
mercoledì 28 dicembre 2011
Fincantieri in crociera

martedì 27 dicembre 2011
L'acqua, il fuoco e la ruggine. Appunti sulla Liguria che brucia, si allaga e resiste


sabato 24 dicembre 2011
Happy Birthday
sabato 17 dicembre 2011
La mancia

Poi torno in me e penso che di quegli spiccioli non ne ho davvero bisogno, a differenza dei miei colleghi. Che mi regalerebbero solo la demente soddisfazione di un guadagno in apparenza emancipato dalla tasca del padrone. Così me ne torno in pizzeria ribadendo alla me stessa di un attimo prima - immemore dell'ingiustizia costitutiva del capitalismo - "plusvalore, plusvalore, plusvalore...".
venerdì 16 dicembre 2011
Su Torino, una poesia di Cesare Pavese
Tutti i gran manifesti attaccati sui muri,
che presentano spra uno sfondo di fabbriche
l'operaio robusto che si erge nel cielo,
vanno in pezzi, nel sole e nell'acqua. Masino bestemmia
a veder la sua faccia più fiera, sui muri
delle vie, e doverle girare cercando lavoro.
Uno si alza al mattino e si ferma a guardare i giornali
nelle edicole vive di facce di donna a colori:
fa confronti con quelle che passano e perde il suo tempo,
ché ogni donna ha le occhiaie più stracche. Compaiono a un tratto
coi cartelli dei cinematografi addosso alla testa
e con passi sostanti, i vecchiotti vestiti di rosso
e Masino, fissando le facce deformi
e i colori, si tocca le guance e le sente più vuote.
Ogni volta che mangia, Masino ritorna a girare,
perché è segno che ha già lavorato. Traversa le vie
e non guarda più in faccia nessuno. La sera, ritorna
e si stende un momento nei prati con quella ragazza.
Quando è solo, gli piace restare nei prati
tra le case isolate e i rumori sommessi
e talvolta fa un sonno. Le donne non mancano,
come quando era ancora meccanico: adesso è Masino
a cercarne una sola e volerla fedele.
Una volta - da quando va in giro - ha atterrato un rivale
e i colleghi, che li hanno trovati in un fosso,
han dovuto bendargli una mano. Anche quelli non fanno più nulla
e tre o quattro, affamati, han formato una banda
di clarino e chitarre - volevano averci Masino
che cantasse - e girare le vie e raccogliere i soldi.
Lui Masino ha risposto che canta per niente
ogni volta che ha voglia, ma andare a svegliare le serve
per le strade, è un lavoro da napoli. I giorni che mangia,
porta ancora con sé pochi amici a metà la collina:
là si chiudono in qualche osteria e ne cantano un pezzo
loro soli, da uomini. Andavano un tempo anche in barca,
ma dal fiume si vede la fabbrica, e fa brutto sangue.
Dopo un giorno a strisciare le suole davanti agli affissi,
alla sera Masino finisce al cinema
dove ha già lavorato, una volta. Fa bene quel buio
alla vista spossata dai troppi lampioni.
Tener dietro alla storia non è una fatica:
vi si vede una bella ragazza e talvolta c'è uomini
che si picchiano secco. Vi sono paesi
che varrebbe la pena di viverci, al posto
degli stupidi attori. Masino contempla,
su un paese di nude colline, di prati e di fabbriche,
la sua testa ingrandita in primissimi piani.
Quelli almeno non danno la rabbia che danno i cartelli
colorati, sugli angoli, e i musi di donna dipinti.
da Poesie del disamore
domenica 11 dicembre 2011
Fare l'amore a Torino. Torino brucia

L'astuzia femminile - quella terrificante qualità su cui basano il loro potere le matrigne delle favole - è frutto della discriminazione. Si tratta di spremersi le meningi alla continua ricerca di soluzioni, per ritagliare uno spicchio di spazio per te e per salvarti quando, invece, ti scoprono. Inventare intricati castelli di balle per trascorrere la notte con il ragazzo che ti piace, o anche solo per uscire con lui. Tenere sotto controllo le telefonate dei genitori, scegliere la giusta linea dell'autobus per non rischiare di incontrare qualcuno, valutare con attenzione un luogo sicuro in cui scambiarsi baci e carezze. E quando questo non basta, avere un piano B, che dev'essere sicuro però, deve riuscire dove tutto il resto ha fallito, dev'essere il proverbiale asso nella manica: la bugia con il più alto valore possibile.
L'ultima carta per questa ragazzina messa alle strette è stato uno schifoso impasto di razzismo, classismo, senso dell'onore usato come rifugio e come giustificazione al sempiterno desiderio di segregare le donne, voglia di riscatto e ricerca di una coesione facile, ready made, raccolta per strada. La narrazione di una società immiserita e frantumata, che cerca se stessa nelle pagine di giornali che sempre più sfacciatamente approfittano delle sue debolezze per compiacere il potente di turno, il quale in vista delle prossime elezioni legge e ringrazia. Quello che questa ragazzina sa del mondo in cui vive, quello che ha intuito con i suoi occhi attenti che cercano appigli, è che sul suo reazionarismo potrà sempre contare per salvarsi in corner.
Qui lo storify di @jumpinshark su tutta la vicenda.
martedì 6 dicembre 2011
Giovani e vecchi

