martedì 28 febbraio 2012

La rete, l'acquario, l'ampere

Siamo tutti sulla stessa barca. E' questo il refrain che i giganti dell'economia globale si ostinano a salmodiare, alzando le spalle e inarcando le sopracciglia con aria innocua. Dalle loro labbra, a pioggia, il motto giunge sulla bocca di molti che, per la verità, sulla barca non stanno per nulla. Stanno sotto, per la precisione, in quell'acqua torbida, affollata e piuttosto inquinata in cui vive la gente normale. Nel brodo, bollente d'estate e gelido d'inverno, scorgono ogni tanto il riflesso guizzante della coda di un loro simile e lo prendono per un tentativo di sabotaggio, per un atto di pirateria o per la ricognizione famelica di un pescecane.

Mentre credono di poggiare i piedi sulle solide tavole di legno di una scialuppa, in realtà al loro nadir non hanno che il nudo fondale e in alto, al posto del cielo, un vetro liquido solcato da grandi chiglie di metallo. Sopra di esse, quelli che sulla barca ci stanno per davvero scandagliano le acque. I grandi territori pescosi vengono recintati per potervi attingere quand'è più comodo. I pesci disperati, quelli che nella febbre della claustrofobia si lanciano nel vuoto più oscuro, trovano robuste reti pronte ad afferrarli e a ricondurli dove stanno la ragione, la salvezza, il progresso. Gli altri accettano di adagiarsi nelle celle che gli vengono assegnate. Quelli delle navi davvero non capiscono la differenza tra i pesci e gli insetti.

I pesci rossi - pesci di città, esito di generazioni di addomesticamento e cionondimeno di indole ribelle - vengono avviati a decenni di fabbrica. Al termine delle otto ore, ricevono un bagno nell'ambiente che è loro più consono, l'acquario. La carenza di ossigeno e le pareti sigillate, sostengono gli architetti di acquari, li mantengono docili, mansueti come le più miti tra le attinie.

Per certi pesci, però, non bastano le reti e nemmeno gli acquari. Sono specie robuste, abituate a resistere alle rapide discese dai ghiacciai di montagna, e a invecchiare negli alvei sassosi dei loro fiumi. Per loro si mobilitano gli squadroni della pesca di frodo, quelli dai modi spicci che non si tirano indietro quando si tratta di usare metodi banditi dai trattati internazionali. I bracconieri li avvelenano, li stordiscono di esplosioni, oppure li folgorano con i cavi elettrici. Quando vengono a galla, soffocati, traumatizzati o feriti, li issano a bordo per accatastarli in casse di plastica pronte per essere spedite nelle migliori pescherie del pianeta. La carpa occitana sul mercato vale una fortuna.


lunedì 20 febbraio 2012

Il modello danese

Sulla riforma del lavoro attualmente in discussione non si conosce praticamente nulla. L'unico aspetto che trapela degli avvenimenti sono i rimpalli di dichiarazioni tra i vari attori in campo, impegnati a tirare dalla loro parte la coperta dell'articolo 18, una coperta che da quindici anni a questa parte s'è fatta sempre più striminzita. In un paese che negli ultimi vent'anni è precipitato in fondo alle classifiche per quanto riguarda la cosiddetta "rigidità del lavoro", e in cui licenziare è molto più facile che, ad esempio, in Francia e Germania (com'è spiegato qui), l'insistenza sulla questione licenziamenti è quantomeno sospetta e di certo priva di alcun fondamento dal punto di vista economico.

Quella portata avanti da governo e Confindustria a proposito dell'articolo 18 è senz'altro una battaglia che vuole piegare il mondo del lavoro in quello che è una delle sue conquiste più importanti e allo stesso tempo più fragili, una legge sminuita da decenni di tempi determinati, co.co.co, co.co.pro e partite IVA, uscita con le ossa rotte da una consultazione referendaria e da strumentalizzazioni sempre più barbare da parte di chi difende i lavoratori solo una tantum, salvo poi innalzare il vessillo dell'articolo 18 abbastanza in alto da fare ombra su tutte le sue mancanze. Tolto l'articolo 18, è ipotizzabile un effetto "diga che crolla" su tutto lo Statuto dei lavoratori, già sotto attacco come non è mai stato dal momento della sua entrata in vigore. E' il famoso regolamento di conti, di cui già si è parlato altre volte.

