mercoledì 28 dicembre 2011

Fincantieri in crociera

Ormeggiata nel porto di una piccola città di provincia, la Costa Concordia da il meglio di sé. Bianca, luccicante di finestre e di centinaia di metri di luci colorate appese a festa per il Natale e per il grande evento della partenza. Sua sorella minore Costa Deliziosa, ormeggiata al suo fianco, sta per partire per una crociera di 101 giorni che farà il giro del mondo, toccando sei continenti, e anche lei, Costa Concordia, si prepara salpare. Se non fosse che ognuna di queste navi contiene una spa futuristica, un cinema 4D, una discoteca e che i prezzi (nel caso della Deliziosa, a cinque cifre) sono in euro, sembrerebbe di trovarsi nella Belle Epoque. E in effetti c'è, in questa giornata, un ché di molto vecchio, un inconfondibile sapore di Fine Ottocento.

La piccola città post-industriale, con le vecchie fabbriche di mattoni abbandonate sul retro dei nuovi palazzi di vetro azzurro chiaro, per l'occasione si è intasata di pullman e auto di vacanzieri impazienti di prendere possesso del loro posto all'interno del lussuoso transatlantico. I palazzi sbiaditi - quelli di cui la crisi ha stoppato il maquillage - assumevano di fronte alla nave la tonalità beige delle miserie quotidiane, dei posti in cui si lavora e si vive e ci si diverte poi poco, delle tristi località in cui nessuno vorrebbe mai mettere piede.

A quaranta chilometri di distanza, in un tratto di litorale cancellato dalle mappe marittime in possesso dell'equipaggio della grande nave, si trova il presidio degli operai della Fincantieri di Sestri Ponente. Di fronte alla Costa Concordia, che esorbita di decine di metri dalla skyline delle casette del porto, che sembrerebbe capace di spaccare la città in due con un colpo d'elica e di prua e che in effetti, nel mare, crea danni di non molto dissimili, viene quasi da rimproverarli: dopo aver costruito un simile mostro, costretti dall'onere del lavoro, non dovevate lasciarlo andare. Dovevate sequestrarlo, gettare a mare i bulloni degli immensi motori, spegnerlo per sempre.

Ed è quello che stanno facendo, in effetti, con la Oceania Riviera, un'altra Las Vegas galleggiante che dovrebbe prendere il mare a primavera. La terranno chiusa nel recinto del cantiere fino a quando non riusciranno ad ottenere qualche garanzia su un futuro che vada oltre i due anni della cassa integrazione. Il nuovo mostro ancora in costruzione, immagino, avrà già cominciato ad emettere tonanti cigolii di disappunto.

Da Savona, la Costa Concordia le lancia richiami che fanno tremare i muri. Vedrai, sembra dirle, un giorno anche tu brulicherai di passeggeri paganti, marinai candidi, cameriere filippine, e salperai da qui verso un domani di sogno e ricchezza. Le altre navi - sono ben tre in totale - incastrate l'una accanto all'altra nel piccolo porto, le fanno eco. Tra mostri la solidarietà davvero non manca.

martedì 27 dicembre 2011

L'acqua, il fuoco e la ruggine. Appunti sulla Liguria che brucia, si allaga e resiste

Non è mica normale vedersi passare i canadair sopra la testa e non farci più caso. La maggior parte della gente forse non li ha neanche mai visti in vita sua, questi aerei rossi e gialli, che ad osservarli da lontano, stagliati contro il cielo e poi pronti a tuffarsi nell'acqua, sembrano dei giganteschi gabbiani colorati. Tracciano nell'aria un'ellisse di goccioline, che svaniscono nell'atmosfera secca e alle narici si confondono con l'alito salmastro del vento di mare. Si sollevano dalla superficie marina lentamente, sfiorano la diga foranea con le loro pance pesanti e fluttuano tra i battelli ormeggiati, i capannoni delle fabbriche, i condomini. Si alzano fino alla cresta delle montagne - in volo sono pochi secondi - e virano per gettarsi a capofitto nelle gole ricoperte di nebbia grigia e lì spalancare le loro gabbie toraciche per generare - salata, contraffatta - la pioggia. Giureresti di non vederli più venire fuori. Aspetti il botto da un momento all'altro.

