
venerdì 29 aprile 2011
Appunti sulle rilevazioni Istat e un'intervista a Luciano Gallino

giovedì 28 aprile 2011
Il Pd è di destra e Grillo è una merda




giovedì 21 aprile 2011
Il toro meccanico
Alcune sere fa, durante un concerto in una delle piazze della movida bolognese, ho incontrato un’amica che non vedevo da un po’. Da quando la conosco – cioè da quando entrambe ci trovavamo nei primi anni dell’università – s’è sempre barcamenata tra gli impegni di studio e una serie di lavori e lavoretti così lunga e intricata da sfiancare al solo pensiero qualunque sentito adepto del motto “andé a lavurer”. Nonostante ciò, s’è laureata brillantemente e ha infilato nel calendario, non so come, anche un periodo di studio all’estero.
Oggi, come molte e molti altri laureati, alterna la ricerca di una via verso il futuro (al cui imbocco potrebbe trovarsi il prossimo master, oppure quello stage, oppure un oscuro dottorato in una città di provincia…) a qualcosa in grado di riempire, o almeno sfamare, il presente. Quando le chiedo come va, mi risponde che l’ultima offerta di lavoro alla quale si era candidata, senza riuscire ad ottenere il posto, riguardava un toro meccanico. Non doveva cavalcarlo, le avevano assicurato i datori di lavoro, ma solo indossare un costume da cow girl e invitare la gente a salirci. Anche senza il rodeo sexy, credo che l’immaginario che un simile contesto va a solleticare non abbia bisogno di ulteriori esplicitazioni.
La mia amica non era nuova ai lavori in cui l’aspetto fisico è importante, e quindi nemmeno a tutto il corollario di battutine subite e sorrisi forzati che quelli comportano. Aveva imparato a reggere lo schifo, la fatica mascherata sotto un’espressione dolce e fresca, le spacconate degli idioti ai cui lazzi le ragazze immagine, le promoter, le bariste e via dicendo vengono offerte dai loro datori di lavoro. Insomma, il toro meccanico non la intimoriva di certo.
“Non mi hanno presa neanche per quello”, mi dice in mezzo al frastuono del concerto, con una voce nella quale riesco appena ad indovinare un filo di angoscia, “ho 25 anni e già non vado più bene per il toro meccanico”.
Oggi, ripensando a questo fugace incontro, ne ho finalmente colto il potenziale metaforico, il suo essere parabola di questi anni e di questo sistema, così brutti e grotteschi. La mia amica su quel toro meccanico sarebbe stata oscena, ridicola, esposta agli sghignazzi e agli sguardi di uomini orrendi. Per rimanere in sella, avrebbe dovuto assumere pose sconce, dimenare i fianchi, aggrapparsi maldestramente a qualunque appiglio fornito dall’ottuso animale di vetroresina su cui sedeva. Un toro meccanico non è altro che questo, una giostra in cui a divertirsi sono coloro che restano a terra, a guardare. Tutti gli altri, quelli che fanno la coda per salirci, che mandano i loro curriculum corredati di foto a figura intera, che camuffano il loro accento meridionale, che sostengono di non volere figli, che nascondono i titoli di studio tra le pieghe di un costume da cow girl, non possono far altro che muovere il culo avanti e indietro, stringere i denti e spesso, infine, cadere.
mercoledì 13 aprile 2011
…e altre parole con la maiuscola (tra cui Proust)
Il precariato è quell’insieme di pratiche, leggi, teorie economiche e via dicendo che concorrono a formare la “verità” per cui una vita lavorativa alla mercé dei tiramenti del mercato o del vento che soffia tra i palazzi del potere, diventa necessaria al fine di preservare la nostra posizione nel Primo Mondo. Il precariato ci serve, sennò non ci staremmo dentro. Questa semplice affermazione, accettata da una gran parte della popolazione, costituisce una barriera su cui le rivendicazioni dei lavoratori rimbalzano, incapaci di superare la paura del tracollo economico, del caos e della povertà. Il fatto che il precariato, evidentemente, non ci abbia finora protetti né dalla contrazione dell’economia, né dal caos politico, né dal generale impoverimento collettivo e individuale, non viene percepito in contraddizione con la verità precedente. Perché?
Per rispondere a questa difficilissima domanda, mi viene ancora una volta in soccorso Wu Ming, tramite il blog del collettivo, Giap. Ma prima una breve digressione su quello che il precariato comporta nelle vite di coloro che vi sono immersi.