E' di stamattina la notizia che il governo punta ad una riforma che verrà stilata a prescindere dalla posizione dei sindacati. E per il momento sembra questo il centro della questione: indebolire quanto più possibile i sindacati, in vista plausibilmente di nuovi tagli "alla greca"e per dare il colpo di grazia a una CGIL già frantumata ed erosa dall'espulsione della Fiom dalla Fiat.

Questo sembra per il momento l'unico punto certo della questione, mentre sulla sbandierata riforma del lavoro per ora ci sono solo le poche idee (e confuse) di Fornero: incentivi per una maggiore applicazione del contratto di apprendistato e sussidio unico di disoccupazione al posto dei diversi sussidi che esistono ora. Per quanto riguarda il famoso nuovo contratto di apprendistato che dovrebbe risollevare la gioventù italica dalle melme della nullafacenza, per adesso possiamo notare a proposito la ricorrenza di due termini: "modello danese" e "flexsecurity", entrambi propagandati dalla coppia democratico-bocconiana Ichino&Boeri.

Il modello danese evoca certamente piacevoli sensazioni: frangranze di biscotti al burro, piste ciclabili, coste pulite e ordinate allungate in un mare ricco di petrolio e libero da barconi di clandestini. Flexsecurity invece è una parola che contiene tutto il virile rigore dei sani principi economici, quelli che premiano i giusti e castigano gli oziosi, pur avendo la bontà di non lasciarli in mezzo a una strada. Quale miglior futuro per un mondo del lavoro come quello italiano, ingarbugliato e stratificato tanto da far ammattire davvero chiunque, precari, raccomandati, pensionati, tempindeterminati, lavoratori in nero e insomma proprio tutti quanti? Occorre ordine!

E allora basta orgoglio latino, Italians do it better e altre oscenità. Da adesso siamo tutti danesi. Ma siamo sicuri che un paese segnalato tra quelli con il maggiori rischio di esplosione di una nuova bolla immobiliare sia da prendere a modello? Inoltre il modello danese sarà una gran figata in Danimarca, ma come si può pensare di applicarlo in un paese che ha dodici volte i suoi abitanti, si trova nel bel mezzo del fallimento dell'euro e oscilla tra momenti di relativa calma ed altri in cui lo spread sembra rendere - più che prossimo - imminente il default? Come si può pensarci seriamente?

A me sembra invece plausibile che il richiamo alla Danimarca, con il suo profumo zuccheroso, serva a far sì che i lavoratori abbandonino la resistenza sullo Statuto in generale (con l'articolo 18 come primo bastione che dovrebbe cadere) per affidarsi ad una tutela puramente economica da parte dello stato, una tutela non più erogata in diritti ma in denaro contante, in un momento in cui il denaro - e in particolare il denaro proveniente dalle casse statali di un paese come l'Italia - è quanto di meno certo si possa trovare.

giovedì 16 febbraio 2012

Tre uomini

Nel lavoro di portapizze occorre mantenere la calma. La fretta infatti è una pessima compagna quando si viaggia per chilometri e chilometri su strade impregnate da quello strano sapone sporco che si forma quando la neve squagliata si impasta con il percolato. Per la fretta il cibo può rovesciarsi, formando dei pantani di ingredienti e cotture indistinguibili. E' una cosa che i clienti odiano quasi quanto i ritardi. Oppure, si può cadere. Specialmente se è tardi e si ritorna verso il locale con addosso la sensazione di aver sfamato una grossa fetta della popolazione metropolitana senza per questo essere riusciti a mettere nulla nello stomaco. Le occhiaie si fanno profonde e le braccia meno sicure alla guida. Alla milionesima curva della giornata si scivola, strisciando con le gambe e coi gomiti sull'asfalto nero.

Gli abiti, già lerci, ora sono imbevuti degli scarichi delle auto e dei rimasugli di migliaia di suole. Il ginocchio fa male, ma non in un punto preciso. E' un male esteso, che evoca dolori passati come un cane che ulula ad altri cani. Il tuo collega ti chiede come stai in punjabi, e gli rispondi ridendo, di scaramanzia. Anche lui ride. La sua faccia strana, lunga e paffuta, in realtà ride solo per metà. La metà superiore è come bloccata in una perenne indecisione. L'altro collega, quello più religioso di te, ringrazia Dio al posto tuo e poi torna a rintanarsi in un torpore malato, come fa da giorni. Le coliche renali a volte lo trascinano in ospedale, a volte lo incollano al letto. Quando è in piedi, è come avvolto in un mantello ombroso, che attutisce ogni cosa.

