venerdì 13 aprile 2012

La strategia del bruco artico, ovvero la piccola impresa ai tempi del governo tecnico

Non bisogna avere un olfatto canino per accorgersi che da quando il governo tecnico si è installato a capo del paese l'aria è cambiata, e anche parecchio. Ma non si è fatta più pulita, al contrario. Nell'epoca del governo tecnico, la guardia di finanza si aggira per strade deserte, pattugliando la recessione. Le capatine a Cortina o nelle zone più upper class della Milano da bere, sono solo piccole deviazioni, perché le vie che in realtà persegue sono quelle in cui una volta si aggirava, con l'immancabile "buono stipendio" in tasca, la classe media. Quei portici colorati, luccicanti di ristorantini, pasticcerie, negozietti di articoli da regalo e via dicendo, sono ora tetri tunnel in cui le serrande si abbassano - definitivamente - ad ogni rintocco di ora. Loschi figuri, inviati da uno stato mai così vigoroso e risoluto nell'estrarre l'imponibile, apparentemente, da ogni palmo di terra che rientri sotto la sua giurisdizione, si aggirano tra le auto parcheggiate, nei negozi, tra le padelle della ristorazione al minuto, lasciando dietro di sé una scia di multe e verbali. "Alla buon ora!", si sarebbe detto qualche tempo fa, quando pagare le tasse era considerato un emblema di nobiltà e si riteneva più che d'obbligo sottoporre il paese a un lavacro fiscale per ripulirlo dei suoi secoli di caos e illegalità. Ora che la crisi morde e i creditori bussano alla porta, la faccenda appare sotto tutta un'altra luce.


In due anni in Emilia Romagna hanno chiuso 1500 ristoranti, principalmente di fascia media. Attività in buona parte nate e cresciute nel fertile brodo del lavoro nero e dell'evasione, che ne hanno fatto una delle colonne portanti, se non l'impalcatura stessa, del loro successo. Calano i consumi, crescono le spese per le forniture e a dare il colpo di grazia arriva la mannaia del fisco, tanto più affilata e devastante proprio perché arriva in un momento in cui la gente ha la sensazione di avere perso definitivamente il controllo sulla sfera politica. La forbice di Monti&Company taglia, insieme alle pensioni e ai diritti, quella cordicella che ancora congiungeva potere politico ed elettorato, lasciando nel disorientamento più totale coloro che fino a ieri avevano creduto di avere saldamente legato alle spalle il paracadute della democrazia.

La piccola e piccolissima impresa, che in Italia rappresenta uno dei maggiori habitat della classe media, ha poche chance di sopravvivenza. In moltissimi casi, decine di migliaia nel solo 2011, l'azienda, semplicemente, chiude, lasciando per strada i lavoratori e, spesso, costringendo il proprietario al cappio di enormi debiti. Negli ultimi anni i casi di suicidio per cause economiche sono aumentati di un quarto.

In altri casi, l'azienda sceglie la strategia, appunto, del bruco dei climi più inospitali: si congela, rallentando fino a che non le rimane soltanto un lumicino di vita, in attesa di accumulare abbastanza forza per divenire finalmente qualcos'altro. Nel caso delle imprese, non si tratta di una creatura alata, ma di diventare liquido, denaro con cui campare per un po', in attesa di tempi migliori, di un espatrio fortunato o di qualche altra occasione. Laddove i giganti finiscono per investire il frutto della liquefazione delle loro industrie al blackjack della borsa - con profitti stratosferici - i piccoli si accontentano di ridurre al minimo le spese fino a riuscire, magari, a volatilizzare definitivamente l'azienda, vendendola al miglior offerente. E' questo che provoca lo tzunami della Legge quando si abbatte su un'economia largamente informale e per di più sull'orlo del tracollo.

In tutto ciò, i lavoratori si trovano presi tra due fuochi: da una parte il datore di lavoro, dall'altra lo Stato, pronto ad assorbire denaro come una spugna asciutta. L'imprenditore vuole liberarsi di loro, lo Stato montiano vuole liberarli dal lavoro nero. Due intenti che trovano una straordinaria confluenza nel momento in cui il lavoratore, guarda caso, perde il posto.

