mercoledì 13 aprile 2011

…e altre parole con la maiuscola (tra cui Proust)

Il precariato è quell’insieme di pratiche, leggi, teorie economiche e via dicendo che concorrono a formare la “verità” per cui una vita lavorativa alla mercé dei tiramenti del mercato o del vento che soffia tra i palazzi del potere, diventa necessaria al fine di preservare la nostra posizione nel Primo Mondo. Il precariato ci serve, sennò non ci staremmo dentro. Questa semplice affermazione, accettata da una gran parte della popolazione, costituisce una barriera su cui le rivendicazioni dei lavoratori rimbalzano, incapaci di superare la paura del tracollo economico, del caos e della povertà. Il fatto che il precariato, evidentemente, non ci abbia finora protetti né dalla contrazione dell’economia, né dal caos politico, né dal generale impoverimento collettivo e individuale, non viene percepito in contraddizione con la verità precedente. Perché?

Per rispondere a questa difficilissima domanda, mi viene ancora una volta in soccorso Wu Ming, tramite il blog del collettivo, Giap. Ma prima una breve digressione su quello che il precariato comporta nelle vite di coloro che vi sono immersi.

Io non ho un contratto a tempo determinato – non ho alcun contratto - ma sono precaria. Lo sono perché precarie sono tutte le mie prospettive lavorative, abitative o di studio, in quanto soggette a forze su cui non ho il minimo controllo. La vita precaria, paradossalmente, è una vita di attesa: incapaci di vedere in essa una continuità, siamo portati a considerarla come un susseguirsi scomposto di rotture, di quelli che, abusando un po’ del termine, chiamerò Eventi. Evento è l’inizio o la fine di un contratto di lavoro, è un colloquio promettente, sono i tuoi genitori che accettano di pagarti l’affitto per altri sei mesi. Anche la nostra visione politica, e qui arrivo al punto, viene plasmata da questa smania. Abbiamo bisogno di Eventi, di cose che accadono lì e a quell’ora, di appuntamenti in cui conta l’esserci o il non esserci, non le conseguenze di ciò che è accaduto, o i prodromi che hanno condotto fino a quel punto. Siamo abituati a non essere uditi, al fatto che qualunque cosa ci riguardi lasci il tempo che trova. Allora conta solo l’appuntamento in sé, contano il V-Day, Rai per una notte o lo sciopero della Fiom, non i collegamenti o le aggregazioni che gli appuntamenti dovrebbero generare. Siamo individui solitari che sperano soltanto di esserci all’Evento definitivo, quello più importante, quello che grazie a qualche misteriosa alchimia del destino finisce per cambiare davvero le cose. Evento è anche il sistema che crolla con un tonfo, sono le banche con le saracinesche chiuse, è l’Italia che si dichiara fallita com’è accaduto all’Argentina. Tutto ciò che viene prima o che è alternativo a questo tonfo, il piano inclinato su cui stiamo scivolando da decenni, non è niente d’importante, non conta, non è un Evento perché non è in grado di solleticare il nostro feticismo.

Scrive Wu Ming 1, a proposito delle rivolte del mondo arabo: «La mentalità giornalistica porta a identificare l’Evento con un episodio notiziabile, con un fatto che ha contorni precisi. L’Evento è una “sveltina”. Invece l’Evento è ciò che è *iniziato* nei mesi scorsi, e quel che accadrà nel futuro dipenderà dalle risonanze che ci saranno, dall’entusiasmo che nuovi sviluppi sapranno suscitare. L’Evento non è una-botta-e-via, è una relazione che dura a lungo. Non a caso Badiou ha coniato il concetto di “fedeltà all’Evento”. C’è un sacco di gente che, in Egitto, Tunisia e altrove, rimarrà in tanti modi fedele all’Evento. Le persone che stanno assistendo i profughi libici sono fedeli all’Evento».