E il letto chiama anche te mentre i jeans ormai stringono attorno alla gamba gonfia, che strofina contro l'umido granuloso della stoffa. Il calore che percepisci nonostante la melma gelida che ti inzuppa, ti dice che da qualche parte il primo velo di pelle è stato grattato via. Finito il lavoro, sali sul motorino ammaccato e lo metti in moto. Un angolo del parabrezza è volato nell'incidente, ma per il resto tutto sembra funzionare. Cerchi di non pensare al dolore, alla vertigine che hai provato ogni volta che sei caduto, alle braccia e alle gambe che per un attimo appena, un attimo che ricordi molto bene, si paralizzano e ti imprigionano in una gabbia di nervi impotenti mentre la mente, come una telecamera a circuito chiuso, registra ogni dettaglio. Torni a casa piano, più piano che puoi, e pensi già a dormire.

lunedì 13 febbraio 2012

La rubrica cosmetico-precaria e unisex del lunedì: Fuck Glysolid

Questa settimana la rubrica del lunedì arriva puntuale, ma le tocca deviare dal suo solito topic. Leggermente in realtà, poiché sempre di roba che si prepara in cucina si tratta. Oggi non troverete consigli mangerecci, bensì una ricetta parimenti utile date le condizioni meteo degli ultimissimi tempi e che le lavoratrici e i lavoratori de fatica apprezzeranno molto.

Questa ricetta è infatti dedicata alle primissime vittime del clima sadico così come dei lavori che non offrono guanti protettivi, veri o metaforici. Parlo, ovviamente, delle mani. Sferzate dal Blizzard e dalle prospettive di recessione, le mani delle lavoratrici e dei lavoratori si trasformano in promontori norvegesi, coste frastagliate in balìa di mari tempestosi, di isole di ghiaccio alla deriva, di petroliere impazzite e di sottomarini invisibili ai radar. Le nocche vengono erose come montagne antartiche sotto l'azione delle tempeste, le unghie si ritirano in pallide lunette gommose e le dita si coprono di fessure dolenti come tronchi spaccati dalla siccità.

Per rimediare a tutto questo gli intrugli come quella specie di schiuma da intercapedini che è la Glysolid, o la bava bianca contenuta nei sempre arrugginiti dischetti di Nivea sono una pessima soluzione. Nonostante il loro ingrediente principale sia un noto antigelo - la paraffina - (o magari proprio per quello...chissà) la loro azione sull'epidermide sfiancata dal freddo o dallo stress della vita a progetto è quanto di peggio ci si possa augurare da un unguento. Ben lungi dal curare, la plastica liquida contenuta in tali prodotti ha più o meno l'effetto di una sottilissima calza di nylon su un paio di gambe: pura cosmesi, per di più - non appena urga l'esigenza della traspirazione - sudaticcia.

Pussa via quindi a Glysolid e Nivea, ed ecco al loro posto una ricettina homemade facile facile e moooolto più efficace, che ha anche l'evidente pregio di bypassare tutti quegli orrendi luoghi di pura espressione capitalistica e di precariato selvaggio quali i supermercati di prodotti cosmetici e per la casa e le catene di profumerie, per non dire poi delle fabbriche.

Trattasi inoltre di ricetta molto versatile, che ha pochi punti fissi, i quali sono l'olio essenziale di limone e la cera d'api. Per quanto riguarda il primo, è ottimo per le unghie, le fa venire dure e sane come quelle di cui devono essere dotate le aristocrazie borghesi di tutto il pianeta. E' un olio essenziale dei meno costosi, lo trovate certamente in erboristeria e su internet anche a prezzi veramente stracciati. Online (ad es su questo sito) viene 2.50 euri alla boccetta. In negozio per forza costerà di più, ma insomma regolatevi. E per avere un'idea delle proporzioni, sappiate che con una boccetta da 10 ml potete regalare mani da elfo di Lorien a tutto il vostro condominio. Per quanto riguarda invece la cera d'api, io l'ho trovata in erboristeria sotto forma di candela, prezzo anche quello sui 2 euro a candela e condominio di nuovo sistemato.