Io non ho un contratto a tempo determinato – non ho alcun contratto - ma sono precaria. Lo sono perché precarie sono tutte le mie prospettive lavorative, abitative o di studio, in quanto soggette a forze su cui non ho il minimo controllo. La vita precaria, paradossalmente, è una vita di attesa: incapaci di vedere in essa una continuità, siamo portati a considerarla come un susseguirsi scomposto di rotture, di quelli che, abusando un po’ del termine, chiamerò Eventi. Evento è l’inizio o la fine di un contratto di lavoro, è un colloquio promettente, sono i tuoi genitori che accettano di pagarti l’affitto per altri sei mesi. Anche la nostra visione politica, e qui arrivo al punto, viene plasmata da questa smania. Abbiamo bisogno di Eventi, di cose che accadono lì e a quell’ora, di appuntamenti in cui conta l’esserci o il non esserci, non le conseguenze di ciò che è accaduto, o i prodromi che hanno condotto fino a quel punto. Siamo abituati a non essere uditi, al fatto che qualunque cosa ci riguardi lasci il tempo che trova. Allora conta solo l’appuntamento in sé, contano il V-Day, Rai per una notte o lo sciopero della Fiom, non i collegamenti o le aggregazioni che gli appuntamenti dovrebbero generare. Siamo individui solitari che sperano soltanto di esserci all’Evento definitivo, quello più importante, quello che grazie a qualche misteriosa alchimia del destino finisce per cambiare davvero le cose. Evento è anche il sistema che crolla con un tonfo, sono le banche con le saracinesche chiuse, è l’Italia che si dichiara fallita com’è accaduto all’Argentina. Tutto ciò che viene prima o che è alternativo a questo tonfo, il piano inclinato su cui stiamo scivolando da decenni, non è niente d’importante, non conta, non è un Evento perché non è in grado di solleticare il nostro feticismo.
Scrive Wu Ming 1, a proposito delle rivolte del mondo arabo: «La mentalità giornalistica porta a identificare l’Evento con un episodio notiziabile, con un fatto che ha contorni precisi. L’Evento è una “sveltina”. Invece l’Evento è ciò che è *iniziato* nei mesi scorsi, e quel che accadrà nel futuro dipenderà dalle risonanze che ci saranno, dall’entusiasmo che nuovi sviluppi sapranno suscitare. L’Evento non è una-botta-e-via, è una relazione che dura a lungo. Non a caso Badiou ha coniato il concetto di “fedeltà all’Evento”. C’è un sacco di gente che, in Egitto, Tunisia e altrove, rimarrà in tanti modi fedele all’Evento. Le persone che stanno assistendo i profughi libici sono fedeli all’Evento».
Il fatto di voler a tutti i costi distinguere un momento e un luogo precisi, di voler identificare la svolta, l’appuntamento, l’atto che guarisca noi stessi e il nostro paese, è una patologia di cui, secondo Wu Ming, Proust descrive perfettamente sintomi e decorso in un brano del secondo libro del suo Alla ricerca del tempo perduto (da lettrice timorosa quale sono, confesso di non essere mai andata oltre la ventesima pagina di Dalla parte di Swann, ma prometto che lo farò). Invece di guardare alla vita come a uno spazio molteplice, qualcosa di lungo e fluido, sulle cui solide fondamenta appoggiarci e costruire, cerchiamo in essa ciò che possa cambiarci, farci virare all’improvviso, renderci finalmente liberi e sani. La stessa cosa, mi sembra, accade per la nostra vita collettiva, quella politica: invece di lavorare per la crescita dell’insieme, della società, cerchiamo il nostro riscatto nel momento, in ciò che è estemporaneo, che viene fuori dal nulla, che è Atto, nobile e purificatorio, del singolo. Così facendo, alimentiamo un immaginario in cui ciascuno è responsabile per sé, l’analisi è superflua e il futuro ha poca importanza, qualcosa di perfettamente conforme al sistema che ci ha reso precari.
mercoledì 6 aprile 2011
L'Estero
L’Estero – proprio così, con la maiuscola – non è semplicemente ciò che c’è al di là dei confini del nostro paese. Chi ha dovuto o deve attraversare la giungla che separa i neolaureati da quella prateria verde e asciutta che è il “mondo del lavoro”, lo sa bene. La geografia, con l’Estero, c’entra assai poco.Ma che cos’è questa parola che porta la sua maiuscola con tanta evoliana fierezza, alla moda degli archetipi?