Il fatto di voler a tutti i costi distinguere un momento e un luogo precisi, di voler identificare la svolta, l’appuntamento, l’atto che guarisca noi stessi e il nostro paese, è una patologia di cui, secondo Wu Ming, Proust descrive perfettamente sintomi e decorso in un brano del secondo libro del suo Alla ricerca del tempo perduto (da lettrice timorosa quale sono, confesso di non essere mai andata oltre la ventesima pagina di Dalla parte di Swann, ma prometto che lo farò). Invece di guardare alla vita come a uno spazio molteplice, qualcosa di lungo e fluido, sulle cui solide fondamenta appoggiarci e costruire, cerchiamo in essa ciò che possa cambiarci, farci virare all’improvviso, renderci finalmente liberi e sani. La stessa cosa, mi sembra, accade per la nostra vita collettiva, quella politica: invece di lavorare per la crescita dell’insieme, della società, cerchiamo il nostro riscatto nel momento, in ciò che è estemporaneo, che viene fuori dal nulla, che è Atto, nobile e purificatorio, del singolo. Così facendo, alimentiamo un immaginario in cui ciascuno è responsabile per sé, l’analisi è superflua e il futuro ha poca importanza, qualcosa di perfettamente conforme al sistema che ci ha reso precari.

10 commenti:

  1. Ti incollo una citazione un po' lunga, di un pezzo di Marco Mancassola. Parla di alcune cose di cui hai scritto tu qui, forse con una prospettiva leggermente diversa, ma leggendoti mi è subito venuto un mente:

    "La dispersione è l’orizzonte in cui siamo cresciuti. Abbiamo identità sincretiche, sfaccettate, frammentate e dislocate. Il mercato delle merci e delle esperienze ha instillato in noi, volenti o nolenti, la percezione che la vita vera fosse sempre altrove, sempre un po’ più in là, in un altro luogo: non solo nell’acquisto di un’altra merce o in un altro piano del centro commerciale, ma proprio in un’altra esperienza da fare, in un altro incontro da consumare, in un’altra emozione da non lasciarsi sfuggire, in un altro viaggio da intraprendere, in un altro capitolo del nostro romanzo interiore. Siamo cresciuti pensando che la nostra vita vera fosse altrove solo per renderci conto, infine, che forse non è più da nessuna parte. È anche per questo che essere qui e ora, in pieno, con l’altro e con la sua lotta, anche quando la sua lotta è così vicina alla nostra, ci è così difficile."

    L'intervento intero è qui: http://www.marcomancassola.com/marco_mancassola_a_nord/2010/11/generazione-locked-in.html.

    E il problema resta sempre il non riuscire a sbloccarsi da questa situazione...

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  2. Citazione bellissima, grazie davvero.
    Ieri ho scritto questo post un po' di getto, pensando di riversarci dentro più che altro delle paranoie mie, invece dai riscontri che ho avuto ho capito che si tratta di una sensazione molto diffusa.
    Come sbloccarsi, dici tu. Innanzitutto cercando di liberarci da questa mentalità (patologica) che ci rende trottole inermi. Poi tentando di convincere gli altri a fare lo stesso.

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  3. In realtà non lo so...però davvero penso che se non si impara a lavorare collettivamente, ad avere una visione collettiva di ciò che accade, che esca da quei rimuginamenti ombelicali di cui parla Mancassola, non si possa proprio andare da nessuna parte

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  4. Non so. E' vero che si deve imparare a lavorare collettivamente, ma ho come l'impressione che su questo siamo praticamente analfabeti. Anzi, siamo stati de-alfabetizzati al lavoro collettivo.

    Troppo spesso mi sembra che anche i momenti comuni e condivisi (come il 9 aprile) creino l'evento (appunto!) preceduto da un'attesa in cui si riversano aspettative e frustrazioni, come se solo in quell'evento fosse possibile cambiare davvero qualcosa nella propria (e, forse, altrui) esistenza. Poi, però, si torna di nuovo a casa e non è cambiato nulla. Allora probabilmente è sbagliata la strategia, l'azione.

