martedì 28 febbraio 2012

La rete, l'acquario, l'ampere

Siamo tutti sulla stessa barca. E' questo il refrain che i giganti dell'economia globale si ostinano a salmodiare, alzando le spalle e inarcando le sopracciglia con aria innocua. Dalle loro labbra, a pioggia, il motto giunge sulla bocca di molti che, per la verità, sulla barca non stanno per nulla. Stanno sotto, per la precisione, in quell'acqua torbida, affollata e piuttosto inquinata in cui vive la gente normale. Nel brodo, bollente d'estate e gelido d'inverno, scorgono ogni tanto il riflesso guizzante della coda di un loro simile e lo prendono per un tentativo di sabotaggio, per un atto di pirateria o per la ricognizione famelica di un pescecane.

Mentre credono di poggiare i piedi sulle solide tavole di legno di una scialuppa, in realtà al loro nadir non hanno che il nudo fondale e in alto, al posto del cielo, un vetro liquido solcato da grandi chiglie di metallo. Sopra di esse, quelli che sulla barca ci stanno per davvero scandagliano le acque. I grandi territori pescosi vengono recintati per potervi attingere quand'è più comodo. I pesci disperati, quelli che nella febbre della claustrofobia si lanciano nel vuoto più oscuro, trovano robuste reti pronte ad afferrarli e a ricondurli dove stanno la ragione, la salvezza, il progresso. Gli altri accettano di adagiarsi nelle celle che gli vengono assegnate. Quelli delle navi davvero non capiscono la differenza tra i pesci e gli insetti.

I pesci rossi - pesci di città, esito di generazioni di addomesticamento e cionondimeno di indole ribelle - vengono avviati a decenni di fabbrica. Al termine delle otto ore, ricevono un bagno nell'ambiente che è loro più consono, l'acquario. La carenza di ossigeno e le pareti sigillate, sostengono gli architetti di acquari, li mantengono docili, mansueti come le più miti tra le attinie.

Per certi pesci, però, non bastano le reti e nemmeno gli acquari. Sono specie robuste, abituate a resistere alle rapide discese dai ghiacciai di montagna, e a invecchiare negli alvei sassosi dei loro fiumi. Per loro si mobilitano gli squadroni della pesca di frodo, quelli dai modi spicci che non si tirano indietro quando si tratta di usare metodi banditi dai trattati internazionali. I bracconieri li avvelenano, li stordiscono di esplosioni, oppure li folgorano con i cavi elettrici. Quando vengono a galla, soffocati, traumatizzati o feriti, li issano a bordo per accatastarli in casse di plastica pronte per essere spedite nelle migliori pescherie del pianeta. La carpa occitana sul mercato vale una fortuna.


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