Gli altri ingredienti di cui avete bisogno sono gli olii ed anche, ad avercene, dei burri vegetali. L'olio d'oliva va bene, ma ha il vizio di rendervi odorosi di bruschetta, quindi consiglierei di usarne piccole quantità. Gli altri olii da cucina vanno benone (girasole, soia, riso, lino, sesamo - mais no) ma l'ideale sarebbe che fossero spremuti a freddo, quindi che fossero venduti nella bottiglia scura e non nelle latte o nella bottiglia trasparente. A parte il lino e il sesamo, che hanno un sapore molto forte, gli olii spremuti a freddo sono anche ottimi per fare i dolci, quindi se ne comprate una bottiglia avrete oltre all'unguento anche future crostate in quantità. Anche l'olio di cocco è ottimo, e ha il pregio di rimanere semisolido quando fa freddo, fatto che può contribuire a dare la giusta consistenza al tutto.

Se avete dei burri, poi, è meglio. Un/una parente (anche lontano) pasticcer* vi risolve il problema, perché può agevolmente procurarvi qualche grammo di burro di cacao. Nel caso non disponiate della bazza del parente, e neppure di una qualche vaga relazione di conoscenza che possa introdurvi di soppiatto (anche nottetempo, che ne so) nel mondo della pasticceria, lasciate perdere il pur utile burro di cacao e ripiegate sul karité. Questa ottimissima sostanza, se vorrete azzardare l'investimento, tornerà utile alla vostra pelle in many many ways. Lo trovate anche negli odiatissimi supermercati a prezzi modici. E ora ecco la preparazione.

Unguento anti-stress per mani elfiche

Ingredienti:
- olio essenziale di limone
- cera d'api
- olii e burri vari

La prima cosa da fare è studiare le proporzioni tra i grassi che andranno a comporre l'unguento. Tenendo da parte la cera e l'OE di limone, i grassi a nostra disposizione si possono suddividere per gradi di pesantezza: burri pesanti, olio d'oliva e di cocco medi, olio di girasole, riso, sesamo, soia leggeri. Più varietà di olii metterete e meglio è, perché ciascuno contiene delle cose buone particolari per la pelle. Per far sì che il loro amalgama non lasci la pelle unta come una sella da esposizione, occorre avvicinarsi ad ottenere il fatidico "effetto cascata", che è quella cosa che tutti i fanatici della cosmesi homemade vanno cercando come immenso premio alle loro lunghe ore di studio e alle deludenti sperimentazioni con i più esotici degli ingredienti, quelli rari persino nelle sonorità dei nomi, che sprigionano indubbie qualità poetiche e più dubbi, talvolta, valori d'efficacia.

Un'ipotesi di proporzione è questa: 40% di olii leggeri, 20% di medi e 30% di burri, a cui bisognerà aggiungere una percentuale di circa il 10% di cera. La quantità di quest'ultima dipende in sostanza da quanto viene solido l'unguento mischiando quello che avete a disposizione. Mettete gli olii, i burri e un iniziale 8-10% di cera a bagno maria, sul fuoco molto basso. La cera e i burri devono sciogliersi senza mai friggere. Quando tutto è sciolto e bene amalgamato toglietene qualche goccia e fatela raffreddare, in modo da verificarne la consistenza. Se l'unguento rimane troppo molle aggiungete altra cera. Una volta ottenuta la consistenza desiderata versate in un vasetto di vetro o di plastica, ben lavato e pulito anche con una passata di alcool. Aspettate che si intiepidisca e poi aggiungete, mescolando, l'olio essenziale di limone. Se ne avete fatto 100 grammi ne servono 20 gocce. A questo punto l'unguento è pronto e desideroso di fare delle vostre mani due adorabili appendici di salute e morbidezza, tutte da stringere, sbaciucchiare, vezzeggiare, ornare con anellazzi da gangsta o con quello che preferite. E la Nivea da ora in poi la userete solo per lucidare le scarpe, compito per cui è degnissima anzi sembra fatta apposta.

Consiglio: per unghie da graffiare le lavagne tenete l'unguento in posa dieci minuti e poi spalmate. Avvertenza: l'olio essenziale di limone è fotosensibilizzante, ovvero macchia la pelle se vi esponete al sole subito dopo averlo applicato.
Avvertenza due: per scongiurare l'irrancidimento degli olii contenuti nell'unguento il top del top è non prenderlo direttamente con le mani dal barattolo, ma utilizzare un cucchiano di plastica o una cosa così.
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venerdì 10 febbraio 2012

On the road

Oggi il capo se l'è presa di nuovo con me perché in questi giorni non mi presento al lavoro in bici, pronta per fare le consegne. Nevica, gli ho detto, pur conoscendo già la sua posizione riguardo alle intemperie. Che importa se nevica dal momento che, in città, ci sono decine di porta pizze pakistani che lavorano - in bici, a piedi o in moto - anche con le peggiori tormente? Stasera dovrei lavorare, ma starò a casa e al mio posto verrà l'amico ottimista, ad oggi più povero, saltuario e precario che mai.