Non è mica normale essere abituati a uno spettacolo del genere. Rassegnarsi agli incendi - all'odore di bruciato, al nero delle colline, al frastuono degli aerei e degli elicotteri che arrivano a fermare le fiamme - come se si trattasse di incidenti stradali, inevitabili nell'oceano turbinoso delle probabilità. E così anche per le frane, per l'acqua che tracima e alla fine spacca le rive, facendo crollare orti, strade, boschi. A volte case. Si finisce per ululare la propria indignazione e portarsi le mani alla fronte, in compagnia, al mercato, al bar, dopo la messa, ai pranzi di Natale, e basta.

C'è una parola per indicare la causa degli incendi e delle alluvioni che ogni anno, alternandosi durante le stagioni, arrivano a flagellare qualche pezzo di Liguria: abbandono. Si lasciano i boschi ai rovi, gli orti alle erbacce, i canali e i ruscelli alle piante assetate. E quella natura post-agricola, priva di ogni equilibrio, erosa anch'essa da millenni di sottomissione all'uomo, si ammala, brucia o viene sfondata dall'acqua. Si è abbandonato le montagne con i corpi, prima di tutto, e poi con il pensiero. Ci si è trasferiti in città, verso le fabbriche e il denaro, lontano dalle mulattiere da percorrere per cavare da poche strisce sottili di terra un po' d'olio, di vino e di verdura. Ci si è dimenticati dei boschi, che dopo immense fatiche non regalavano altro che frutti selvatici, troppo volubili per poterci contare davvero, e un po' di legna con cui scaldarsi male, nel modo stupido in cui scaldano le stufe. Chi aveva tempo conservava un pezzo di terra per tenerci le galline e i conigli, e per farci l'orto d'estate. Ma senza allontanarsi troppo dalle città e dai paesi, visto che di spazio disponibile ora ce n'era in abbondanza e non c'era più bisogno di arrampicarsi lungo le coste. I boschi sono diventati un hobby per fungai, cacciatori e appassionati di sport estremi, e sono diventati dei grovigli di specie spinose, capaci di vivere nell'aridità dell'incuria. Ad ogni stagione secca, pezzo pezzo, anneriscono nel fuoco, rendendo ancora più cupe e inutili le montagne.

Ormai la fabbrica non c'è più, ma nessuno vuole voltarsi indietro, a quella terra ingrata di vini acidi e di frutti indigesti. Si costruiscono palazzi che guardano il mare e nello spazio liquido spalancato davanti si proiettano le proprie speranze. Pur di non rivolgersi più ai picchi, si costruisce persino sul mare, vi si allungano appendici di pianure che non esistono gettandovi migliaia di tonnellate di cemento. Delle fabbriche, che spopolarono l'entroterra in pochi decenni, sono rimaste ormai solo le fondamenta tossiche, lentamente bonificate per farne propaggini di porto, luoghi in cui la merce e le persone transitano verso altre mete. La loro ruggine rimane nei fondali nascosti e si rintana nei polmoni della gente, nelle ciminiere bianche e rosse, nei greti dei torrenti. Lì l'industria ancora arde la sua legna, che è fatta di risorse lontane e di gente che sta qui, che si ammala e crepa da un secolo almeno.

Di questo, però, non ci dimentichiamo.

Qui, qui e qui trovate un po' di notizie e di contatti da chi resiste.

sabato 24 dicembre 2011

Happy Birthday

Il mio amico pizza boy è una fonte inesauribile di buoni oroscopi. Chiunque avesse vissuto un 2011 come il suo non esiterebbe un attimo nel definirlo "un anno di merda", legato a un paese di merda, a un momento storico di merda.

Lui no. Lui fa mente locale e dice "Non è andato così male. Ho imparato tante cose". E poi continua: "Il 2012 sarà un anno diverso, per tutti. Per me e per i miei amici sarà un bell'anno sicuramente". Ha un buon consiglio per tutti lui, e riuscirebbe a infondere ottimismo ed energia vitale anche al più anemico dei nichilisti. Su di me ha l'effetto di una vacanza, di un bagno termale: mi fa sentire pulita, ritemprata, rinvigorita. I nostri caffè pomeridiani sono uno dei motivi per cui, nonostante tutto, continua a piacermi Bologna.