    E va aggiunto che, in Italia, anche se un tema viene spinto dai media per un po' di tempo e con argomentazioni e fatti significativi, questa esposizione mediatica non ha conseguenze reali. Ancora: non cambia nulla. Quasi mai, perlomeno.

    Io passo la maggior parte del mio tempo lavorativo (o para-lavorativo) al pc, a casa, solitario. Anche quando mi confronto con amici e conoscenti nella mia stessa condizione, a parte un leggero sollievo che dà il non sentirsi l'unica persona a vivere così, alla fine comunque non si sa bene cosa fare. Parli, e ti sembra di cercare di afferrare aria con le mani. (E forse sto usando questo spazio come una forma di analisi in pubblico! :)

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  5. A me va benissimo che tu usi questo spazio come analisi, primo perchè così non mi sento l'unica a farlo e secondo perchè penso che davvero ci sia bisogno di una bella terapia di gruppo collettiva :D
    E' l'analfabetismo di cui parli tu che ci rende incapaci di agire. Siamo coltissimi, parliamo svariate lingue, sappiamo orientarci in un mondo complesso come mai nessuna generazione prima di noi, eppure siamo inermi. Non capiamo cosa significhi costruire collettivamente una prospettiva diversa, un futuro diverso. Non ce l'immaginiamo proprio, il futuro. Se sapessivo farlo, se rompessimo quello strano pudore timoroso che abbiamo, e guardassimo da qui a venti o trent'anni, capiremmo che il sistema per com'è adesso è una strada a imbuto, che ci costringerà a stare sempre più stretti e ad adattarci sempre più al ribasso.

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  6. bel posto!!!!!!
    azz ... arriva questo post esattamente dopo l'esortazione di saviano (nell'Evento del meeting dei giornalisti) a liberarsi dal fango e dall'articolo di Galimberti, in risposta a una lettera, di mancanza, in Italia, di pensare comunitariamente, ma familiarmente, secondo lo stile mafioso, come nelle raccomandazioni.
    l'Evento di suo non ha voce e spesso si è una realtà dinoccolata, come se ogni parte del sottoinsieme vada da una parte tutta sua e non si sia compatti.
    difficile, ma possibile cambiare tale realtà, partendo in primis da noi stessi: se io mi adeguo o mi oppongo in maniera standardizzata, secondo regole prestabilite, inizia a essere 1 operatore in maniera eversiva.
    con tante parole si rischia di essere sterili, di parlarsi addosso e fomentare le frustrazioni personali.
    qui va fatto qualcosa.
    b
    ps: quando ci vediamo?

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  7. Invece parlare è proprio quello che ci manca...parlarci reciprocamente, non parlarsi addosso (in arabo avremmo due forme verbali diverse e la differenza sarebbe ancora più netta...scusate la riflessione da ex aspirante arabista :) ). Le frustrazioni vanno comprese, prima di tutto, e poi anche fomentate, perchè no. Sarebbe l'ora che ci incazzassimo sul serio. Ma dopo aver capito le cose, però.

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  9. pardon: ho dato per assodato e non esplicitato un passaggio.
    concordo pienamente e non sminuisco il passaggio del confronto e del parlare, senza cui ci si ferma all'omertà e comunque non si può passare all'azione.
    avendo già vissuto la fase del parlare e del confrontarsi, sento la necessità del passaggio al fare.
    ma capisco che sia un passaggio di cui sento io la necessità perché sono da troppo tempo ferma sul parlare e sul confronto.
    perché concordo pienamente sul doversi incazzare davvero: son già a quel punto. insomma ... son già pronta e sul piede di guerra :)
    ps:ci dobbiam vedere per lo scambio di idee per il nostro progetto, indifferentemente da che vada in porto o no!

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