Come ha raccontato Loredana Lipperini nel suo Non è un paese per vecchie, i pensionati italiani sono i più poveri d'Europa. Eppure tagliare sulla loro pelle sembra giusto, sembra necessario, anche se è tanto triste. Largo ai giovani, si dice, sono loro che stanno pagando la crisi. In tempi così duri, ci vogliono provvedimenti altrettanto netti, che spazzino via il vecchiume e facciano sopravvivere quello che merita. L'importante è prendere le scelte più difficili con la tenerezza nel cuore, e un po' controvoglia.

domenica 4 dicembre 2011
Incubi e deliri (precari)
Ora invece oscillo tra periodi di sonno piuttosto regolare ed altri in cui l'insonnia viene a tirarmi le coperte, in compagnia dei più odiosi dei suoi parenti: gli incubi. Gli incubi che si accompagnano all'insonnia sono di un genere che si muove a sciami. Si susseguono a volte per diverse notti consecutive e lasciano la mente spossata e i polmoni esausti, strizzati come spugne, dopo lunghe sessioni di tempo incosciente trascorse a inseguirli.

Nonostante il mio vero letto si trovi al sicuro tra le quattro mura e il solido pavimento della mia stanza bolognese, non posso fare a meno di pensare che questo sogno rispecchi piuttosto bene la realtà. L'unico errore del mio inconscio è stato quello di immaginare che su quel cornicione vivessi da sola.
Eccoci, noi stormo di precari terrorizzati dal vuoto, costretti a vivere appollaiati come uccelli senza averne le ali. Incapaci, spesso, di dormire davvero, sporgendoci da sotto le lenzuola controlliamo compulsivamente il ciglio della nostra postazione. Il precario-piccione è una nuova figura di insonne, del tutto particolare: non sa volare ma dimora ugualmente nei luoghi più impervi, ad altezze vertiginose. Tuttavia la sensazione che prova nel raggiungere i suoi giacigli nei picchi non è quella dell'innalzamento, ma quella della profondità, dello sbalzo terribile che ti trascina giù, con fatale puntualità. Al piano terra, sussurrano voci da dentro i palazzi, da qualche tempo non c'è più posto proprio per nessuno.

giovedì 1 dicembre 2011
Achtung, Libero!

Come ribellione a questo coro di cinguettii sciocchi, portatori del sessismo della nostra epoca, quello che vuole proteggere il diritto delle donne a scopare e che, così facendo, continua a schiacciarle sul loro sesso, Loredana Lipperini ha proposto il silenzio. Purtroppo invece, penso io, il nostro silenzio non gioverebbe affatto alla nostra causa, che è quella di far sparire la discriminazione tutta, compresa quella che digitano, distrattamente, molti di coloro che ieri hanno riso delle teorie di Langone. Non lo so se si può davvero agire nel bel mezzo di quel genere di ubriacatura da TT - una cosa che su Twitter ultimamente vedo accadere sempre più spesso e che mi inquieta non poco -, ma forse vale la pena tentare.
Un altro motivo per cui di questo tizio e di quelli come lui bisogna parlare, è perché non rappresentano affatto la vocina di una sparuta combriccola di maniaci del Medioevo, un fenomeno che starebbe bene in un museo sull'Inquisizione spagnola. Sono, invece, personaggi che hanno un ruolo politico, che è quello di andare a solleticare i pruriti più orrendi di quello che è il target di Libero, che non è certo limitato ai seguaci di Padre Tam. E' questo il punto. Qual'è il target di questo giornale apparentemente tanto "di nicchia"?
Vi basti sapere che Libero viene distribuito gratuitamente, almeno qui a Bologna, in almeno uno dei più grandi alberghi in cui tipicamente alloggiano manager, medici e altri professionisti in viaggio di lavoro. A costoro il quotidiano di Langone e Belpietro viene fatto trovare sul tavolo insieme alla colazione. Ecco chi sono i lettori su cui Libero punta, professionisti di profilo abbastanza alto, solitamente uomini, che ricoprono ruoli dirigenziali o comunque fanno lavori che li rendono molto visibili e influenti. Come ho già raccontato, io di lettore di Libero ne conosco uno solo, ed è un medico. Non un monaco orripilato dalla vita moderna, ma una di quelle tipiche persone a cui, in una piccola città, qualcuno prima o poi chiede di far parte di una lista elettorale, e spesso anche, come passatempo serale, di entrare nella massoneria locale (non scherzo).
Su Langone - il cui incredibile ritratto era già stato scattatto mesi fa dal fantastico Mazzetta - posso anche ridere, ma su quelli che leggono i suoi articoli, magari trovandoli, sotto sotto, stuzzicanti, no.
mercoledì 30 novembre 2011
Precariato e influenza
Se avete un contratto a progetto, può capitare che il vostro datore di lavoro sia uno di quei padroni di buon cuore, che vi tiene a progetto perché - dice lui - non è che può fare altrimenti, con i tempi che corrono. Allora non se la prenderà se non vi recate al lavoro per un giorno o due, e non vi decurterà l'assenza dal già magrissimo mensile. Piuttosto, utilizzerà la sua generosa concessione come un argomento per dimostrare che ok, sei a progetto, però è come se ce le avessi le tutele, è solo che così paghiamo meno tasse, però vedi che poi la malattia, per esempio, ce l'hai. Codesti padroni di solito non assumono donne perché hanno il problema che restano incinte, e vi preferiscono anche se non siete del sud, non tanto per razzismo quanto per il fatto che più è lontana la vostra famiglia e più potrebbe venirvi la voglia di chiedere le ferie.