Questo post trae ispirazione da un’intensa discussione nata su Giap, nella quale sono emerse questioni cruciali per il presente di un’Italia che sembra sperimentare, nelle ultime settimane, nel bel mezzo di una crisi istituzionale gravissima che va incredibilmente cronicizzandosi e con una guerra in corso, una sorta di nuova ebbrezza patriottica: le “fughe di cervelli”, il precariato come condizione esistenziale, le mille pastoie che immobilizzano ogni ambito della vita pubblica. L’Estero, in tutto ciò, era emerso più di una volta. Consiglio, punto di riferimento, speranza o meta, esso è una presenza costante ogni qual volta si parli di lavoro, disoccupazione e, più in generale, delle problematiche sociali del nostro paese. Tuttavia, è solo per i neolaureati, i precari o i disoccupati che L’Estero indossa il suo abito migliore, passando dall’essere una parola tra le tante in frasi come “quest’anno voglio fare le vacanze all’estero”, “all’estero il caffè fa schifo” o persino “all’estero queste cose non succedono”, a diventare qualcosa di ben più potente e ricco di implicazioni.
Come spiega in modo magistrale Abdelmalek Sayad, la migrazione è un “fatto sociale totale”: questo tra le altre cose significa che, affinché accada, dev’esserci il concorso o quantomeno l’assenso della società, dev’esserci un senso comune che spinge in quella direzione. La migrazione nasce, soprattutto e prima di tutto, nel paese da cui si emigra. Lì, l’aspirante emigrato sarà allettato a partire da un discorso che ha lo scopo di giustificare il suo abbandono della società d’origine, poiché nessuna società può accettare l’assenza dei suoi membri se questi non sono costretti ad andarsene da motivazioni più che valide: lì crescerai, lì potrai dimostrare chi sei, da lì tornerai come un essere umano nuovo, più forte e capace. La migrazione assume un ruolo iniziatico, diventa un viaggio necessario, una prova da affrontare per fare ritorno con un bagaglio di conoscenze e di esperienze che farà sì che gli altri ci guardino con occhi diversi.
L’amica con cui ho parlato ha fatto due esperienze all’estero, una di studio e una all’interno di un programma del Servizio Civile internazionale. Discutendo della sua scelta di tornare a vivere in Italia definitivamente e delle reazioni che questo suscita in molte delle persone che incontra, mi ha detto: “Mi trattano come se volessi la pappa pronta, come se non fossi disposta a mettermi in gioco”. Come ho raccontato in altri post, nei Centri per l’Impiego il mantra “si può sempre andare all’estero” viene ripetuto continuamente ai giovani che cercano lavoro. L’Estero di cui si parla lì è il luogo in cui si diventa adulti, si supera l’esame della vita vera, si dimostra di saper portare il peso delle proprie ambizioni e dei propri sogni, che altrimenti rimangono soltanto i vaneggiamenti di bamboccioni troppo pigri e viziati. Dopo aver vinto la prova, potremo tornare in Italia e meritare l’omaggio e la stima della società, interpretata nella sua interezza, secondo questa visione, da un mondo del lavoro finalmente pronto ad aprirci le sue ben note porte. Il ritorno – attenzione – c’è sempre: il fatto che un emigrato, raggiunta una certa stabilità altrove, non torni, e non perché non lo desidera ma perché nel frattempo nel paese di provenienza non è cambiato nulla o magari le cose sono peggiorate (che è esattamente quello che succede quando una buona parte della popolazione più giovane e qualificata parte), non è concepito, perché equivarrebbe a dichiarare la sconfitta della società d’origine.
Come dice Sayad a proposito dell’emigrazione algerina verso la Francia, “Il misconoscimento collettivo della verità oggettiva dell’emigrazione” costituisce “la mediazione necessaria attraverso la quale può realizzarsi la necessità economica”. Necessità che è propria sì dell’emigrato, ma anche del paese di provenienza.
Ciò che accadrà sul lungo termine in Italia, non ho assolutamente le capacità per dirlo. E’ però ragionevolmente prevedibile che la perdita di un grosso numero di giovani preparati e pieni di talento non tornerà a vantaggio di questo paese. Sul breve termine, invece, è un allettante fattore di stabilità, in un periodo in cui i presupposti per lo scoppio del conflitto sociale si fanno sempre più concreti. Qui, quei giovani senza possibilità, soffocati dall’arretratezza dell’imprenditoria e degli enti di ricerca, stretti nell’imbuto dei clientelismi, dei familismi e delle varie mafie, incanalati verso impieghi umilianti, senza alcuna garanzia a spesso senza neanche una paga, sono un problema. Così, li si intontisce e li si separa attraverso l’etica aziendalista della competizione ad ogni costo, e poi gli si da una via di fuga, un sogno, la promessa di bypassare la trafila delle spintarelle, degli stage per pagare lo scotto di avere, forse, un giorno, un salario, dei mille contrattini a progetto e delle false partite IVA. L’Estero. Il salto nel cerchio di fuoco che hanno fatto in nostri bisnonni e che ora tocca a noi.
