domenica 8 gennaio 2012

Nuova rubrica culinar-precaria del lunedì: le ricette de La Pentola d'Oro

Ogni Natale mi faccio un auto-regalo, e tipicamente si tratta di qualcosa che, come del resto suggerisce il nome, è del tutto auto-referenziale. E in quanto a questo, l'auto-regalo del Natale appena trascorso ha battuto ogni record. Mi sono infatti regalata il libro di cucina Pentola d'Oro, un libro che probabilmente ha fruttato a questo blog alcune delle sue primissime visualizzazioni.

Che esistesse un libro di cucina chiamato Pentola d'Oro per la verità l'ho scoperto diversi mesi dopo aver aperto il blog. Mi trovavo in Sala Borsa a leggere, e quando ho sollevato la testa dalla mia postazione me lo sono ritrovato proprio davanti agli occhi. Era una vecchia edizione grossa come un volume di enciclopedia. Molto dopo sono venuta a sapere che ne esisteva anche un formato di ultimissima uscita, adatto alle cucine del XXI secolo, ovvero taglia mignon, perfetto per essere infilato nei pochi centimetri liberi di una stanzetta arredata Ikea e stipata di minuscoli suppellettili: piccolo frigo, fornello elettrico, lavandino con un'unica vasca, tavolo per cene molto intime.

Per fortuna la mia cucina non è messa proprio così male, anche se il tavolo traballa, le credenze non stanno chiuse e il forno sembra provenire da uno scambio commerciale tra potenze dell'Asse (è un cubo nero - peraltro assai mal funzionante -il cui marchio, con tanto di aquila, è "La Germania". Giuro ). Uno dei vantaggi dell'abitare in condivisione è che spesso - non sempre - ci si evita il cubicolo Ikea. E anzi nelle case migliori la cucina diventa una specie di biblioteca di ricordi, che raccoglie fotografie, oggetti, persino piante appartenute a persone che hanno abitato l'appartamento in passato. E' la memoria storica della casa, e anche chi è finito a viverci senza conoscere nessuno, rispondendo a un annuncio magari, viene subito accolto da pareti e mensole che sfoggiano imperturbabili la loro vecchiaia, portando addosso tracce di tutti i frammenti di vita che al loro riparo si sono svolti. E' qualcosa di estremamente rassicurante, soprattutto per chi abita in una città in cui si sente ancora straniero.

La mia cucina, poi, è particolarmente evocativa. Non solo vi si trovano foto e messaggi di persone che non ho mai visto, ma la credenza è una vera e propria dolomite di spezie: vi sono accumulati sacchetti e barattoli provenienti da ogni angolo del mondo (alcuni dei quali dal contenuto intelleggibile a noi posteri), frutto dei viaggi di persone che cucinavano qui molto prima di me. Tajin messicano, berberè dell'Etiopia, olio piccantissimo brasiliano, origano di Andria, curry indiano. Anche i piatti e i bicchieri hanno un'origine per lo più misteriosa e sono assai interessanti per chi volesse dedicarsi alla storiografia dell'appartamento. I piatti appartengono ad almeno cinque servizi diversi e i bicchieri sono tutti entrati a far parte del corredo domestico in seguito a loschi ladrocini a danno delle osterie bolognesi durante serate ormai perse nell'oblio. Un enorme boccale di birra da un litro, rubato chissà come, ospita talvolta dei mazzi di fiori a centro tavola, mentre uno splendido ficus, trovato diversi anni or sono in un bidone della spazzatura, sopravvive incurante della nostra totale assenza di riguardo nei suoi confronti. Voi siete di passaggio, sembra dire, io no.

E' tra queste quattro mura il cui intonaco avrebbe bisogno di una rinfrescata, che io spendo talvolta le mie serate solitarie, tra fornelli, mestoli, impasti, tortiere e quant'altro. Di solito, ne approfitto per lasciare in sottofondo, nel mentre delle preparazioni, qualche programma I-M-P-E-R-D-I-B-I-L-E, tipo Piazza Pulita o Servizio Pubblico, in modo da essere un minimo aggiornata sui must have dell'indignazione pret à porter italiana. Oppure metto su qualche spettacolo di Bill Hicks che già conosco a memoria e rido a crepapelle. Ed è in queste circostanze che tenterò di scrivere con una qualche sistematicità - e sempre che qualcun* gradisca - la nuova rubrica del lunedì, una rubrica di ricette e di riflessioni masticate cucinando, a pancia vuota e con il cibo che sobbolle sulla fiamma.

I piatti che vi proporrò proverranno in parte dalla mia memoria e in parte dal libro Pentola d'Oro. Quest'ultimo è certamente una pubblicazione adatta a coloro che, come me, amano qualche volta mangiare pesante. Vi si trovano, in dosi fatali, tutti i cibi proibiti dai dietologi e anche quelli vietati dalle leggi a protezione della fauna. Inutile specificare che io affronterò solo le ricette di cui - vuoi per problemi di reperibilità, di prezzo, o di etica - riesco a procurarmi gli ingredienti senza troppo sbattimento e che mi consentono di fare altro durante la giornata. Niente di troppo impegnativo insomma, ma solo un tentativo di regolamentare la tempistica del blog in una modalità che mi risulti friendly e gradevole al palato. Ed ora, dopo questa lunghissima intro, ecco la prima ricetta.