Da qualche tempo non lavoriamo più insieme. Ha trovato un ristorante che gli permette di guadagnare il giusto e di avere tempo libero a sufficienza per fare ciò che davvero ama: lavorare per la CGIL. Per il momento non è proprio un vero lavoro, dato che la retribuzione è solo un rimborso spese, ma lui è felice ugualmente ed è convinto che l'anno nuovo gli porterà buone notizie. Se andate allo sportello per stranieri della CGIL di Bologna lo trovate lì ogni pomeriggio, pronto ad alleviare le vostre beghe burocratiche con l'entusiasmo di coach che si trova lì lì per vincere il suo primo campionato.

Compie gli anni proprio il giorno di Natale. Quindi tanti auguri a lui e anche a tutti voi. Anch'io penso che il 2012 sarà un anno diverso e, perché no, migliore.

sabato 17 dicembre 2011

La mancia

La Signora C. telefona nella pizzeria in cui lavoro un paio di volte a settimana e ordina sempre un primo e un secondo. Abita in una bella casa, in una zona residenziale molto quotata. Almeno così mi hanno detto, io non l'ho mai vista. Questa signora lascia sempre il resto di mancia, e il suo resto di solito non è meno di sette euro. Chi va a consegnare a casa sua non viene scelto a caso: il mio capo manda da lei il dipendente che si trova in maggiori difficoltà economiche, il quale di solito investe immediatamente il denaro extra alla prima pompa di benzina. Io vorrei dirlo al boss che se i suoi fattorini sono così poveri da non avere i soldi per un pieno dipende dal fatto che non sono pagati abbastanza. Ma poi mi taccio perché il sindacalismo, ancorché di base, in un simile ambiente non è proprio contemplato.

Ho sempre trovato la mancia una pratica barbara, tipica dei paesi del neoliberismo più spinto e dell'informalità più misera (che poi sono la stessa parola in due contesti diversi); un modo per sgravare il padrone dai suoi oneri nei confronti dei dipendenti, facendoli ricadere sul cliente. Eppure quando mi capita di fare qualche consegna in bici o di corsa nei dintorni della pizzeria - con il freddo, l'odore di fritto e i conti da tenere a mente che non mi si staccano di dosso un secondo - mi capita di borbottare tra i denti non pochi improperi contro gli spilorci che non mi sganciano neanche una monetina dorata. Mi viene da rinfacciargli il loro denaro speso tanto alla leggera, sperperato in pizze costose e piatti di pesce. La prossima volta dalla Signora C ci vado io.

Poi torno in me e penso che di quegli spiccioli non ne ho davvero bisogno, a differenza dei miei colleghi. Che mi regalerebbero solo la demente soddisfazione di un guadagno in apparenza emancipato dalla tasca del padrone. Così me ne torno in pizzeria ribadendo alla me stessa di un attimo prima - immemore dell'ingiustizia costitutiva del capitalismo - "plusvalore, plusvalore, plusvalore...".

venerdì 16 dicembre 2011

Su Torino, una poesia di Cesare Pavese

Ozio


Tutti i gran manifesti attaccati sui muri,

che presentano spra uno sfondo di fabbriche
l'operaio robusto che si erge nel cielo,
vanno in pezzi, nel sole e nell'acqua. Masino bestemmia
a veder la sua faccia più fiera, sui muri
delle vie, e doverle girare cercando lavoro.
Uno si alza al mattino e si ferma a guardare i giornali
nelle edicole vive di facce di donna a colori:
fa confronti con quelle che passano e perde il suo tempo,
ché ogni donna ha le occhiaie più stracche. Compaiono a un tratto
coi cartelli dei cinematografi addosso alla testa
e con passi sostanti, i vecchiotti vestiti di rosso
e Masino, fissando le facce deformi
e i colori, si tocca le guance e le sente più vuote.

Ogni volta che mangia, Masino ritorna a girare,
perché è segno che ha già lavorato. Traversa le vie
e non guarda più in faccia nessuno. La sera, ritorna
e si stende un momento nei prati con quella ragazza.
Quando è solo, gli piace restare nei prati
tra le case isolate e i rumori sommessi
e talvolta fa un sonno. Le donne non mancano,
come quando era ancora meccanico: adesso è Masino
a cercarne una sola e volerla fedele.
Una volta - da quando va in giro - ha atterrato un rivale
e i colleghi, che li hanno trovati in un fosso,
han dovuto bendargli una mano. Anche quelli non fanno più nulla
e tre o quattro, affamati, han formato una banda
di clarino e chitarre - volevano averci Masino
che cantasse - e girare le vie e raccogliere i soldi.
Lui Masino ha risposto che canta per niente
ogni volta che ha voglia, ma andare a svegliare le serve
per le strade, è un lavoro da napoli. I giorni che mangia,
porta ancora con sé pochi amici a metà la collina:
là si chiudono in qualche osteria e ne cantano un pezzo
loro soli, da uomini. Andavano un tempo anche in barca,
ma dal fiume si vede la fabbrica, e fa brutto sangue.

