L'amico che lavorava con me ha ormai la barba lunga e mormora formule di ringraziamento a Dio ad ogni manciata di parole. Ha preso qualche chilo e questo è un bene. Suo padre è morto qualche settimana fa, ma senza permesso di soggiorno non può muoversi dall'Italia. Anche i soldi sono un problema, ma inshallah per quelli gli strozzini hanno tempi più brevi.
Per calmarsi prega e snoda con le dita la lunga barba color cenere. Sono fortunato, dice, perché ero perduto mentre ora seguo la via di Dio. Non eri perduto, vorrei dirgli. Eri solo povero e lo sei anche ora. Povero, straniero e solo, escluso dai mestieri per cui hai studiato, quelli che conosci e per cui hai talento. Quei mestieri puoi solo farli gratis, o al massimo in cambio di un mazzo di buoni pasto da quattro euro e cinquanta. Buoni pasto che ti aiutano a malapena a mangiare, e che di certo non ti faranno avere il permesso di soggiorno per andare sulla tomba di tuo padre.
Se ci fosse una giustizia - gli dico indicando l'imponente palazzo razionalista nel quale il mio amico trascorre tutti i suoi pomeriggi - tu lavoreresti lì dentro. Sporgendosi dalla facciata, un'enorme bandiera rossa sussulta cercando di afferrare un autobus immobile alla fermata. La giustizia non c'entra, mi risponde l'amico con aria rapita, è qualcun altro che decide. La crisi crea interessanti cortocircuiti. C'è chi tira in ballo Dio per spiegarsi la propria esclusione da un lavoro che già fa e che riguarda un'organizzazione ancora in teoria profondamente venata di marxismo.
Quando viene il mio turno di raccontare, dico che sono tutto sommato felice perché non lavoro più tutti i giorni e torno finalmente a scoprire i fine settimana. In realtà mi vergogno molto a dirglielo, perché lui lavora senza giorni liberi, né ferie, né malattia da quasi sette anni. Ma non importa, mi dice. Io sono fortunato.
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