E' ancora di loro che voglio parlare, di questi uomini stranieri in fondo alla catena della ristorazione, talmente in fondo che il loro posto è fuori dalle cucine, all'aperto, sempre, con ogni condizione atmosferica e di qualunque mezzo dispongano. L'importante è andare, continuare a macinare chilometri, ogni giorno, una consegna dietro l'altra. E' questa l'unica qualifica richiesta: essere capaci di andare. I nomi delle strade, i sensi unici, i semafori che si può bucare senza alcun rischio, quelli li si impara col tempo. La cosa davvero fondamentale è non fermarsi, anche sotto i colpi di questi strani venti sperduti, anche quando le macchine si rompono e restano solo le gambe.

Perché accettano tutto questo? Perché non lottano? Un leghista penserebbe che è perché sono dei miserabili incolti che non conoscono altro che lo schiavismo, mentre una persona meno spregevole direbbe che è perché non hanno scelta e senza quel piccolo reddito si troverebbero alla fame. Ma questa spiegazione non basta e inoltre cozza contro l'evidenza di grandissime esperienze di lotta del passato e di oggi, originatesi in situazioni di povertà assoluta e di enorme violenza repressiva. Allora forse il problema - pensano molti al bar - è che la povertà non è ancora abbastanza? Che quando la fame ci sarà davvero, per loro come per noi, allora la GGente tornerà in piazza? Escatologie populiste senza alcun senso.

Per prima cosa, perché é difficile pensare che questi lavoratori stranieri possano diventare più poveri di così, più precari e più perseguitati - dai datori di lavoro, dalle istituzioni, dalle mafie con cui le loro vite, inevitabilmente, finiscono per mischiarsi. In secondo luogo perché tagliano completamente fuori l'aspetto più soggettivo della lotta, quello della coscienza, una presa di coscienza che per questi uomini passa attraverso l'ammissione della più dolorosa delle verità: quella che riguarda la propria migrazione.

Nel suo "La doppia assenza", Abdelmalek Sayyad descrive la condizione del/della migrante come quella di una persona profondamente scissa. Per lasciare la sua famiglia e il suo paese di provenienza, si serve dell'immagine di un altrove ricco, giusto, dove le capacità vengono riconosciute. E' questa un'immagine costruita collettivamente, da chi è già partito, da chi parte e da chi resta, perché é necessaria a rendere possibile la migrazione, a giustificare l'abbandono. La destinazione è un luogo in cui lo sfruttamento, le diseguaglianze, l'ingiustizia sistemica (in parole povere, il capitalismo) non esistono e ciò che fa la differenza sono il talento e magari un po' di fortuna. Una landa in cui, finalmente, il destino può compiersi, un destino sempre individuale, dove sul banco degli imputati si finisce sempre in totale solitudine.

Inoltre la migrazione è sempre un fatto momentaneo e l'idea del ritorno è una presenza costante. Tutti pensano di tornare, e il loro viaggio è in funzione del ritorno, un ritorno in cui - da soli - appariranno nuovi, finalmente completi. In questo senso c'è una doppia assenza: non si è là ma non si è neanche qua, non si vive per questo luogo in cui si è arrivati. Non si è nemmeno arrivati, si sta passando.

Si tratta di una bugia talmente grande, potente e intimamente necessaria, che neppure i porta pizze che conosco, uomini adulti, a volte sulla soglia dei quaranta, poverissimi, senza alcuna reale prospettiva di miglioramento, riescono a negarla, facendo così quel passo che è fondamentale per iniziare a lottare. Ammettere che l'altrove tanto fantasticato non esiste, esiste questo Occidente irrimediabilmente ingiusto, che obbliga a raccontarsi bugie (obbliga tutti, autoctoni o meno) e che grazie ad esse deve il suo (anch'esso illusorio) stato di pace.