Dopo un giorno a strisciare le suole davanti agli affissi,
alla sera Masino finisce al cinema
dove ha già lavorato, una volta. Fa bene quel buio
alla vista spossata dai troppi lampioni.
Tener dietro alla storia non è una fatica:
vi si vede una bella ragazza e talvolta c'è uomini
che si picchiano secco. Vi sono paesi
che varrebbe la pena di viverci, al posto
degli stupidi attori. Masino contempla,
su un paese di nude colline, di prati e di fabbriche,
la sua testa ingrandita in primissimi piani.
Quelli almeno non danno la rabbia che danno i cartelli
colorati, sugli angoli, e i musi di donna dipinti.

da Poesie del disamore

domenica 11 dicembre 2011

Fare l'amore a Torino. Torino brucia

Come ha giustamente scritto Michela Murgia di quanto avvenuto ieri sera a Torino, la prima notizia è il pogrom. La seconda notizia riguarda invece una ragazzina che, piuttosto che confessare di aver fatto l'amore, ha inventato per sé una storia fatta di aiuole incolte, periferie buie, stupri. Vegetazione urbana che fa da tana a esseri subumani, i quali torturano le ragazze in cambio di un cellulare e di un orgasmo sporco, illecito, uguale a loro. Un intero immaginario fatto di luoghi squallidi, razzismo, paura, preso in blocco e rovesciato sul tavolo.

L'astuzia femminile - quella terrificante qualità su cui basano il loro potere le matrigne delle favole - è frutto della discriminazione. Si tratta di spremersi le meningi alla continua ricerca di soluzioni, per ritagliare uno spicchio di spazio per te e per salvarti quando, invece, ti scoprono. Inventare intricati castelli di balle per trascorrere la notte con il ragazzo che ti piace, o anche solo per uscire con lui. Tenere sotto controllo le telefonate dei genitori, scegliere la giusta linea dell'autobus per non rischiare di incontrare qualcuno, valutare con attenzione un luogo sicuro in cui scambiarsi baci e carezze. E quando questo non basta, avere un piano B, che dev'essere sicuro però, deve riuscire dove tutto il resto ha fallito, dev'essere il proverbiale asso nella manica: la bugia con il più alto valore possibile.

L'ultima carta per questa ragazzina messa alle strette è stato uno schifoso impasto di razzismo, classismo, senso dell'onore usato come rifugio e come giustificazione al sempiterno desiderio di segregare le donne, voglia di riscatto e ricerca di una coesione facile, ready made, raccolta per strada. La narrazione di una società immiserita e frantumata, che cerca se stessa nelle pagine di giornali che sempre più sfacciatamente approfittano delle sue debolezze per compiacere il potente di turno, il quale in vista delle prossime elezioni legge e ringrazia. Quello che questa ragazzina sa del mondo in cui vive, quello che ha intuito con i suoi occhi attenti che cercano appigli, è che sul suo reazionarismo potrà sempre contare per salvarsi in corner.

Qui lo storify di @jumpinshark su tutta la vicenda.

martedì 6 dicembre 2011

Giovani e vecchi

Mia nonna ha 91 anni e campa con la minima. Ovvero, più o meno quanto prendo io con il mio lavoro in pizzeria. Infatti faccio anche altro per tirare su due soldi, ma lei non ha questa possibilità. E' così vecchia che il suo corpo si è fatto piccolissimo, la sua pelle sottile come carta velina, le sue mani tanto incerte che al mattino ha bisogno di aiuto persino per aprire la caffettiera. Quello che lo stato le manda è quello che ha, e non può difendersi né fare altrimenti. Mia madre e mia zia le pagano la badante d'estate, quando in città si sente morire e vuole tornare in campagna, dove ha sempre vissuto.

