Non è mica normale vedersi passare i canadair sopra la testa e non farci più caso. La maggior parte della gente forse non li ha neanche mai visti in vita sua, questi aerei rossi e gialli, che ad osservarli da lontano, stagliati contro il cielo e poi pronti a tuffarsi nell'acqua, sembrano dei giganteschi gabbiani colorati. Tracciano nell'aria un'ellisse di goccioline, che svaniscono nell'atmosfera secca e alle narici si confondono con l'alito salmastro del vento di mare. Si sollevano dalla superficie marina lentamente, sfiorano la diga foranea con le loro pance pesanti e fluttuano tra i battelli ormeggiati, i capannoni delle fabbriche, i condomini. Si alzano fino alla cresta delle montagne - in volo sono pochi secondi - e virano per gettarsi a capofitto nelle gole ricoperte di nebbia grigia e lì spalancare le loro gabbie toraciche per generare - salata, contraffatta - la pioggia. Giureresti di non vederli più venire fuori. Aspetti il botto da un momento all'altro.
Non è mica normale essere abituati a uno spettacolo del genere. Rassegnarsi agli incendi - all'odore di bruciato, al nero delle colline, al frastuono degli aerei e degli elicotteri che arrivano a fermare le fiamme - come se si trattasse di incidenti stradali, inevitabili nell'oceano turbinoso delle probabilità. E così anche per le frane, per l'acqua che tracima e alla fine spacca le rive, facendo crollare orti, strade, boschi. A volte case. Si finisce per ululare la propria indignazione e portarsi le mani alla fronte, in compagnia, al mercato, al bar, dopo la messa, ai pranzi di Natale, e basta.
C'è una parola per indicare la causa degli incendi e delle alluvioni che ogni anno, alternandosi durante le stagioni, arrivano a flagellare qualche pezzo di Liguria: abbandono. Si lasciano i boschi ai rovi, gli orti alle erbacce, i canali e i ruscelli alle piante assetate. E quella natura post-agricola, priva di ogni equilibrio, erosa anch'essa da millenni di sottomissione all'uomo, si ammala, brucia o viene sfondata dall'acqua. Si è abbandonato le montagne con i corpi, prima di tutto, e poi con il pensiero. Ci si è trasferiti in città, verso le fabbriche e il denaro, lontano dalle mulattiere da percorrere per cavare da poche strisce sottili di terra un po' d'olio, di vino e di verdura. Ci si è dimenticati dei boschi, che dopo immense fatiche non regalavano altro che frutti selvatici, troppo volubili per poterci contare davvero, e un po' di legna con cui scaldarsi male, nel modo stupido in cui scaldano le stufe. Chi aveva tempo conservava un pezzo di terra per tenerci le galline e i conigli, e per farci l'orto d'estate. Ma senza allontanarsi troppo dalle città e dai paesi, visto che di spazio disponibile ora ce n'era in abbondanza e non c'era più bisogno di arrampicarsi lungo le coste. I boschi sono diventati un hobby per fungai, cacciatori e appassionati di sport estremi, e sono diventati dei grovigli di specie spinose, capaci di vivere nell'aridità dell'incuria. Ad ogni stagione secca, pezzo pezzo, anneriscono nel fuoco, rendendo ancora più cupe e inutili le montagne.
Ormai la fabbrica non c'è più, ma nessuno vuole voltarsi indietro, a quella terra ingrata di vini acidi e di frutti indigesti. Si costruiscono palazzi che guardano il mare e nello spazio liquido spalancato davanti si proiettano le proprie speranze. Pur di non rivolgersi più ai picchi, si costruisce persino sul mare, vi si allungano appendici di pianure che non esistono gettandovi migliaia di tonnellate di cemento. Delle fabbriche, che spopolarono l'entroterra in pochi decenni, sono rimaste ormai solo le fondamenta tossiche, lentamente bonificate per farne propaggini di porto, luoghi in cui la merce e le persone transitano verso altre mete. La loro ruggine rimane nei fondali nascosti e si rintana nei polmoni della gente, nelle ciminiere bianche e rosse, nei greti dei torrenti. Lì l'industria ancora arde la sua legna, che è fatta di risorse lontane e di gente che sta qui, che si ammala e crepa da un secolo almeno.
Di questo, però, non ci dimentichiamo.
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