Sono moltissimi i migranti che lottano, con gli Italiani o portando avanti istanze legate alla loro particolare condizione, ed è superfluo che questo minuscolo blog faccia esempi. Quella di cui ho cercato di scrivere è una riflessione sugli enormi ostacoli che bisogna affrontare quando si immagina una lotta nei luoghi in cui la precarietà morde più forte, luoghi che, se non si trovassero ovunque, si potrebbe definire borderline, in cui il lavoro è qualcosa di tremendamente volatile e non c'è una reale distinzione tra l'essere o il non essere occupati. Luoghi che con la crisi che avanza andranno espandendosi.

mercoledì 8 febbraio 2012

M. e la neve. Ovvero della flessibilità

Di M. non so quasi nulla, se non che lavora per una importante finanziaria internazionale e che ha l'ufficio dietro una delle finestre del palazzo di vetro nero che l'azienda possiede.

Ci sono alcune cose, però, che posso immaginare di lei. Immagino ad esempio che nei giorni scorsi abbia guardato fuori appena sveglia, per controllare se stesse ancora nevicando e se la coltre bianca che in questi giorni è caduta sulla città si fosse dissolta o fosse ancora lì. Se abita fuori dal centro, la immagino uscire da casa molto presto, per spalare la neve e il ghiaccio accumulato sulla macchina. La immagino magari recitare un piccolo scongiuro e mettersi in viaggio meno tranquilla del solito, al momento di avviare il motore. Arrivata al lavoro, avrà scambiato qualche battuta con i colleghi a proposito del clima e poi, prima di cominciare ufficialmente le otto ore, avrà controllato i siti meteo e quelli sulla viabilità per sapere cosa aspettarsi a fine giornata. Infine avrà forse fatto una capatina su una delle decine di gallery spuntate in ogni quotidiano web della rete, per vedere la sua città dall'alto coperta di neve, o il colosseo sotto nuvole di fiocchi.

Eppure non si è fatta alcun problema a telefonare a una rosticceria che si trova a tre chilometri di distanza perché le portassero il pranzo, né ha avuto un qualche scrupolo nel reclamare per l'ovvio, inevitabile ritardo nella consegna. Perché la neve non è una faccenda metereologica con cui fare i conti, un qualcosa che ci riguarda tutti e a cui tutti in qualche modo dobbiamo adattarci. E' un fatto estetico più che altro, un argomento di conversazione e un coretto da intonare tutti insieme, a mò di saluto.

La pelle di qualcun altro, costretto ad affrontare pericolosi sottopassi, incroci ciechi, lastre di ghiaccio su due sole ruote, al solo scopo di consegnare un pranzo, non è un argomento, non è una questione. La questione è la pausa pranzo, e quella non cambia a seconda dei capricci delle perturbazioni. Eccola la flessibilità: non si tratta di adattarsi alle mutate condizioni globali (che siano sociali, economiche, climatiche, energetiche...), ma di spalmarsi sulle necessità di chi ha in mano il denaro e il potere. Chi si trova in posizione di superiorità detta le condizioni. E' questa la flessibilità.

Di recente il capo mi ha sostanzialmente imposto di fare le consegne. Non avendo il motorino gli unici mezzi a mio disposizione sono la bicicletta e le gambe. Il secondo giorno del "nuovo corso" mi ha spedita in un ufficio piuttosto lontano, carica di cibo e bevande. Ovviamente mi sono infuriata. Gli ho detto che non poteva farmi rischiare in quel modo e che una bicicletta non è un motorino. Una cosa che anche un bambino di tre anni riuscirebbe a capire. Va bene, mi ha detto e ci siamo più o meno accordati.

Quella sera stessa ho incontrato almeno tre ragazzi stranieri che facevano le consegne in bici. Non ne avevo mai visti così tanti. Uno di loro teneva la borsa delle pizze appesa al manubrio pedalando a gambe larghe. Un altro guidava con una mano sola, e con quella libera reggeva un sacchetto pieno di vassoi d'alluminio e dall'aria molto pesante. Allora ho capito cosa aveva in mente il mio capo.

Da quando la benzina ha raggiunto prezzi esorbitanti, sono evidentemente sempre di più coloro che scelgono di abbandonare l'assai più riposante e sicuro motorino per preferirgli la bici. Il costo del carburante è a carico di chi fa le consegne, e basta un aumento di pochi centesimi nel prezzo al litro della benzina per erodere uno stipendio già miserabile. Visto che mai e poi mai il datore di lavoro accetterà di contribuire alle spese, meglio rischiare la testa guidando con una mano sola. E' così che si è flessibili.