Se siete dei portapizze, magari pakistani, andrete al lavoro lo stesso. Un paio di giorni di assenza, con la concorrenza che c'è, possono costarvi il posto e così, nonostante il lavoro che fate vi porti ad ammalarvi anche più degli altri precari, passerete come al solito la giornata a cavallo di un motorino, con l'aria fredda che vi taglia gli occhi e le guance. Butterete giù una tazza di té al cardamomo sperando che vi preservi dalla polmonite che, tra le sigarette e il lavoro, non smette un attimo, per tutto l'inverno, di seguire i vostri passi.
Se invece siete pagate ad ore e per di più in nero, vi farete un sacco di paranoie. Dopo una buona mezz'ora di titubanza, chiamerete il vostro capo e, nella nebbia della febbre, scambierete il suo "Non preoccuparti, ce la facciamo" per una formula di licenziamento. Passerete tutta la mattina a implorare un'entità qualunque affinché ingolfi il telefono di chiamate, faccia andare il tilt la cassa e magari renda anche i colleghi improvvisamente muti e alieni alla lingua italiana. Qualunque cosa riesca nell'intento di far capire al capo che voi, ancorché generiche e superprecarie, servite.
Se invece vi trovate nella condizione di non avere neanche uno straccio di lavoro, nemmeno la partita IVA, neanche un rimborso spese simbolico, l'influenza rappresenterà per voi una magnifica occasione di vacanza. Finalmente potrete passare una giornata a leggere, a scrivere o a fare quello che vi pare - almeno negli intervalli tra un pisolino febbricitante e l'altro - invece che trascorrere il vostro tempo tra interinali, colloqui più o meno fittizi, trame relazionali che potrebbero, forse un giorno, materializzarsi in una vaga possibilità di collaborazione occasionale. Ve la godrete, l'influenza, come quella tregua che cercate da tanto, come il poter riposare senza sensi di colpa, senza il dubbio, martellante, di essere causa del vostro stesso male.
In ogni caso, sia che abbiate accolto con favore o meno l'influenza, sappiate che forse ve la siete presa da un portapizze che ha starnutito sul vostro pranzo.
sabato 26 novembre 2011
Chi ha paura dei poveri?

Niente scava più distanza tra la ricchezza e la povertà della beneficenza, ma la beneficenza fatta per interposta persona, mica quella dei cinque euro messi in mano al Senegalese che vende i libri per strada: quello ti viene tanto vicino che puoi vedere le sue labbra spaccate, i suoi occhi stanchi, i suoi denti rosi dalla carie. E ti vengono i brividi, perché lo sai di avere un dente cariato pure tu, ma per andare dal dentista hai deciso di aspettare tempi migliori. Prende il tuo stesso treno, il Senegalese, perché come te abita fuori città, dove l'affitto costa meno. Nei giorni feriali avete più o meno lo stesso odore. Certe mattine daresti una mano per non incontrarlo mai più. Daresti un pacco di biscotti al giorno, per tutta la vita, per non incontrarlo mai più.
Dedicato a tutti coloro che oggi, giornata nazionale della colletta alimentare, se la sono presa con i Wu Ming pur di non ammettere che l'evento sia organizzato da CL e che non sia, quindi, pura emanazione della bontà sociale, cui affidare ciecamente la propria offerta apotropaica. Immagino facciate parte dell'85% di italiani che si dicono spaventati dal futuro. Ne faccio parte anch'io, in pieno. Ho anche paura dell'aereo, degli incendi, dei botti di capodanno, dell'autostrada e se sono da sola a casa anche il buio mi inquieta un po'. Ma la paura dei poveri è troppo vigliacca persino per me.
giovedì 24 novembre 2011
Di cameriere, statistiche, uomini che costruiscono falli con la verdura e violenza di genere

