La diffusione di internet ha portato alla nascita di narrazioni di tutti i generi a proposito di questa grande rete globale che ci collega tutti. Si va dalle deliranti prospettive della Casaleggio Associati (qui), genitrice di Beppe Grillo e del suo progetto politico, secondo cui in un futuro lontano la rete produrrà un nuovo mondo di progresso dopo che i tre quarti (non bianchi) del pianeta sono stati distrutti dalla guerra, ai moniti di chi sostiene che internet sia uno stumento di Satana (qui). Miti feticistici utili allo scopo di chi li crea.
Quasi nessuno sembra voler considerare il fatto che internet sia, prima di tutto, il prodotto del lavoro di migliaia di persone sparse per il mondo. Se n'è già parlato, qui. Difficilmente la rete viene osservata come spazio economico in cui si dispiegano le iniziative di imprese di ogni genere, che si tratti di motori di ricerca, negozi o vere e proprie industrie dedite alla produzione di contenuti, e di conseguenza dei lavoratori che operano alle dipendenze di queste imprese. Quel punto di vista è prerogativa quasi soltanto dei lavoratori stessi.
E come in ogni ambito, anche i lavoratori della rete non sono certo estranei a logiche corporativistiche, quando non a un vero e proprio leghismo digitale, che se la prende con gli ultimi arrivati e i più disgraziati per il fatto che gli stipendi si abbassano. Su alcuni blog e forum di freelance (vedere ad esempio qui o qui) il discorso che si fa è "c'è gente che lavora sempre per meno soldi, i freelance non devono accettare, non devono abbassarsi", oppure addirittura "questi non sono dei veri professionisti, sono delle prostitute". E se il primo tipo di discorso è comprensibile (il secondo no), certamente manca di uno sguardo d'insieme sul problema e ha il difetto di avallare quella visione individualistica del lavoro che carica completamente sulle spalle del lavoratore la responsabilità delle sue condizioni, lasciandolo da solo a combattere contro un Golia globale in grado di spazzarlo via in un soffio.
A proposito di questo e della terribile piattaforma Freelancer, Dario Banfi descrive in questo modo la situazione: "E’ un’immigrazione lavorativa silenziosa, ma sedentaria, che si muove nel confine del lavoro intellettuale, là dove i territori sono tracciati da saperi condivisi e dunque aperti alla concorrenza dei freelance di tutto il mondo, che riversano nel costo del lavoro quello della vita nel Paese in cui risiedono. E’ una diga aperta, i confini geografici sono rimossi dal protocollo Http, i lavoratori si ritrovano sulla medesima piazza e basta che sappiano parlare un po’ di inglese e usare i tool dei marketplace per entrare in competizione."
Praticamente il sogno divenuto realtà di ogni credente neoliberista (perché il neoliberismo, come dice giustamente Luciano Gallino, non è una teoria economica ma un credo). Mai come nel lavoro digitale si rivela per quello che è - una boiata - la teoria secondo cui il mercato deciderebbe autonomamente il giusto prezzo per ogni cosa.
Fatte le dovute proporzioni, se ad un'azienda va bene che un pallone sia cucito da un bambino in India, il problema non sono certo né quello della qualità del prodotto, né quello di un decadimento del valore e della dignità della professione del cucitore di palloni. Quello che bisogna chiedersi è: che razza di sistema industriale è quello che accetta e realizza l'idea di far produrre i propri palloni ai bambini indiani? In base a quali regole funziona e qual'è il suo obiettivo?
E che razza di sistema industriale è quello che raccatta "principianti, smanettoni e disperati" da tutto il mondo, per fargli mettere insieme merda digitale che ha il solo scopo di far guadagnare a un lontano committente qualche posizione su Google o qualche dollaro grazie alla vendita di spazi pubblicitari?
Vogliamo pensare a cambiarla questa rete?
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