Comunque gli affezionati del cibo a domicilio possono sentirsi a posto con la coscienza: quando nevica troppo forte le consegne si fanno a piedi. Anche una decina di consegne per sera. Anche a uno o due chilometri di distanza. Buon appetito.

lunedì 6 febbraio 2012

La rubrica culinar-precaria del lunedì: un piatto gioviale

Terzo episodio della rubrica culinar precaria tutt'altro che settimanale del lunedì. Ho deciso di scendere a patti con il fatto che non ho tempo e di far uscire un post-ricetta solo quando me ne viene uno decente, congiuntura che purtroppo non si verifica ogni sette giorni. La mia ghiottoneria malauguratamente procede più svelta delle dita sulla tastiera, e quindi di ricette golose ne avrei a bizzeffe, ma non riesco a scriverne.

Anyway, la ricetta di questa settimana, se vorrete provarla, vi stupirà. Trattasi infatti di un insieme di ingredienti semplicissimi, essenziali, direi persino SOBRI, che, però, cucinati con senno e annaffiati da un buon rosso finiscono per sprigionare sapori più che rispettabili e indurre immancabilmente i commensali a una giovialità spontanea, de core, che non fa rimpiangere alcuna portata. Anche questa scoperta la devo al libro Pentola d'oro, che ho già abbondantemente ringraziato a suon di pacche sulla copertina.

La prima faccenda positiva di questa ricetta è che ha un prezzo precario-friendly, una roba che pure i più squattrinati, pure quelli a progetto, forse persino gli stagisti si possono permettere. Il secondo pregio è che va d'accordo coi vegetariani, pur rimanendo di larghe vedute e apertissima a eventuali aggiunte di derivazione animale, e nello specifico suina.

Riso e lenticchie

Ma come? Tutto qui? Eh, provate e vedrete.

Ingredienti:

- Lenticchie secche meglio se grandi, decisamente meglio
- Riso per risotti
- Cipolla (ma anche carote e sedano, se volete)
- Prezzemolo
- Passata di pomodoro
- Alloro e pepe a go go

Avendo poco in casa, la mia versione di questo piatto è quella più scarna possibile, ma non penso che la cambierò. Si fanno soffriggere la cipolla e il prezzemolo, poi si mettono in pentola le lenticchie lavate, facendole tostare un pochino. Quindi si aggiungono il pomodoro, l'alloro e dell'acqua, e si sala. Se sete degli inguaribili romantici e non volete rinunciare ad aggiungere un tocco di pasion maialesca (che in effetti la Pentola raccomanda), a questo punto potete introdurre un pezzo di cotenna o di pancetta o quel che vi pare.

Fate cuocere le lenticchie e quando sono cotte ma ancora leggermente al dente (l'importante è che non siano ancora arrivate a disfarsi) aggiungete il riso, controllando che ci sia abbastanza acqua. Quando anche il riso è cotto andate giù di pepe a manetta, e servite con un filo d'olio, il bicchiere di vino già citato e una salutare indifferenza nei confronti del bon ton che vieterebbe i gomiti appoggiati sulla tavola, le posture scomposte e i piedi appoggiati sui pioli delle sedie.

Grazie alle lenticchie e ai preziosi amidi del riso recupererete le energie dopo una giornata trascorsa a sbarcare il lunario nella maniera che si confà a quella che vi è toccata tra le 46 tipologie contrattuali che esistono nel mondo del lavoro italiano. Se siete disoccupati, rifocillerà i vostri stomaci a un passo dall'ulcera e allontanerà lo spettro di una fastidiosissima dipendenza dal Malox, facendo tornare sulle vostre guance il colorito del buon vivere.

Inoltre questo piatto vi darà la sensazione nettissima di possedere un sapere che i tanti gourmand del cibo reality, per quante puntate e per quanti volumi abbiano al loro attivo, non arriveranno mai ad avere.

mercoledì 1 febbraio 2012

Viaggio nei bassifondi del cottimo digitale

Come ho già cercato di dimostrare in altre occasioni (e come hanno fatto altri meglio di me) il mondo della rete non differisce affatto dal "mondo reale", cioè dal mondo materialista composto di carne e membra affamate da cui internet, grazie all'immaginazione di qualche guru col talento dell'informatica, si sarebbe originata. I deliri millenaristici di Casaleggio&Grillo, così come i più genuini slanci di molti che confidano nella rete affinché renda gli umani del XXI secolo consapevoli e attivi, sono del tutto illusori e figli di una visione che ha completamente assorbito il verbo che così Carlo Formenti ha riassunto (qui): "innovazione è la parola magica con cui vengono legittimate le peggiori malefatte della cultura liberal liberista." E' in quanto consumatori che adoriamo internet e tutte le meraviglie che ci propone, rifiutandoci di scorgere, al di là della cortina di pixel, il lavoro di chi la rete ogni giorno la costruisce.