La molestia non è qualcosa di riducibile al suo semplice aspetto sessuale. Quando un cliente, un passante, un professore o chicchessia ti rompe le ovaie a proposito del tuo culo, del tuo bel visino o di qualunque altra cosa, non ti sta, ovviamente, facendo un complimento, e fin qui ci siamo. Sta facendo di te un oggetto, e questo è certo, ti sta dicendo, sotto sotto, "tu sei mia se lo voglio". Ma non solo, sta anche dicendo "il tuo bar è mio, questa strada è mia, le aule in cui studi sono mie", Sta esprimendo la sua supremazia sui tuoi luoghi, sul tuo tempo, sulle cose in cui investi le tue energie e sulle tue necessità.
Il tuo corpo e la tua mente puoi sottrarle ad un uomo, difendendoti da lui. Ma il tuo luogo di lavoro? La tua università? Le strade in cui cammini? Tu, da sola, non basti. Puoi schivare il viscidume degli uomini mostrandoti particolarmente antipatica, ma non puoi impedirgli di dettare legge dove trascorri il tuo tempo, dove impari, dove ti guadagni da vivere.
E anche se sono d'accordo con la maggior parte di quanto scritto dall'autrice di questa magnifica lettera, non credo affatto che ciò di cui abbiamo bisogno siano luoghi protetti, rifugi in cui costruire le nostre vite, al riparo. Quello che ci vuole, credo, è invece un'alta marea che affoghi tutti coloro che, appesantiti dai loro ego gonfi di testosterone, non siano capaci di smetterla; un'ondata che, ritirandosi, scopra finalmente strade in cui possiamo camminare in pace, e bar in cui possiamo servire birre su birre senza doverle contare, senza dover monitorare lo stato alcolemico dei clienti per evitare che ci rovinino l'ennesima serata.
Io sono stata fortunata. Per una settimana è venuto a lavorare in pizzeria un cuoco amico del mio capo, uno di quegli uomini che amano riempire l'aria attorno a sé del frastuono delle loro battute, del chiasso dei loro doppisensi, urlati e ripetuti solo perché urlare e ripetere "io sono maschio e tu no" risulterebbe alla lunga poco divertente persino alle orecchie di quegli imbecilli dei loro amici. Sapendo che questo atteggiamento da primate, ovviamente, mi infastidiva, il cuoco lo perpetrava in mia presenza persino con maggiore convinzione. Le sue eccezionali affermazioni di virilità consistevano, ad esempio, nell'innalzare in cucina sculture vegetali in cui a spiccare, tipicamente, erano grosse carote piantate in verticale, posizionate dove io potessi ritrovarmele proprio davanti agli occhi. A causa delle sue simpatiche trovate ho passato una brutta settimana. Per fortuna, ripeto, il tizio è rimasto solo qualche giorno, ma se non fosse andata così? Che avrei fatto?
Nonostante l'apparenza irsuta, il testosterone è un ormone debole, basta poco per mandarlo in crisi. Per lo stesso principio, dovrebbe essere tutt'altro che impossibile insegnare ai ragazzi a non molestare, a lasciare in pace le loro simili. Per quando riguarda molti uomini adulti, credo che l'unica cosa saggia da fare sia evitare che nuociano e attendere che il tempo ce ne liberi, ma i ragazzi?
Ancora una volta, non siamo noi donne a dover imparare, non siamo noi che sbagliamo, sono gli uomini. E allora, che siano loro a fare i corsi di recupero, che siano loro i destinatari delle pubblicità progresso, delle statistiche e dei volantini sulla violenza di genere. I luoghi in cui si verbalizza la violenza, in cui la violenza appare e viene discussa, sono solo ritagliati su di noi, sono solo nostri. La violenza di genere non è nostra, è loro, da sempre.
Questo post arrabbiato e sconclusionato è stato ispirato da quest'altro post di Lipperatura, a sua volta collegato all’uscita delle inquietanti statistiche sulla violenza di genere subita dalle studentesse dell’Alma Mater di Bologna.
lunedì 21 novembre 2011
Working poors
L'amico che lavora con me ha fatto un incidente proprio qualche giorno fa. Il mio primo pensiero, quando l'ho saputo, è andato alla sua testa e alle sue gambe, ma il pensiero successivo, una frazione di secondo dopo, andava già al suo motorino. Non si è fatto molto male, ma il manubrio non risponde più come dovrebbe e i soldi per aggiustarlo - così come l'assicurazione - non ci sono. Quella mattina, dopo aver fatto le ultime consegne su un motorino rotto, il mio amico è tornato a casa per bere un bicchiere di latte e zafferano contro il dolore.

Ogni tanto, qualcuno a cui lui deve dei soldi si fa vivo alla nostra porta, o lo costringe a lunghe telefonate. Ci sono volute parecchie centinaia di euro di pizzo soltanto perché potesse avere la residenza a Bologna, e quindi il permesso di soggiorno. Ieri ha deciso di rivolgersi a suo fratello in Pakistan, perché gli spedisca qui, nell'Italia del suo sfortunato approdo, quello che laggiù è l'equivalente di un anno di stipendio. Per lo strazio non mangia quasi nulla e i suoi capelli, già bianchi, sono diventati ancora più ispidi.
C'è qualcosa di così insopportabile nella sua fatica che a volte è meglio fingere che non ci sia. Scherziamo come se niente fosse. Non so se sia per questo, ma certe mattine mi sembra persino allegro. Forse gli piace specchiarsi nel mio brontolio leggero, di chi non ha pensieri troppo gravi, e immaginarsi libero, quantomeno, da alcune delle sue catene.
domenica 13 novembre 2011
Dead Land Walking