Che lo scopo dell'attuale riforma sul lavoro non sia per nulla quello di tutelare maggiormente i lavoratori precari ma, semmai, di renderli ancora più precari e nel frattempo di aumentare anche un po' le tasse, mi pare logico. Tanto più se, e se n'è accorto persino il super-liberista Tito Boeri, le tasse si possono far pagare al lavoratore stesso, riducendogli lo stipendio. Per inciso, questo accade già in tutti quegli ambiti in cui il nero prevale, nei casi in cui il lavoratore pretenda/necessiti di avere un contratto in regola. Sono moltissimi i migranti che pagano di tasca loro i contributi collegati a un contratto che gli serve per ottenere un permesso di soggiorno. In un futuro ormai alle porte, i lavoratori pagheranno il prezzo di una legalità che non li garantirà contro la perdita del posto di lavoro, né contro una vecchiaia di povertà, né contro un sicuro decadimento di tutto ciò che è pubblico, dalla scuola, alla sanità, ai trasporti, alle risorse naturali e storiche.

4 commenti:

  1. Ora, va bene tutto... ma dare voce ai "piccoli imprenditori" italiani che non pagano le tasse mi convince pochissimo. Trattandosi per lo più di berlusconiani/leghisti/fascistoidi con pochissimo o nessun rispetto nei confronti dei lavoratori e del lavoro.

    Che una lavoratrice esprima condiscendenza nei loro confronti è comprensibile vista la complessità del momento, ma secondo me è un errore.

    E l'ipotesi implicita secondo cui il grande capitale e la piccola impresa sono cose sostanzialmente diverse non regge: in entrambi i casi si tratta di soggetti tendenzialmente anarchici (nel senso cattivo/pasoliniano: anarchia del potere).

    Poi questa facile equazione austerità=suicidi non solo è del tutto indimostrata: è anche segno dello squallore irresponsabile raggiunto dalla vomitevole stampa italiana, di cui il Secolo XIX è un degno esponente. Un conto è fare uno studio rigoroso sulle conseguenze sociali della crisi, un altro è ballare sulle tombe di chi si toglie la vita. Come dice bene Mazzetta, http://bit.ly/JiZtRD

    Scusa ma dovevo togliermi questo dente. Questo post mi sembrava troppo "fuori tema" con il resto del blog.

    Ciao,
    Giulio

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    1. Giulio, penso che tu abbia letto male il post, perchè ogni due frasi circa si parla di lavoro nero, lavoratori presi tra due fuochi e via dicendo e non c'è alcun intento assolutorio.
      Che la piccola impresa sia alla canna del gas e che questa cosa sia drammatica, per le conseguenze che ha su milioni di persone, è un fatto. E sì, io do voce a questo problema, che non è quello degli "imprenditori che non pagano le tasse", ma è un problema di tutti.

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    2. Forse ho letto male, ma a prima vista mi sembrava un po' troppo indulgente nei confronti delle imprese. Seguo il blog e so che non era tua intenzione, ma un lettore un po' naive che capiti qui per caso potrebbe pensare "meglio che il padrone non paghi le tasse almeno può continuare a sfruttarmi in nero e io non finisco per strada". Sarebbe triste.

      Del resto un simile accordo più o meno tacito ha già funzionato come giustificazione del precariato, per cui co.co.co e simili erano resi accettabili (moralmente, non solo economicamente) dal fatto che l'alternativa era la fame, spianando la strada alla normalizzazione dello sfruttamento.

      Giusto per dire che il contenuto di questo post è molto attuale ma potenzialmente controverso.

      Grazie comunque del chiarimento!

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    3. anche qui, il fatto che se lo stato inizia di colpo a reclamare tasse (sempre più alte) in un sistema che non le ha mai richieste e in più in un momento di crisi nera, per i lavoratori è un casino, beh è una realtà.è triste, ingiusto e inaccettabile, ma è la realtà. è una realtà che da l'idea del punto a cui siamo arrivati e del fatto che avanti non si può andare

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