Per sua fortuna - e anche mia e dei miei cugini - la cosiddetta "generazione sandwich" al momento non è ancora alla canna del gas, e spesso riesce a sostenere un poco sia i vecchi che i giovani. Quando ieri ho sentito mia madre, che è già in pensione, ha detto che è giusto che siano i più vecchi a pagare, perché sono quelli che hanno scialacquato, che sono ingrassati alla tavola dello stato sociale senza pensare alle conseguenze.

Come ha raccontato Loredana Lipperini nel suo Non è un paese per vecchie, i pensionati italiani sono i più poveri d'Europa. Eppure tagliare sulla loro pelle sembra giusto, sembra necessario, anche se è tanto triste. Largo ai giovani, si dice, sono loro che stanno pagando la crisi. In tempi così duri, ci vogliono provvedimenti altrettanto netti, che spazzino via il vecchiume e facciano sopravvivere quello che merita. L'importante è prendere le scelte più difficili con la tenerezza nel cuore, e un po' controvoglia.

Quello che merita, sono i giovani raccontati dall'infotainment in prima serata, quelle brave ragazze e quei bravi ragazzi che hanno studiato tanto e poi vanno all'estero per cambiare il mondo con la loro incorrotta creatività. Piacciono tanto questi giovani, sono un brand favoloso, il jolly che fa quadrare la scala e che permette di sbaragliare tutti gli avversari. Basta tirarli fuori, tirare fuori quel sogno di rinascita che rappresentano, che di colpo diventiamo pronti a tutto. La loro voglia di fare emenderà i vecchi dai peccati della loro vita confortevole, all'ombra dell'articolo 18, della sanità e della scuola pubblica. Sacrifichiamoci per loro, stringiamo la cinghia affinché possano andare com'è loro natura a combattere sul fronte duro e giusto del libero mercato, dove la meritocrazia premierà i migliori. Mica come ai vecchi tempi, quando i sindacati ti paravano il culo e andavi in pensione ancora giovane e in gamba. Che mollaccioni che eravamo, che squallidi viveur decadenti, con tutte le nostre tutele e il nostro denaro facile. I giovani invece, loro sono limpidi, belli, pieni di nuove energie. Loro sono il futuro. E' nelle loro mani che andrà il mondo nuovo, che sarà più povero magari, però più pulito e più autentico, come loro.

domenica 4 dicembre 2011

Incubi e deliri (precari)

Quand'ero ragazzina pensavo che l'insonnia fosse un problema dei vecchi. A quindici anni mi innamorai per la prima volta e persi il sonno per un paio di settimane, ma non ricordo di aver avuto ancora problemi simili per periodi altrettanto lunghi. A volte facevo nottata a leggere oppure a straziarmi per qualche turbamento emotivo, ma si trattava di episodi che si risolvevano sempre, la notte successiva, con una gran dormita.

Ora invece oscillo tra periodi di sonno piuttosto regolare ed altri in cui l'insonnia viene a tirarmi le coperte, in compagnia dei più odiosi dei suoi parenti: gli incubi. Gli incubi che si accompagnano all'insonnia sono di un genere che si muove a sciami. Si susseguono a volte per diverse notti consecutive e lasciano la mente spossata e i polmoni esausti, strizzati come spugne, dopo lunghe sessioni di tempo incosciente trascorse a inseguirli.

Nell'ultimo incubo che ricordo ho sognato il mio letto. Per raggiungerlo dovevo salire una lunghissima scala a pioli il cui tratto finale era stato costruito legando insieme tubi e pezzi di metallo, e che giungeva fino al cornicione di un palazzo. Sopra questo cornicione, largo poco più di un metro, stava appunto il mio letto, ed era lì che vivevo. Non era una mia scelta, ovviamente, ma anzi qualcuno o qualcosa mi avevano costretta lì, a dormire nella vertigine e con la costante paura di precipitare. Come se non bastasse, il cornicione - e con esso il mio letto - iniziava a staccarsi dalla parete del palazzo, a inclinarsi e a franare. Io cercavo di salvarmi, ma la scala mi terrorizzava quasi quanto la caduta ed ero certa che avrebbe definitivamente ceduto durante la mia fuga.

