“Oggi, nel mondo del lavoro non conta tanto il saper fare, quanto il saper essere”, ecco come la nuova docente del Cip presenta a noi, sparuta platea disorientata, il suo catechismo. E, davvero, la mole di raccomandazioni morali che mi è piovuta addosso da quando cerco lavoro mi sembra pari solo a quella che mi hanno inflitto a ridosso della cresima.
Chi pensa che il nostro sistema economico sia posseduto da una fredda anima calcolatrice si sbaglia. Al contrario, esso è fervente d’ideologia, un’ideologia che ha una morale precisa, capillare e gerarchizzata come quella di un esercito. Chi vuole farne parte deve sottoporsi al suo addestramento morale, senza il quale, come bene esemplifica la frase citata poco sopra, non viene considerato adatto.
Sii umile, è il primo comandamento, caldeggiato dal Ministro Sacconi in persona e, a scalare, da tutte le persone che ho incontrato che avevano almeno un piede nel campo delle risorse umane. La dignità sta nel fare bene il lavoro, non nella paga: mi disse un’impiegata del Cip della mia città, quando le raccontai che non avevo accettato di lavorare alla cassa di una pizzeria per tre euro l’ora.
In un mondo scolarizzato come il nostro (almeno per ora) e votato a un’economia dei servizi, la maggior parte delle persone che rispondono a un’offerta di lavoro sono, assai probabilmente, in grado di svolgere la mansione richiesta, a meno che non si tratti di un incarico veramente molto specifico. E’ un’ovvietà che nessuno, dall’alto delle mura della cittadella, si azzarda a pronunciare, poiché l’altra, pericolosissima verità è che non c’è posto per tutti.
Una fascia di popolazione giovane, istruita, frustrata e che va ingrossandosi di anno in anno è un fattore potenzialmente esplosivo, che bisogna trovare il modo di tenere ben lontano dalle fonti di calore; ma se gli si getta sopra acqua a sufficienza, è un ricco buffet.
Lo Stato getta acqua di continuo su di noi, ci irriga con master, working experience a finanziamento regionale, rimborsi spese, borse di studio. Rinunciando a gran parte della sua sovranità fiscale, permette ai nostri genitori di fornirci denaro a sufficienza per vivere senza un lavoro, perché la verità è che il lavoro per noi non c’è.
Alle aziende un alto tasso di disoccupazione giovanile conviene in molti modi, poiché crea un bacino inestinguibile da cui attingere personale colto e flessibile, giustifica la precarizzazione dei contratti di lavoro, costituisce una leva nei confronti delle istituzioni. Tutto ciò può funzionare, però, solo se si riesce a far accettare l’ideologia delle aziende, con tutti i suoi dettami morali, che è il presupposto senza cui, semplicemente, queste condizioni non sarebbero accettate. Ed ecco, quindi, il “saper essere”: saper essere affascinanti, dinamici, devoti, pronti al sacrificio, umili e miti. Non creare casini, dare il massimo, essere ambiziosi ma stare al proprio posto. Rincorrere il successo senza avere fretta, servire il superiore con piacere, non pretendere tutto ciò che ci è dovuto, perché stiamo facendo la gavetta e in ogni caso c’è chi sta peggio. Darsi da fare, soprattutto, fare stage, tirocini, corsi di lingue, di informatica, di marketing. Formarsi formarsi formarsi, per essere più appetibili e dimostrare di essere ansiosi di imparare e incapaci di ozio. Non lasciar passare il tempo, perché poi si invecchia.
Nella maggior parte dei casi non si tratta di umiltà, ma di umiliazione. Almeno spesso la vivo così. Fare colloqui per lavori dequalificati in cui se tu non chiedi del trattamento economico, di certo il selezionatore non ti dice nulla ("la dignità sta nel fare bene il proprio lavoro, non nella paga", appunto), per non parlare degli annunci; passare anche per agenzie interinali in cui, se va bene, vieni trattato con la sufficienza da "ecco un altro poveretto che viene a elemosinare un lavoro"; e poi per quelli come me che sono partite iva (sostanzialmente costrette), inseguire i clienti soprattutto quando questi spariscono al momento di pagare. Tra colloqui, prove e relazioni con datori di lavoro/clienti, le esperienze caratterizzate da professionalità, rispetto e correttezza sono davvero molto poche. E' logorante. E sfiancante. Anche perché più resti ai margini del mercato del lavoro più ne vieni spinto fuori, in quell'isolamento precario che vivi come una sconfitta personale e che non permette di formare una coscienza di classe (perché di questo si tratta!), collettiva e improntata all'azione. Sono piuttosto pessimista sul futuro. Almeno fino a quando il welfare familiare sostituirà quello dello Stato per sostenere i giovani precari o senza lavoro.
RispondiEliminaRoberto aka kzk (http://festinalente.ztl.eu)
Hai evidenziato un problema importantissimo: l'isolamento. Siamo educati all'individualismo, è una raccomandazione martellante, e siamo inoltre spesso costretti in tipologie di impiego che ci separano. E' una tenaglia che ci spinge a vivere le problematiche legate al lavoro sempre più in solitudine, come un fallimento personale, incapaci di formarci, come dici tu, una coscienza di classe. Però io non sono così pessimista. Penso che un sistema fatto in questo modo semplicemente non possa durare. Io spero che prima di arrivare alla canna del gas (cioè quando il welfare familiare, per questioni anagrafiche, non potrà più sostenerci) questa benedetta coscienza di classe ce la saremo formata. Dici di no?
RispondiEliminaEh, non lo so. Se non pessimista, almeno dubbioso... :) Il fatto è che in questo Paese, oltre alla frammentazione e alla scomposizione del mondo del lavoro, sono anni che stanno maciullando cervelli, coscienze e cultura, smantellando anche gli aspetti più basilari della convivenza civile. E ci ritroviamo ognuno davanti al proprio computer, con i contatti che spesso restano virtuali, sullo schermo, ognuno con il proprio senso di sconfitta. Ricostruire legami e comunità è (perché è un lavoro che è già atto, certo) lo sforzo più difficile che dobbiamo affrontare. Io intanto ti linko su Festina lente, così iniziamo a unire narrazioni...
RispondiEliminaRoberto
Grazie mille per il link!!
RispondiEliminaBeh, i dubbi ci stanno...ma il pessimismo no eh :)
Ricostruire legami e comunità, dici tu, e non sai quanto condivida. Purtroppo non è semplice, ci obbliga a confrontarci con la follia dilagante (non so altrimenti come definirla) e con l'apatia di buona parte di coloro che ancora tengono le rotelle a posto, nonché con la nostra . Penso anche, però, che l'alternativa non ci sia. O meglio, c'è, ma è talmente orrenda che non voglio prenderla in considerazione. Perciò, animo! Dicevano i CSI: non si teme il proprio tempo, è un problema di spazio.