Repubblica, con la nonchalance di uno Zelig che sa di fare propria sempre l'immagine del più forte, ha già preso a salmodiare la propaganda del nuovo governo: il gigantesco post-it con cui, a quanto pare, ha intenzione di ricoprire un paese intero.
Nel film La città incantata, c'è una scena che mi ha sempre colpita moltissimo: la bambina protagonista, Chihiro, ha appena visto i suoi genitori puniti da un incantesimo e si ritrova da sola in mezzo a una folla di spiriti che sembra travolgerla. Non solo, ma si accorge anche che il suo corpo sta perdendo consistenza e che è sul punto di scomparire del tutto. Un abitante della città incantata, il maestro Aku, la scorge e le offre una bacca da mangiare. Grazie ad essa Chiriro piange enormi lacrime di paura e torna visibile, pronta ad affrontare il duro lavoro che la aspetta per riconquistare la libertà per sé e per i suoi genitori.
Oggi penso che anche a noi occorrerebbe una di quelle bacche, così potremmo piangere per noi stessi, per i nostri errori, per le nostre incertezze, per la povertà che già viviamo e per quella che ci aspetta. Dopo aver versato le nostre lacrime, potremmo finalmente spogliarci dell'abito funebre che già ci hanno fatto indossare nella certezza di seppellirci, e così ritrovare la nostra voce per parlarci e le nostre braccia per rimboccarci le maniche.
venerdì 11 novembre 2011
Segni
Poi è venuto al lavoro, in pizzeria, e si è licenziato. Il capo gli ha risposto semplicemente "Perfetto". Stamattina, giorno di fenomenali congiunture numerologiche, ha ricevuto una telefonata in cui confidava da tempo. Il fatto che sia venerdì, giorno sacro, non ha fatto altro che rafforzare la sua fiducia. Trascorrerà il pomeriggio, nella pausa del lavoro, in moschea a ringraziare Allah per ciò che già gli ha dato e ad implorarlo di non chiudergli la via.
Il mio amico è una persona talmente straordinaria che, nel buio più fosco, è capace di scorgere presagi positivi tra le foglie degli alberi. Io non gliel'ho detto, ma ho paura che questo 11.11.11 sia una gran truffa, l'ennesimo abbaglio dell'essere umano, però gli invidio il coraggio e la gentilezza delle sue speranze.
Un venerdì notte, mi ha raccontato, ha sognato che mi vedeva partecipare a una gara di corsa e tagliare per prima il traguardo. Non lo so a che si riferisse, dato che l'unico traguardo che ho davanti al momento è quello di pagarmi con le mie forze tutte le spese, e non sono nemmeno certa di farcela. Forse qualcosa di più lontano, qualcosa che ancora non vedo.
mercoledì 9 novembre 2011
La brutta aria

Ebbene, in questo piccolo mondo la scossa degli spread a 575 punti, del tetro ritrarsi di ogni parvenza di democrazia, dei rendimenti che già gli strozzini globali hanno messo da parte la benzina per darti fuoco alla macchina, s'è sentita eccome. Ieri sera e stamattina il telefono ha squillato appena per qualche ordine dietetico, in due momenti della settimana da mesi sempre ruggenti. I clienti più danarosi - grossi uffici occupati da compagnie finanziarie e assicurazioni - hanno pranzato in bianco, senza andare minimamente a scalfire le nostre scorte di sughi e primi fastosi. In cucina, invece del rumore secco delle padelle, si udivano suoni fruscianti di pulizia e voglia di smobilitazione. Il capo, in uno dei suoi consueti sproloqui politico-gastronomici, si è persino messo a blaterare di anticapitalismo e a sfanculare la Marcegaglia, che il baratro lei lo vede forse in fotografia.
Insomma, io non lo so se la due giorni più sfigata della mia carriera di cassiera, caduta proprio nel momento in cui più si fanno scure le ombre sul futuro del paese, sia solo una coincidenza. Fatto sta che nella piccola Italia di questa scalcinata pizzeria di Bologna tira una brutta, bruttissima aria.
Qui un interessante schema che spiega quali sono i paesi più esposti nei confronti del debito italiano e, quindi, quelli più interessati a prolungare ad libitum la nostra agonia finanziaria.
martedì 8 novembre 2011
Articolo 2. Diritto alla vita
I burocrati delle istituzioni europee e del FMI infatti sono già nascosti dietro alle tende, per infliggerci quella che sarà certamente una delle più memorabili feste a sorpresa della nostra epoca. Gli stessi burocrati che nella loro Convenzione per i diritti dell'uomo (CEDU, poi inserita attraverso la Carta dei diritti fondamentali della UE nel Trattato di Lisbona) così scrivevano a proposito del diritto alla vita:
"Articolo 2 - Diritto alla vita
1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena.

resosi assolutamente necessario:
a. per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale;
b. per eseguire un arresto regolare o per impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta;
c. per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione."
Attenzione a non festeggiare troppo, da sbronzi non si può dormire con un occhio aperto. Intanto a Londra già la polizia sarà autorizzata, durante la grande manifestazione di domani, ad utilizzare veicoli blindati e proiettili di gomma, esattamente come avvenuto durante i riot di quest'estate.
lunedì 7 novembre 2011
La crisi e i cortocircuiti del maschilismo
Quando ho saputo che il cuoco era stato mandato via e che il mio stipendio era salvo, lì per lì non ci ho capito nulla. Ho pensato si trattasse di una questione personale o del segno definitivo della pazzia del capo, ma poi la triste verità mi è arrivata alle orecchie tra le chiacchiere della cucina: io costo meno.
A giugno, durante le strane settimane del presidio accampato di Piazza Maggiore, decidemmo di organizzare un laboratorio sulla discriminazione di genere. Sapevamo che avrebbero partecipato molti passanti e tanta gente che non aveva mai realmente affrontato il discorso, così optammo per lasciar fluire il dibattito, per vedere dove portava. Ebbene, la maggior parte degli uomini intervenuti sostenne la tesi che la discriminazione nei confronti delle donne non esista, e che in realtà le donne siano spesso avvantaggiate sul lavoro e nella vita. Credo di aver già parlato di quanto l'ondata di quel discorso - pronunciato con rabbia o con risatine di sufficienza, con fatalismo o con paternalismo viscido - mi colpì. Non c'era quasi bocca maschile che non ne esternasse una sua versione.

