martedì 16 ottobre 2012

My way

Di recente mi sono ritrovata a pormi qualche domanda su questo blog. E dalle domande sul blog sono arrivata in un battito di ciglia ad altre domande, immense e schiaccianti. Sì perché in origine questo progetto voleva realizzare una specie di minuscola operazione di debunking sul mondo del lavoro, a partire dalle mie esperienze personali, cercando di rendere esplicite la violenza e la discriminazione con cui la logica di quel mercato agisce, in particolare sulle lavoratrici.

Solo che io da quel mercato ora sono uscita. O meglio, sono rimasta, ma nascondendomi, facendomi piccola piccola, guadagnando (forse) quello che mi basta per campare interagendo il meno possibile con le sue dinamiche. I capi si trovano lontano, non li ho mai visti. Il mio reddito è appeso a una manciata di indirizzi e-mail. Lavoro da casa, attaccata al computer. Guardo dalla finestra un cortile su cui di giorno si affacciano solo pensionati e studenti. Io non sono nessuno dei due, e anche là dove si trovano tutti gli altri, io non ci sono.

Il futuro è un elenco di voci appuntate dove capita: sull'agenda, sul calendario, nella casella di posta, a volte persino scritte sul dorso di una mano. Le cancello di giorno in giorno, e ogni voce cancellata è un mattoncino del mio prossimo mese. E' tutto qui. Sono una disoccupata con un reddito e un impegno quotidiano al computer. Il mio lavoro non significa nulla, è tempo nascosto alla vista, che serve solo all'assurdo proposito di farmi superare una crisi economica di cui nessuno può prevedere gli esiti e nella quale io, intanto, invecchio.

Penso che tutto sommato non sia poi così strano quello che mi capita. Nel 1973, quando Tina Anselmi fece rientrare il lavoro a domicilio nei contratti nazionali di categoria, erano un milione le donne (perché si trattava praticamente solo di donne) che lavoravano da casa. Producevano di tutto: dai circuiti elettronici ai maglioni. Oggi non è molto diverso. Noi lavoratrici e lavoratori a domicilio del terzo millennio assembliamo testi della più varia natura, dalle traduzioni scientifiche agli articoli di promozione turistica. Siamo pagati a cottimo, proprio come in fabbrica. Noi non rischiamo di ritrovarci con le dita mozzate e a fine giornata non abbiamo le braccia distrutte e gli abiti lerci. Allora diciamo di essere freelance, aggrappandoci a un treno che sfreccia lucido nel presente e che dovrebbe in teoria essere pieno di giornalisti gira mondo, professionisti strapagati del marketing, creativi digitali. In realtà però su quel treno ci siamo quasi solo solo noi. E il bello è che in moltissimi casi quello che produciamo, con la nostra fulgida mente di laureati, dura meno di un maglione. Se siamo fortunati, un paio d'anni.

E' un lavoro da imboscati, che ci toglie dalle code davanti alle agenzie interinali come un tempo si sfuggiva alla leva obbligatoria. Nascondersi come unica soluzione nei confronti di un destino di disoccupazione. E quando ci si nasconde, è ben poco quello che si può fare. Sono pochi i compagni che riusciamo a vedere, e meno ancora quelli con cui ci troviamo a portata di voce. E' questa la posizione in cui mi trovo. E un po' me la sono persino scelta, per vigliaccheria e perché non ne potevo più. Ero stanca di sentirmi dire che sono troppo vecchia, troppo bassa, troppo scolarizzata, troppo inesperta. Non ne potevo più di sentirmi affibbiare mancanze che in realtà sono quelle di un intero sistema economico. Ma come si può scrivere da un nascondiglio? Si può? Io ci proverò, quando avrò il tempo, le energie, le idee. E se quello che verrà fuori apparirà pallido e mezzo asfissiato, come se fosse appena sbucato fuori da un cunicolo scavato nel terreno, beh perdonatemi.

2 commenti:

  1. Cara,
    uscire dal nascondiglio. Sta succedendo. Reti di lavorat* hanno finalmente capito che la concorrenza porta solo a paghe sempre più basse. Nascono esperienze di coworking, dove non solo puoi uscire fisicamente dal nascondiglio, ma puoi anche fare rete con altr* come noi e capire e far capire che soli si perde, uniti si è più forti. Stiamo pensando come creare spazi di autonomia possibile, riappropriarsi di esperienze del mondo operaio, un nuovo mutualismo, la rivendicazione del lavoro discontinuo. Stiamo immaginando one big union. Ma tutto questo già lo sai.

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    1. Il riferimento, per i (pochi) lettori è questo: http://www.ilquintostato.org/co-co-work-teatro-valle-occupato-24-25-novembre-2012/

      Certamente, come si capisce da questo post, c'è un grande bisogno di esperimenti che vadano in questo senso, con i lavoratori come noi che si proteggono a vicenda. Non ho ancora capito bene come funzioni il coworking e come si ponga questa iniziativa nei confronti dei datori di lavoro, ma mi informerò meglio.

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