E come ogni luogo governato dal capitalismo, anche internet ha le sue zone bene, i suoi quartieri residenziali, quelli della movida più cool e anche i suoi bassifondi. I bassifondi della rete brulicano di precarissimi lavoratori alla ricerca di un tozzo di pane, disposti a qualunque infimo incarico pur di guadagnare qualche dollaro. Le loro ombre si allungano sulle schermate di annunci dei siti di outsourcing, e le loro freccette cliccano disperatamente in risposta anche alle peggiori proposte.

I datori di lavoro che si azzardano fino in queste lande malfamate, come accade nella realtà, hanno spesso necessità relative alle sfere più oscure della vita, prima fra tutte il sesso. Su Odesk, per esempio, può capitare che qualcuno abbia bisogno di scrittori dalla fervida fantasia, che redigano storie erotiche per 15000 parole totali in cambio di 100 dollari (qui). Ma c'è pure di peggio: per 10 storie a tema omoerotico, ciascuna di 10 pagine, il prezzo varia dagli 80 ai 150 dollari (qui). Evidentemente, come nel cosiddetto mondo reale anche in rete l'omosessualità è meno quotata di un sano comportamento etero. Capita persino di dover moderare dei forum sulla pornografia (qui), e c'è da scommettere che il budget indicato non è giornaliero.

Immagino che sapere che dietro a un raccontino arrapante o alla moderatrice master super-sexy si trovano dei lavoratori e delle lavoratrici filippini o indiani, abbruttiti da ore di lavoro davanti al pc e, magari, anche dalla convivenza forzata con un fuso orario tarato su utenti che si trovano dall'altra parte del globo, incrini un po' l'incantesimo.

Ma ci sono altre due cose che non possono assolutamente mancare in ogni bassofondo che si rispetti: le droghe e le bische. Non essendo un'appassionata di stupefacenti di sintesi, non ho una gran conoscenza di come funzioni quel mercato, ma basta fare una ricerchina per saperne di più. Del mondo delle bische online, invece, ho una conoscenza diretta e una frequentazione quotidiana da ormai quasi un anno. A differenza di quella della droga, l'industria delle scommesse via internet è piuttosto potente e fattura diversi miliardi di dollari all'anno nonostante il suo mercato più ricco, quello statunitense, sia di fatto proibito dal 2006, anno in cui il gioco via internet è stato sostanzialmente messo fuori legge. Per questo, è alla continua ricerca di mercati in cui espandersi e preme sui governi dei paesi più reticenti affinché legalizzino la sua azione. Negli USA, la lobby del gioco ha alle sue dipendenze senatori e governatori di singoli stati, e sta cercando di forzare paesi vastissimi come ad esempio l'India ad aprire il loro mercato.

L'Italia ha dato via libera all'impresa privata in questo campo a luglio del 2011, ed è a causa di questo cambiamento legislativo che io sono finita a lavorare coi casinò online. Occorrevano infatti madrelingua italiani per produrre contenuti pubblicitari e SEO oriented, al fine di preparare il terreno per i big che stavano per lanciarsi sul nostro web, e per sostenere la loro avanzata una volta varcati i confini. Anche se guadagno più dei giornalisti precari da 4 euro al pezzo, non posso dirmi certo ben pagata, anche considerando il fatto che il lavoro è praticamente stagionale. Durante le festività e le vacanze estive, infatti, aumenta, perché la gente ha più tempo, è più sola e quindi scommette di più. E' proprio sui periodi di festa che i casinò investono molte delle loro risorse, lanciando offerte particolarmente ghiotte, realizzando giochi ad hoc o organizzando tornei che riempiano le serate malinconiche dei giocatori. Mentre questi ultimi, nella solitudine delle loro case, sperperano le tredicesime su slot a tema natalizio, di fronte a qualche altro pc c'è una precaria che ringrazia e che, tra un articoletto e l'altro, fa una capatina in qualche luccicante e-shop del centro.