Qui un post di Struggles in Italy sull'argomento e qui uno di Lipperatura sull'ultimo Gender Gap Report.
mercoledì 2 novembre 2011
Psicopatologia alimentare della crisi
Dall’altra parte del banco, là dove non arriva il calore dei forni, il tempo invece va centellinato minuto per minuto, va divorato fino all’ultimo secondo, per non perdere il ritmo e non farsi lasciare a terra dal folle autobus ai cui sedili tocca stare aggrappati. Anche il cibo è diventato un’unità di tempo, una casella tra le tante, che può schiudersi aprendo il coperchio di una vaschetta d’alluminio. Il suo contenuto - il calore e l’energia che sosterranno una giornata di lavoro - è un nome che compie il viaggio di andata dentro un filo del telefono, e quello di ritorno in una cassa legata a un motorino.
Nei momenti di magra, quando il cibo degli altri rimane a stagnare nei frigoriferi, inizia la processione degli emissari dei vari giganti del coupon: Groupon, Groupalia e così via. Loro sanno quando si lavora meno e quando i titolari sono più sensibili a tutte quelle sgangherate proposte che promettono di tenerli a galla. Arrivano a luglio o nelle vuote giornate di ponte, quando semplicemente tener aperto un locale significa rimetterci diversi biglietti da cento. E allora ecco la loro soluzione: il coupon, il ristorante a portata di crisi. Una proposta con talmente tanti non detti da rasentare il confine della truffa.
E quando i clienti arrivano, con in mano il loro coupon fresco di stampante, glielo leggi in faccia quasi sempre che sapere chi c’è dall’altra parte del banco gli importa ancora di meno che ai clienti delle vaschette di alluminio. Vengono da te per riempirsi la pancia il più possibile, non importa di cosa. Per bere fino all’ultimo sorso di quello che il loro foglietto vale, e possibilmente di più. E’ una bulimia che mastica denaro e carta, prima che cibo.
A volte qualcuno telefona per sapere se possiamo andare a comprargli le sigarette o a fargli un po’ di spesa, mentre gli portiamo la cena. Di solito nella voce c’è un velo di imbarazzo, perché a rispondere al telefono c’è un’italiana. Nelle decine di pizzerie di proprietà di stranieri che ci sono in questa città, fare questo genere di servizi è la norma, specialmente da quando i soldi in circolazione sono diventati di meno.
Intanto il fiume di cibo, nell’indifferenza generale, continua a scorrere.
mercoledì 26 ottobre 2011
Alcuni strani collegamenti tra il futuro, Studenti.it e il fatto di spaccare vetrine
Tuttavia, dopo aver dato un'occhiata all'ultima newsletter del sito ho avuto come uno strano prurito, come una voglia di spaccar vetrine. E se è successo a me, che sono una ventisettenne anemica, non oso immaginare come possano sentirsi un ragazzo o una ragazza nel pieno dei loro diciassette anni.
Sì, perché quando un sito che propone serissimi sondaggi sulla condizione sociale dei giovani in Italia, che offre innumerevoli servizi di orientamento al lavoro e che pubblica costantemente offerte di impiego, spiega senza un filo di ironia che tra le dieci professioni del futuro ci sono il "fashion feng shui" e lo "psicologo canino" beh...il dubbio di essere presi per il culo penso che sorga più che legittimamente. E anche una certa ansia per l'arrivo imminente di questo benedetto futuro.
Nella Gallery di Studenti.it - non so perché, ma i cosiddetti "lavori del futuro" sono pubblicati una gallery fotografica - compaiono, oltre a quelle citate sopra, professioni quali il compcierge, il soul coach o il pararescuer. Quest'ultima sarebbe una figura professionale che si occupa di fornire aiuto in caso di calamità naturali o guerre.

Dei meravigliosi consigli che Studenti.it infligge ai suoi giovani lettori avevo già parlato qui.
venerdì 21 ottobre 2011
Cari amici disoccupati, vi sono mancata?

"Inventiamoci qualcosa" mi dice il disoccupato accanto a me. Io direi che, più che inventare, qua occorrerebbe imparare da quei leggiadri circensi che si vedono in tv d'estate, e costruire delle piramidi umane in grado di suparare l'enorme distanza tra il pavimento della buca e la superficie. Una volta lassù i primi che escono potrebbero lanciare delle funi agli altri, e farli uscire uno ad uno. Sarebbe bello, poi, ricoprire questa maledetta buca, buttandoci dentro le macerie di quello che - nella furia della vendetta - distruggeremo.
Magari ecco, possibilmente senza che ci finiscano in mezzo le dita di un ragazzo, o le primavere di un altro, trascorse tra il carcere e il tribunale ad un'età in cui la responsabilità non è proprio tutta tua.
Per il resto, sul 15O si è già detto tutto qui.
lunedì 10 ottobre 2011
Defeticizzare la pizza da asporto

