mercoledì 6 aprile 2011

L'Estero

L’Estero – proprio così, con la maiuscola – non è semplicemente ciò che c’è al di là dei confini del nostro paese. Chi ha dovuto o deve attraversare la giungla che separa i neolaureati da quella prateria verde e asciutta che è il “mondo del lavoro”, lo sa bene. La geografia, con l’Estero, c’entra assai poco.Ma che cos’è questa parola che porta la sua maiuscola con tanta evoliana fierezza, alla moda degli archetipi?

Questo post trae ispirazione da un’intensa discussione nata su Giap, nella quale sono emerse questioni cruciali per il presente di un’Italia che sembra sperimentare, nelle ultime settimane, nel bel mezzo di una crisi istituzionale gravissima che va incredibilmente cronicizzandosi e con una guerra in corso, una sorta di nuova ebbrezza patriottica: le “fughe di cervelli”, il precariato come condizione esistenziale, le mille pastoie che immobilizzano ogni ambito della vita pubblica. L’Estero, in tutto ciò, era emerso più di una volta. Consiglio, punto di riferimento, speranza o meta, esso è una presenza costante ogni qual volta si parli di lavoro, disoccupazione e, più in generale, delle problematiche sociali del nostro paese. Tuttavia, è solo per i neolaureati, i precari o i disoccupati che L’Estero indossa il suo abito migliore, passando dall’essere una parola tra le tante in frasi come “quest’anno voglio fare le vacanze all’estero”, “all’estero il caffè fa schifo” o persino “all’estero queste cose non succedono”, a diventare qualcosa di ben più potente e ricco di implicazioni.

Come spiega in modo magistrale Abdelmalek Sayad, la migrazione è un “fatto sociale totale”: questo tra le altre cose significa che, affinché accada, dev’esserci il concorso o quantomeno l’assenso della società, dev’esserci un senso comune che spinge in quella direzione. La migrazione nasce, soprattutto e prima di tutto, nel paese da cui si emigra. Lì, l’aspirante emigrato sarà allettato a partire da un discorso che ha lo scopo di giustificare il suo abbandono della società d’origine, poiché nessuna società può accettare l’assenza dei suoi membri se questi non sono costretti ad andarsene da motivazioni più che valide: lì crescerai, lì potrai dimostrare chi sei, da lì tornerai come un essere umano nuovo, più forte e capace. La migrazione assume un ruolo iniziatico, diventa un viaggio necessario, una prova da affrontare per fare ritorno con un bagaglio di conoscenze e di esperienze che farà sì che gli altri ci guardino con occhi diversi.

L’amica con cui ho parlato ha fatto due esperienze all’estero, una di studio e una all’interno di un programma del Servizio Civile internazionale. Discutendo della sua scelta di tornare a vivere in Italia definitivamente e delle reazioni che questo suscita in molte delle persone che incontra, mi ha detto: “Mi trattano come se volessi la pappa pronta, come se non fossi disposta a mettermi in gioco”. Come ho raccontato in altri post, nei Centri per l’Impiego il mantra “si può sempre andare all’estero” viene ripetuto continuamente ai giovani che cercano lavoro. L’Estero di cui si parla lì è il luogo in cui si diventa adulti, si supera l’esame della vita vera, si dimostra di saper portare il peso delle proprie ambizioni e dei propri sogni, che altrimenti rimangono soltanto i vaneggiamenti di bamboccioni troppo pigri e viziati. Dopo aver vinto la prova, potremo tornare in Italia e meritare l’omaggio e la stima della società, interpretata nella sua interezza, secondo questa visione, da un mondo del lavoro finalmente pronto ad aprirci le sue ben note porte. Il ritorno – attenzione – c’è sempre: il fatto che un emigrato, raggiunta una certa stabilità altrove, non torni, e non perché non lo desidera ma perché nel frattempo nel paese di provenienza non è cambiato nulla o magari le cose sono peggiorate (che è esattamente quello che succede quando una buona parte della popolazione più giovane e qualificata parte), non è concepito, perché equivarrebbe a dichiarare la sconfitta della società d’origine.

Come dice Sayad a proposito dell’emigrazione algerina verso la Francia, “Il misconoscimento collettivo della verità oggettiva dell’emigrazione” costituisce “la mediazione necessaria attraverso la quale può realizzarsi la necessità economica”. Necessità che è propria sì dell’emigrato, ma anche del paese di provenienza.

Ciò che accadrà sul lungo termine in Italia, non ho assolutamente le capacità per dirlo. E’ però ragionevolmente prevedibile che la perdita di un grosso numero di giovani preparati e pieni di talento non tornerà a vantaggio di questo paese. Sul breve termine, invece, è un allettante fattore di stabilità, in un periodo in cui i presupposti per lo scoppio del conflitto sociale si fanno sempre più concreti. Qui, quei giovani senza possibilità, soffocati dall’arretratezza dell’imprenditoria e degli enti di ricerca, stretti nell’imbuto dei clientelismi, dei familismi e delle varie mafie, incanalati verso impieghi umilianti, senza alcuna garanzia a spesso senza neanche una paga, sono un problema. Così, li si intontisce e li si separa attraverso l’etica aziendalista della competizione ad ogni costo, e poi gli si da una via di fuga, un sogno, la promessa di bypassare la trafila delle spintarelle, degli stage per pagare lo scotto di avere, forse, un giorno, un salario, dei mille contrattini a progetto e delle false partite IVA. L’Estero. Il salto nel cerchio di fuoco che hanno fatto in nostri bisnonni e che ora tocca a noi.

Scrive Luciano Gallino, in Il lavoro non è una merce: “La deliberata diffusione dei lavori flessibili rappresenta un capitolo della deresponsabilizzazione dell’impresa. […] Oggi, la quasi totalità delle imprese reputa, e anzi teorizza, che non spetti a loro preoccuparsi del destino di chi perde il lavoro o subisce lunghi periodi di non occupazione”. Allo stesso modo ragiona il nostro Stato, che ha pienamente assorbito questa mentalità, nei confronti dei giovani in cerca di lavoro. Se, infatti, deve ancora garantire ai disoccupati che hanno avuto una vita lavorativa qualche briciola di welfare, non si carica di alcun obbligo nei confronti di coloro che non sono mai entrati nel mondo del lavoro. Se ne lava le mani. Per loro, c’è l’Estero.

Questo è il motivo per cui io, ora, non voglio andarmene. Perché voglio essere un problema.

4 commenti:

  1. bello!!!
    prima tentiamo però il nostro progetto!!!
    e dopo ... basta decidere il dove.

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  2. intendevo bello il post, non il resto!!! :)

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  3. Grazie Bendy!! Ho letto che tu stai facendo colloqui su colloqui!

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