Nonostante il mio vero letto si trovi al sicuro tra le quattro mura e il solido pavimento della mia stanza bolognese, non posso fare a meno di pensare che questo sogno rispecchi piuttosto bene la realtà. L'unico errore del mio inconscio è stato quello di immaginare che su quel cornicione vivessi da sola.

Eccoci, noi stormo di precari terrorizzati dal vuoto, costretti a vivere appollaiati come uccelli senza averne le ali. Incapaci, spesso, di dormire davvero, sporgendoci da sotto le lenzuola controlliamo compulsivamente il ciglio della nostra postazione. Il precario-piccione è una nuova figura di insonne, del tutto particolare: non sa volare ma dimora ugualmente nei luoghi più impervi, ad altezze vertiginose. Tuttavia la sensazione che prova nel raggiungere i suoi giacigli nei picchi non è quella dell'innalzamento, ma quella della profondità, dello sbalzo terribile che ti trascina giù, con fatale puntualità. Al piano terra, sussurrano voci da dentro i palazzi, da qualche tempo non c'è più posto proprio per nessuno.


giovedì 1 dicembre 2011

Achtung, Libero!

Ieri è stata decisamente la giornata di Camillo Langone. Questo oscuro membro della squadra di Libero ha scalato i TT di Twitter a velocità oserei dire bieberiana, rimanendo saldo sul podio anche oggi e beccandosi gli insulti di una percentuale davvero cospicua degli utenti della rete.

Le reazioni alla sua trovata per nulla originale vanno dal non meno banale e sessista - anche un tantino fuori luogo -"la mamma dei cretini è sempre incinta" alle osservazioni sul fatto che forse i libri sono la scusa che usa la moglie di Langone stesso quando vuole evitare le attenzioni del marito. Come se il problema, per gente come questo tizio, fosse il fatto che le donne fanno troppo poco sesso e non, invece, il fatto che lo facciano non a scopo procreativo, com'è del resto senso comune per tutti i reazionari della stessa risma.

Come ribellione a questo coro di cinguettii sciocchi, portatori del sessismo della nostra epoca, quello che vuole proteggere il diritto delle donne a scopare e che, così facendo, continua a schiacciarle sul loro sesso, Loredana Lipperini ha proposto il silenzio. Purtroppo invece, penso io, il nostro silenzio non gioverebbe affatto alla nostra causa, che è quella di far sparire la discriminazione tutta, compresa quella che digitano, distrattamente, molti di coloro che ieri hanno riso delle teorie di Langone. Non lo so se si può davvero agire nel bel mezzo di quel genere di ubriacatura da TT - una cosa che su Twitter ultimamente vedo accadere sempre più spesso e che mi inquieta non poco -, ma forse vale la pena tentare.

Un altro motivo per cui di questo tizio e di quelli come lui bisogna parlare, è perché non rappresentano affatto la vocina di una sparuta combriccola di maniaci del Medioevo, un fenomeno che starebbe bene in un museo sull'Inquisizione spagnola. Sono, invece, personaggi che hanno un ruolo politico, che è quello di andare a solleticare i pruriti più orrendi di quello che è il target di Libero, che non è certo limitato ai seguaci di Padre Tam. E' questo il punto. Qual'è il target di questo giornale apparentemente tanto "di nicchia"?

Vi basti sapere che Libero viene distribuito gratuitamente, almeno qui a Bologna, in almeno uno dei più grandi alberghi in cui tipicamente alloggiano manager, medici e altri professionisti in viaggio di lavoro. A costoro il quotidiano di Langone e Belpietro viene fatto trovare sul tavolo insieme alla colazione. Ecco chi sono i lettori su cui Libero punta, professionisti di profilo abbastanza alto, solitamente uomini, che ricoprono ruoli dirigenziali o comunque fanno lavori che li rendono molto visibili e influenti. Come ho già raccontato, io di lettore di Libero ne conosco uno solo, ed è un medico. Non un monaco orripilato dalla vita moderna, ma una di quelle tipiche persone a cui, in una piccola città, qualcuno prima o poi chiede di far parte di una lista elettorale, e spesso anche, come passatempo serale, di entrare nella massoneria locale (non scherzo).

Su Langone - il cui incredibile ritratto era già stato scattatto mesi fa dal fantastico Mazzetta - posso anche ridere, ma su quelli che leggono i suoi articoli, magari trovandoli, sotto sotto, stuzzicanti, no.