Ogni giorno che passa i suoi capelli sono più bianchi. A quanto pare due lauree e sei lingue non bastano a staccarsi da quel maledetto motorino e a trovare un lavoro al chiuso, al caldo. Dice che quando i clienti pagano con un biglietto da cinquanta euro aspettano di ricevere il resto prima di allungargli la banconota, e a volte, facendo finta di niente, cercano persino chiudergli la porta in faccia senza dargliela.
Io sono fortunata, non ho debiti e posso mettermi in tasca tutto quello che arriva. Sei euro l’ora. Quando ho visto la prima paga settimanale non ci credevo. Nell’altra pizzeria in cui ho lavorato – non ho resistito più di qualche giorno – prendevo esattamente la metà, in nero. I ragazzi che lavoravano con me erano tutti clandestini tranne uno, un rifugiato, scappato dall’Iran quando aveva quindici anni. Siccome avevo studiato il persiano mi aveva presa in simpatia e correva ad aiutarmi ogni volta che mi incasinavo con la cassa. Il padrone invece, quello stronzo, era egiziano e credo ci godesse non poco a sottopagare un’italiana.
R., il ragazzo iraniano, una volta si era schiantato talmente forte contro un bidone della spazzatura che il suo casco si era spaccato a metà. Lui non era religioso, e diceva semplicemente di aver avuto culo.
C’è qualcosa di strano nelle decine di pizzerie da asporto di questa città. Aprono, chiudono, cambiano nome, e l’umanità che le fa tirare avanti è sempre la stessa, si sposta da una all’altra, fluendo, senza che nulla, nel continuum di cibo che viaggia a settanta all’ora per la città, si interrompa. Nemmeno una vibrazione, un tremolio di incertezza, giunge su quelle migliaia di bocche affamate.
Stay foolish, diceva quello là. Stay hungry.
martedì 4 ottobre 2011
Ma Barletta dov'è?
In cambio riceviamo l'illusione di non trovarci invece all'altro capo del tragitto, insieme ai Cinesi che assemblano cellulari in enormi fabbriche-città, o agli Indonesiani che cuciono magliette per 14 ore al giorno. L'Oriente produce - i paesi poveri producono -, mentre noi, che siamo ricchi, consumiamo. Quanto è consolatoria questa barzelletta, quanto ci fa sentire al sicuro nel nostro porticciolo alla fine della storia. Quanto ci è cara, per il fatto che ci da la possibilità di continuare ad essere Noi e Loro, lontani su due gradini diversi del podio.

Il consumatore è un individuo che si osserva attraverso una lente di ingrandimento - la lente che il capitalismo gli ha messo davanti agli occhi -, e che per questo pensa di essere, come individuo, pienamente capace di incidere politicamente. E' un farfugliare da ubriachi, che regala enormi vantaggi a chi questo sistema lo comanda per davvero, mentre a noi lascia soltanto lo straniamento un po' euforico di una boccata di popper.
Qui e qui si possono trovare pezzi dell'ennesima storia orrenda, con le operaie uccise mentre lavoravano per meno di 4 euro l'ora in nero. Se non sapete dov'è Barletta, cercatevela su Maps.
Qui potete trovare un post la cui relativa discussione è immediatamente sfociata nel nulla siderale.
Capirai, io ho lavorato anche per meno.
D'ora in poi boicotterò i maglioni.
domenica 2 ottobre 2011
Anche i lavoratori tra gli occupanti di Wall Street. E per l'1% inizia a mettersi male.
Il mondo del lavoro si unisce alla protesta di piazza, e mai New York è stata più vicina a Il Cairo: come dimostra il caso egiziano, anche nell'epoca dei "beni immateriali" e della finanziarizzazione dell'economia sono i lavoratori l'unico fattore che può far cambiare passo a un'iniziativa politica di cambiamento, dandole il peso e la forza necessari per portare avanti le sue istanze.
Sono prima di tutto i lavoratori stessi a doversi ripensare come forza in grado di agire e di imporre la sua agenda. Marchionne e quelli come lui sono dei venditori di fumo, il cui unico potere è affondare la nave su cui viaggiano per poi saltare su una scialuppa all'ultimo momento, e magari svignarsela alle Cayman. Loro sono l'1% dell'Occidente, lo 0,14% del mondo.
Come dicevano i Wobblies, ancora tra i primi ad appoggiare l'occupazione di Wall Street:
We have been naught - We shall be All!

venerdì 23 settembre 2011
La sinistra che ha scordato il Referendum

Infatti, ecco che Tito Boeri - guru della pseudo-sinistra liberista e della sinistra confusa - rilancia davanti a uno Iacona adorante la sua proposta per salvarci tutti: liberalizzare i servizi. Le care vecchie privatizzazioni dei beni comuni, cacciate a pedate dalla porta, rientrano sotto mentite spoglie dalla finestra bocconiana.