Uova alla boscaiola

Quale scelta migliore, per il battesimo di una nuova rubrica mangereccia, di una bella ricetta contadina e persino un po' tedesca, di quelle che sanno di lungo buio invernale, spifferi, finestre appannate, cibo che serve per carburare calore, per far fluire il sangue e spezzare il languore di corpi costretti in case sempre troppo fredde.

Prima di tutto occorre far bollire le patate. Nel frattempo si puliscono i funghi - che nel mio caso sono una squallida accoppiata di champignon e pleurotus da supermercato - e li si fa trifolare in padella con aglio e prezzemolo. Quindi si tagliano a fette le patate bollite e le si dispone in una teglia da forno imburrata, le si ricopre con una spolverata di grana e poi con i funghi. Con la forchetta si formano poi dei piccoli incavi nello strato di funghi, dentro i quali si metterà un altro cucchiaio di formaggio nonché il tuorlo e il bianco delle uova, una per ogni incavo. Il bianco tenderà ad allargarsi, impregnando di proteine i funghi, mentre il tuorlo rimarrà fermo come un bulbo arancione. La teglia boscaiola andrà in forno ben caldo - la Pentola dice 200 gradi, ma il mio forno La Germania non segna i gradi e quindi io vado un po' a sentimento - fino a quando i tuorli non si saranno cotti.

Da ghiottona precaria quale sono, non posso fare a meno di notare l'assonanza tra i meravigliosi quanto semplici ingredienti di questa ricetta, e quelli - non chiamate la neuro - del welfare state, del principio per cui lo Stato deve garantire una solida base di patate bollite a tutti i suoi cittadini. Sopra questo pavimento di cibarie inalienabili - come la sanità, il sussidio di disoccupazione, la scuola e così via - i cittadini passeggiano alla ricerca di quel misterioso frutto boschivo che è il lavoro. Esso spunta con una certa periodicità, ma è immancabilmente soggetto alle variabili atmosferiche ed è molto schizzinoso in fatto di clima. Vuole terreni ombrosi, aria umida, radici ospitali a cui aggrapparsi. Altrimenti, scarseggia.

Chi è atavicamente legato al territorio ha qualche probabilità in più di trovare questa pregiata delizia. Bisogna conoscere i posti giusti, e si tratta di saperi che si tramandano di generazione in generazione. Coloro invece che sono appena arrivati devono accontentarsi di vecchi gambi rinsecchiti, lasciati a marcire da altri, oppure restare a bocca asciutta. Inoltre, ci vogliono buoni occhi, gambe robuste e molta pazienza. Occorre talvolta inerpicarsi lungo le gole dei ruscelli e addentrarsi nelle profondità dei boschi, muovendo foglia per foglia. Finire sulle tracce di un altro cercatore, o al contrario rovinargli la perlustrazione precedendolo, è praticamente inevitabile. Poi, bisogna accontentarsi. Gli ovuli, con i loro bei cappelli rossi e le carni delicate, non sono meno rari di una vincita al lotto e persino i porcini, che hanno l'aria ben più gioviale, si mostrano difficilmente se non durante stagioni di eccezionale abbondanza. Assai più facile è incontrare qualche colombina violacea o color verdone, oppure imbattersi nel largo cappello brizzolato di una mazza di tamburo. Il sapore non è dei più fini e la consistenza è un po' acquosa, ma è meglio di nulla. Tutti noi sono poi solitamente in grado di procurarsi una vaschetta di champignon già puliti e incellophanati, allevati nella monotona garanzia di una serra. Ma ci vogliono soldi per averli, ci vogliono capitali da investire in stage gratuiti, corsi di formazione, master, tirocini. Inoltre il loro prezzo è collegato alle fluttuazioni dei carburanti e dei fertilizzanti, alla percentuale dell'Iva e all'inflazione. Insomma, non sono poi sta gran certezza.

Per quanto riguarda le uova, per non farne una pessima frittata occorrono buone basi. Ci vuole mano ferma per non mandare all'aria la vita che contengono. Se non si possiede nulla con cui condirle e avvolgerle è meglio non averne per niente e quando poi vengono a mancare persino le patate bollite, nemmeno il potenziale di una gallina ruspante ha più alcun senso. Il capitalismo è così, è come una ruota della fortuna truccata in cui al posto di una delle cifre c'è la Grande Carestia irlandese.

Spero che i miei discorsi non vi abbiano rovinato l'appetito e che non vi abbiano fatto passare la voglia di assaggiare questa ricetta. Se invece è così e avete finito per odiare Mike Bongiorno e abbracciare l'anti-capitalismo beh...ancora meglio.

A proposito di welfare state, consiglio la lettura di questo post. E mò beccatevi una foto di me che taglio i funghi (con il ficus, imperterrito, sullo sfondo).

Nessun commento:

Posta un commento