A volte le letture sono tanto più utili perché capitano in un momento particolare, proprio in quel momento lì in cui ce n'era bisogno. Così ecco che proprio pochi giorni prima della grande manifestazione No Tav del 3 luglio mi sono finalmente decisa ad approcciare un testo di Žižek, scegliendo quella che mi è parsa una delle sue opere più agili e alla mia portata, ovvero La violenza invisibile. Nelle pagine iniziali, Žižek elabora, attraverso Lacan, una distinzione tra violenza soggettiva e violenza oggettiva: la prima è quella che salta agli occhi, che si staglia su uno sfondo di normalità; la seconda è quella detta, come da titolo, "invisibile", cioè la violenza nelle imposizioni attuate dal linguaggio stesso, ma anche quella che Žižek chiama "violenza sistemica", ovvero quella generata dal funzionamento del nostro sistema economico e politico. Tra la prima e le seconde c'è un salto non solo qualitativo, ma anche quantitativo: la violenza oggettiva è sempre enormemente di più.
La violenza soggettiva è facile da riconoscere: è quella di un cordone di poliziotti che sparano una pioggia di lacrimogeni su una folla di manifestanti, ed è quella del manifestante che lancia una pietra contro il poliziotto. Quando si passa a tentare di decifrare l'apertura di un cantiere che squarcia una valle, si vedrà che il giudizio, per molti, diventa assai più difficile, che l'immagine è assai meno stagliata sullo sfondo. Se poi ci si interroga sul fatto di immaginare, progettare, costruire e rendere operativa una linea ferroviaria di quel tipo, a quelle condizioni (cioè nelle nostre condizioni) si vedrà che per la maggior parte delle persone la violenza proprio non c'è. Al massimo si considererà un'opera tanto costosa poco opportuna in un contesto economico così critico, ma in fondo potrebbe anche rilanciarci, potrebbe portare lavoro e accrescere questi benedetti scambi con l'Europa (come se la fantastica Europa fosse lì, ad applaudire il nostro arrivo quando finalmente spunteremo dall'altra parte del tunnel). Non si riesce a scorgere, invece, la violenza che si genera come conseguenza della messa in moto di una mole così grande di capitale, capitale che sarà messo a profitto attraverso clientelismi, appalti truccati, sfruttamento del lavoro, distruzione dell'ambiente eccetera.
La violenza sistemica è quella che fa sì, come spiega puntualmente Marco Revelli nel già citato Poveri, noi, che l'Italia sia un paese in cui esiste una frattura netta tra quel 10% di popolazione che possiede quasi la metà della ricchezza e del potere, e tutti gli altri, in particolare quel 50% che si ritrova a doversi spartire il 10% delle risorse. Un paese in cui "la ricchezza dei ricchi, come nelle «società di ceto» tardomedievali, è diventata intoccabile". Una società, cioè, "bloccata", in cui esistono "cittadinanze separate". Un'Italia - ma anche una Grecia, un Egitto, un'Europa - all'interno della quale esiste una frontiera: da una parte il paese delle decisioni e dei vantaggi, dall'altra il paese che non ha alcuna voce in capitolo e i cui interessi sono ignorati.
Frantz Fanon, nelle sue struggenti descrizioni del mondo coloniale, parlava proprio dell'esistenza di una frontiera interna ai paesi sotto il giogo del regime coloniale: si trattava di società la cui caratteristica era la "compartimentazione", l'imposizione forzata di barriere, confini, frontiere il cui scopo era dividere la società tra coloro cui i diritti - anche politici - erano garantiti, e coloro che invece non li avevano. La frontiera era imposta con la violenza, ogni giorno, con un tipo di violenza che si esprimeva sì nella repressione fisica, ma anche nelle politiche economiche, scolastiche o sanitarie che riguardavano gli "indigeni". Il famoso cuore di tenebra dell'Occidente – l'Occidente illuminista dei diritti e del pensiero scientifico - era proprio questo bisogno di conquistare, di sottomettere e di discriminare l'Altro. Lo stesso cuore di tenebra, dico io, di cui si può scorgere la verità terribile guardando nel buio profondo di un tunnel vuoto e inutile lungo 50 chilometri.
Il bello è che c'è chi crede che quando gli "sbirri" sbagliano poi vengono puniti dai loro superiori. Quando invece avviene spesso tutt'altro, e gli fanno quadrato (come sta avvenendo a Pisa) per evitare che trapeli qualcosa su quanto è capillarmente marcia l'istituzione delle forze dell'ordine.
RispondiEliminaho letto il tuo articolo. storiaccia davvero schifosa. purtroppo, una delle tante.
RispondiEliminaLeggendo il tuo post- tra l'altro per caso anche io sto leggendo un libro dello stesso autore- mi è venuto in mente, per uno di quegli strani collegamenti del cervello- che siamo in un cambiamento di paradigma, in un periodo in cui alcune teste si stanno 'evolvendo' e stanno vedendo e capendo cose che non tutti riescono ancora a vedere e a capire. Il problema adesso che questo succede è come andare avanti. In questo periodo ho l'impressione che parole come rivoluzione, ad esempio, abbiano un che di stantio, si portino dietro troppo bagaglio e non rendano pienamente quello che sta accadendo e che dovrebbe accadere. Ho l'impressione, anche, che sia necessario stare attenti al linguaggio che usiamo, perchè il rischio è di semplificare la realtà facendo ricorso a una terminologia che non risponde alle esigenze del momento. Ripeto, questi sono pensieri un po' in libertà. saluti.
RispondiEliminaNon so, ti dirò che il termine rivoluzione a me piace molto e lo trovo proprio adatto a descrivere quello che ci vorrebbe :D Poi certo, esistono mille interpretazioni del termine, alcune più rigide altre più inclusive, ma insomma famo a capisse. Per me rivoluzione è quando i più poveri gliele danno ai più ricchi e li scalzano dal potere. Insomma io la trovo una parola meravigliosa. Perchè tu dici che è stantia invece?
RispondiEliminaSe la parola di rivoluzione ci puzza di stantio significa che i reazionari degli anni Settanta hanno vinto e stravinto!
RispondiEliminaIo non dico che è stantia. Dico che è storicamente connotata, che- per me, nella mia testa, che può forse essere quella di una reazionaria degli anni Settanta ( e chi sono poi 'sti reazionari? perchè proprio quelli degli anni settanta?)- non risponde al contemporaneo. Meglio allora rivolta. Personalmente la preferisco, è più mobile, meno "pesante", meno acciaio più silicio.
RispondiEliminaQuesta obiezione sinceramente mi sembra un po' strampalata...che vuol dire storicamente connotata? che ha dei legami con il passato? Viva dio! Meno male che ce li ha! E' tutto da buttare via il passato?? E perchè rivolta sarebbe meglio?
RispondiEliminaPer reazionari degli anni Settanta intendevo riferirmi ai rappresentanti della piccola borghesia attuatori della repressione politica di tutti coloro a cui era cara la parola "rivoluzione": sono riusciti a farcela sembrare una cosa brutta e cattiva che porta solo violenza, morte e sangue e che quindi è meglio relegarla al passato e non pensarci più.
RispondiEliminaComunque non è mia intenzione disquisire su questo argomento, né intendevo darti dell'esponente della Reazione democristiana.