Sulla riforma del lavoro attualmente in discussione non si conosce praticamente nulla. L'unico aspetto che trapela degli avvenimenti sono i rimpalli di dichiarazioni tra i vari attori in campo, impegnati a tirare dalla loro parte la coperta dell'articolo 18, una coperta che da quindici anni a questa parte s'è fatta sempre più striminzita. In un paese che negli ultimi vent'anni è precipitato in fondo alle classifiche per quanto riguarda la cosiddetta "rigidità del lavoro", e in cui licenziare è molto più facile che, ad esempio, in Francia e Germania (com'è spiegato qui), l'insistenza sulla questione licenziamenti è quantomeno sospetta e di certo priva di alcun fondamento dal punto di vista economico.
Quella portata avanti da governo e Confindustria a proposito dell'articolo 18 è senz'altro una battaglia che vuole piegare il mondo del lavoro in quello che è una delle sue conquiste più importanti e allo stesso tempo più fragili, una legge sminuita da decenni di tempi determinati, co.co.co, co.co.pro e partite IVA, uscita con le ossa rotte da una consultazione referendaria e da strumentalizzazioni sempre più barbare da parte di chi difende i lavoratori solo una tantum, salvo poi innalzare il vessillo dell'articolo 18 abbastanza in alto da fare ombra su tutte le sue mancanze. Tolto l'articolo 18, è ipotizzabile un effetto "diga che crolla" su tutto lo Statuto dei lavoratori, già sotto attacco come non è mai stato dal momento della sua entrata in vigore. E' il famoso regolamento di conti, di cui già si è parlato altre volte.
E' di stamattina la notizia che il governo punta ad una riforma che verrà stilata a prescindere dalla posizione dei sindacati. E per il momento sembra questo il centro della questione: indebolire quanto più possibile i sindacati, in vista plausibilmente di nuovi tagli "alla greca"e per dare il colpo di grazia a una CGIL già frantumata ed erosa dall'espulsione della Fiom dalla Fiat.
Questo sembra per il momento l'unico punto certo della questione, mentre sulla sbandierata riforma del lavoro per ora ci sono solo le poche idee (e confuse) di Fornero: incentivi per una maggiore applicazione del contratto di apprendistato e sussidio unico di disoccupazione al posto dei diversi sussidi che esistono ora. Per quanto riguarda il famoso nuovo contratto di apprendistato che dovrebbe risollevare la gioventù italica dalle melme della nullafacenza, per adesso possiamo notare a proposito la ricorrenza di due termini: "modello danese" e "flexsecurity", entrambi propagandati dalla coppia democratico-bocconiana Ichino&Boeri.
Il modello danese evoca certamente piacevoli sensazioni: frangranze di biscotti al burro, piste ciclabili, coste pulite e ordinate allungate in un mare ricco di petrolio e libero da barconi di clandestini. Flexsecurity invece è una parola che contiene tutto il virile rigore dei sani principi economici, quelli che premiano i giusti e castigano gli oziosi, pur avendo la bontà di non lasciarli in mezzo a una strada. Quale miglior futuro per un mondo del lavoro come quello italiano, ingarbugliato e stratificato tanto da far ammattire davvero chiunque, precari, raccomandati, pensionati, tempindeterminati, lavoratori in nero e insomma proprio tutti quanti? Occorre ordine!
E allora basta orgoglio latino, Italians do it better e altre oscenità. Da adesso siamo tutti danesi. Ma siamo sicuri che un paese segnalato tra quelli con il maggiori rischio di esplosione di una nuova bolla immobiliare sia da prendere a modello? Inoltre il modello danese sarà una gran figata in Danimarca, ma come si può pensare di applicarlo in un paese che ha dodici volte i suoi abitanti, si trova nel bel mezzo del fallimento dell'euro e oscilla tra momenti di relativa calma ed altri in cui lo spread sembra rendere - più che prossimo - imminente il default? Come si può pensarci seriamente?
A me sembra invece plausibile che il richiamo alla Danimarca, con il suo profumo zuccheroso, serva a far sì che i lavoratori abbandonino la resistenza sullo Statuto in generale (con l'articolo 18 come primo bastione che dovrebbe cadere) per affidarsi ad una tutela puramente economica da parte dello stato, una tutela non più erogata in diritti ma in denaro contante, in un momento in cui il denaro - e in particolare il denaro proveniente dalle casse statali di un paese come l'Italia - è quanto di meno certo si possa trovare.
Molto interessante il tuo articolo
RispondiEliminagrazie! :)
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