico e che preferivo avere mal di pancia piuttosto che smettere di sgranocchiare ghiande non appena trovavo un leccio appetitoso, non c'è nulla di nuovo e anzi talvolta mi scopro a rispondere con odiosissimi accenni all'acqua calda a quei decrescitisti e appassionati di ecobio che d'un tratto si accorgono dell'insalata di campo o delle more. Bella scoperta! Io a sei anni passavo i sabati a nutrirmi di corbezzoli e fiori di trifoglio.
Da piccola, il cibo boschivo mi dava una grande sensazione di libertà, spalancava i sicuri recinti della vita domestica e familiare per farmi scorgere un mondo di infinite possibilità di sopravvivenza, in cui me la sarei cavata e anzi, magari, a girar per montagne senza scuole elementari, catechismi, gite obbligate da 012 quando i pantaloni diventavano corti, me la sarei passata persino meglio. Quindi bevevo con sete sempre nuova il sapere che mi trasmettevano i parenti raccoglitori, immagazzinando le informazioni in una sacca da viaggio che, nonostante lo stato indecoroso di molte altre ale della mia memoria, non ha mai mostrato il più piccolo foro.
Il post di oggi non contiene una ricetta particolare, ma semmai qualche consiglio di ricetta e una guida alla raccolta di una pianta tanto repellente quanto capace di regalare frutti gustosi e anche, sul mercato, terribilmente cari. Trattasi dell'asparagina, ovvero della sorella più vecchia, rachitica e selvatica dell'asparago comune. Per chi non la conosce, l'asparagina ha l'apparenza di un ciuffo di lana di vetro portato dal vento a impigliarsi in un cerpuglio di rovi, qualcosa di brutto, persino inquinante forse, e di certo irrimediabilmente sterile. All'osservatrice abituata alle escursioni primaverili a caccia di cibo fresco et gratuito, invece, l'orrendo cespuglio evoca già, nella giusta stagione, la dolcezza delle primizie, di quella breve parentesi di tempo nella quale i lunghi frutti verdi perforano il terreno secco, crescono e si allungano verso il sole tiepido di marzo, umidi di linfe zuccherine e di vita.
Raccoglierli è un gioco da ragazzi, tanto sono indifesi e alla mercé di qualunque animale bipede, quadrupede o di altro tipo che sia, basta indossare scarpe robuste, pantaloni lunghi e, per chi non avesse una vista più che perfetta, un paio di occhiali. Come già detto, l'asparagina ha un'aspetto spiacevole, del tutto trascurabile per chi amasse dei boschi soprattutto la poesia, e infatti non è mai comparsa, che io sappia, in alcun paesaggio impressionista nè la vedrei bene ad arricciare il sottobosco nelle sublimi vallate di Albert Bierstadt. Nè ha la statura metaforica del rovo o dell'ortica, oppure la più prosaica utilità del luppolo. Per tutti questi motivi, sono pochi gli occhi che la notano, e di solito sono occhi che già sanno quello che, tra la peluria spinosa, si può celare.
Per trovare l'asparagina cercate un qualunque angolo di vegetazione che abbia l'aria secca e inospitale, e con poche probabilità di errore scoprirete di esserne circondati. D'aspetto contorto e spesso poco irrorato di clorofilla, ha in realtà il suo deposito di delizie sotto terra, dove i frutti - che in verità si chiamano turioni e che sarebbero nuovi germogli - vengono incubati e poi infine proiettati all'esterno. Non li dovete quindi cercare attaccati alla pianta, ma nelle immediate vicinanze oppure in mezzo a un cespuglio particolarmente fitto, su cui il verde intenso dell'asparago dovrebbe, se fate attenzione, svettare nettamente.
Esplorando sottoboschi, pruni ai confini tra i campi e perimetri di foreste ombrose, dovreste riuscire piuttosto facilmente, se azzeccate il momento propizio, a farvi su un bel mazzetto di verdura con cui condire tagliatelle, imbottire frittate, farcire risotti, rinforzare insalate e via dicendo. Avrete inoltre guadagnato in robustezza fisica, in consapevolezza ambientale, in capacità di osservazione e anche in autostima. Mica poco per un cespuglio che in tutta la storia dell'umanità non si è mai meritato un'espressione di stima, una parola di lode, uno sguardo amorevole, una pennellata d'autore. Io dico che questa è un'ingiustizia.
Adrià, grazie davvero. Da tempo avverto che l'asparago debba occupare un ruolo più importante nella mia vita e la scoperta dell'asparagina, a me ignota prima di leggerti, potrebbe essere il primo passo. Mi piace poi molto il termine "rinforzare insalate", mentre lo leggevo ho ripensato a una indimenticata insalata ricca di asparagi catalani altamente rinforzanti, mangiata 5 anni fa in una splendida bettola barcellonese.
RispondiEliminaaccidempoli, e che altro c'era nell'insalata barcellonese? mò la voglio provare!
EliminaCuore blucerchiato sempre