Scrive Luciano Gallino, in Il lavoro non è una merce: “La deliberata diffusione dei lavori flessibili rappresenta un capitolo della deresponsabilizzazione dell’impresa. […] Oggi, la quasi totalità delle imprese reputa, e anzi teorizza, che non spetti a loro preoccuparsi del destino di chi perde il lavoro o subisce lunghi periodi di non occupazione”. Allo stesso modo ragiona il nostro Stato, che ha pienamente assorbito questa mentalità, nei confronti dei giovani in cerca di lavoro. Se, infatti, deve ancora garantire ai disoccupati che hanno avuto una vita lavorativa qualche briciola di welfare, non si carica di alcun obbligo nei confronti di coloro che non sono mai entrati nel mondo del lavoro. Se ne lava le mani. Per loro, c’è l’Estero.
Questo è il motivo per cui io, ora, non voglio andarmene. Perché voglio essere un problema.
venerdì 1 aprile 2011
Il "peso delle parole": Abdelmalek Sayad sull'integrazione
So che questo post non c’entra molto con il tema del blog, ma trovo che il brano che riporterò sia molto utile ai fini di un dibattito su emigrazione ed immigrazione che voglia quantomeno ambire ad essere sereno e non pervaso da quel populismo meschino e auto-assolutorio di cui ho recentissimamente letto un perfetto esempio nel blog di Beppe Grillo.
Inoltre, questo appunto vuole anche essere un contributo ad alcune discussioni emerse su Lipperatura negli ultimi giorni, in cui ho maldestramente cercato di applicare gli insegnamenti di Sayad - che ebbi la fortuna di studiare all’università e che amai subito follemente - ad alcuni dei temi più spinosi dei nostri anni: il problema del “velo” e la questione Rom. Nel bel mezzo di un delirio mediatico-elettorale come quello che si condensa da giorni attorno a Lampedusa, penso che sia ancora più utile trovare dei punti fermi.
«L’integrazione è quel tipo di processo di cui si può parlare solo a posteriori, per dire se è riuscito o se è fallito. E’ un processo che consiste idealmente nel passare dall’alterità più radicale all’identità più totale (o pretesa tale). Se ne constata la fine, il risultato, ma non può essere colto nel corso della sua realizzazione perché coinvolge l’intero essere sociale delle persone e la società nel suo insieme.
È un processo continuo, implicato in ogni istante della vita, in ogni atto dell’esistenza, e a cui non possiamo attribuire un inizio e una fine. Nel migliore dei casi lo si può soltanto constatare e non lo si può di certo orientare, dirigere, favorire volontariamente. Ma soprattutto non bisogna immaginare che sia un processo armonico, privo di conflitti. È un’illusione che si ama coltivare in questa finzione rovesciata a posteriori. Infatti, ciascuna delle parti ha un suo interesse nella finzione, e inoltre trova nel vocabolario del mondo sociale e politico il lessico appropriato per esprimerla. Dato che nell’immaginario sociale essa costruisce l’identità, cioè l’identico, il medesimo, e perciò nega o riduce l’alterità, l’integrazione finisce per assumere il valore comune di principio e di processo d’accordo, di concordia e di consenso.
Il tipo di irenismo (sociale e politico) legato alla parole “integrazione” non porta soltanto a esaltare la storia delle “integrazioni” passate, già compiute, e di conseguenza a “screditare” la storia dei conflitti presenti, ma anche a immaginarsi che il processo sociologico di integrazione possa essere il prodotto di una volontà politica, il risultato di un’azione condotta con coscienza e decisione per mezzo dei meccanismi dello stato. Senza ignorare o trascurare gli effetti che può esercitare, bisogna osservare che il discorso (politico) sull’integrazione è più che altro l’espressione di una vaga volontà politica piuttosto che di una vera azione sulla realtà. La verità esige che ci si liberi di tutte le mitologie (anche scientifiche) legate alla nozione di integrazione per cogliere l’importanza della posta in gioco sociale, politica e soprattutto identitaria che questa nozione dissimula»
(Abdelmalek Sayad, La doppia assenza)