Dodici anni dopo Seattle, ai recinti di cui parlava Naomi Klein hanno aggiunto un bel nastro metallico collegato a una batteria, mentre le finestre...beh quelle verrebbe voglia di tenerle chiuse. Qualche giorno fa Wu Ming proponeva su Twitter di trovare una nuova arma del popolo, al posto dei forconi dell'epoca moderna: io propongo un paio di cesoie, di quelle con i manici ricoperti di plastica isolante.
giovedì 15 settembre 2011
Dizionario tascabile di neolingua per giovani disoccupati
Da qualche mese sono diventato un "neet": not in employment, education or training. Un'etichetta nuova di zecca coniata da sociologi ed economisti per rendere più cool la figura – ormai pressoché maggioritaria – del buon vecchio "giovane disoccupato".
Fino a pochi mesi fa lavoravo. Il contratto – co.co.pro., per la cronaca – è terminato, e io non l'ho voluto rinnovare.
La cosa vi stupisce? Io, da povero ingenuo e fiducioso cittadino democratico liberale, ho fatto questo ragionamento: se il mercato del lavoro, come sostengono gli apologeti della flessibilità, non è mai stato così libero e flessibile, la cosa dovrebbe valere tanto per i datori di lavoro, liberi di lasciarti a casa quando vogliono, quanto per il lavoratore, libero di lasciare nella merda i suoi datori di lavoro quando preferisce – soprattutto, aggiungo io, se il datore in questione si dimostra propenso allo sfruttamento e impermeabile ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni lavorative.
Se, di nuovo, il mercato del lavoro non è mai stato così libero e flessibile, tanto l'uno quanto l'altro non dovrebbero avere grossi problemi a trovare altre occasioni – di libero sfruttamento in un caso, di libero impiego nell'altro.
E invece, chissà come mai, il datore di lavoro trova subito un rimpiazzo, da pagare ancora meno e da sfruttare ancora più del precedente. Mentre il lavoratore si trova con il culo a terra, costretto ad auto-impiegarsi in quel lungo, penoso, frustrante e gratuito lavoro che consiste nel... cercare un nuovo lavoro.
Veniamo così al primo assioma del "libero mercato del lavoro", che enuncerò di seguito in neolingua:
(1) Il mercato del lavoro è libero e flessibile per tutti. Per il datore di lavoro, però, il mercato del lavoro è libero in quanto flessibile; mentre, per il lavoratore, è flessibile in quanto libero.
Di seguito la spiegazione del primo assioma nella lingua corrente: le riforme neoliberali del mondo del lavoro hanno abolito – e stanno tuttora abolendo – tutele, diritti e garanzie in nome della "flessibilità". Per i datori di lavoro, la flessibilità vuol dire quindi libertà di licenziamento; per i lavoratori, vuol dire invece precariato e lunghi intervalli di disoccupazione tra un lavoro e l'altro nel caso malaugurato in cui subiscano un licenziamento o si licenzino loro stessi.
Ho quasi 28 anni, e ho l'ambizione di considerarmi "giovane". Fino a qualche mese fa ho lavorato, mentre ora sono disoccupato. Potrei quindi definirmi un giovane lavoratore disoccupato. Logico, no?
No. Perché la neolingua ha coniato per me un'etichetta tutta nuova e molto fashion: quella di "neet", appunto. Non sono attualmente occupato, sono giovane e ho lavorato fino all'altro ieri; eppure, non posso considerarmi un "lavoratore". Sono qualcos'altro.
Veniamo così al secondo assioma del "libero mercato del lavoro", che enuncerò di seguito in neolingua:
(2) Un lavoratore di età inferiore ai 31 anni, nel momento in cui viene a cessare il rapporto di lavoro in corso, cessa anche di essere un lavoratore.
Di seguito la spiegazione del secondo assioma nella lingua corrente: se ti fosse riconosciuto il titolo di "lavoratore", ne conseguirebbe che avresti dei diritti e potresti avanzare delle legittime rivendicazioni legate al tuo status. Ma questo il sistema non se lo può permettere. Per cui ti neghiamo lo status di lavoratore e ti appioppiamo uno status nuovo di zecca, coniato per l'occasione dagli ingegneri della neolingua con un carico di connotazioni negative il cui scopo deliberato è farti sentire in colpa per la tua miserrima condizione.
Per l'ex giovane lavoratore che si scopre neet e si trova a fare i conti con la sua rinnovata "libertà", la ricerca di un nuovo lavoro presenta una serie pressoché infinita di ostacoli, seccature e umiliazioni.
Il proverbiale "giro delle sette chiese" ti spinge anzitutto a bussare alla porta delle care, vecchie agenzie interinali. Soltanto per scoprire che aprono due volte alla settimana per un'ora o due al massimo, che molte ricevono solo su appuntamento (in attesa del quale possono trascorrere intere settimane), che per alcune è necessario prima del colloquio registrarsi in internet; e, soprattutto, che un numero spaventoso di persone nelle tue stesse condizioni – o in condizioni di gran lunga peggiori delle tue – ha avuto la tua stessa idea mezz'ora prima di te. Dietro una scrivania, nel frattempo, un'impiegata sottopagata accumula curricula su curricula senza promettere nulla.
Alla porta di una di queste agenzie, è appeso un cartello. C'è scritto: "curricula, iscrizioni, domande di lavoro".
Che strano, penso. Nei manuali di economia chi va in cerca di lavoro si dice che offre del lavoro, non che lo "domanda". A domandare lavoro sono semmai i datori di lavoro. In fondo, il lavoratore viene pagato per il lavoro che svolge, mentre il datore di lavoro è quello che paga...
La stessa curiosa inversione la ritrovo poco dopo nelle pagine di un giornale con "offerte" di lavoro che acquisto all'edicola vicina.
Su questo particolare aspetto, la neolingua del libero mercato tocca il suo vertice insuperato. Perché, se ci si pensa bene, invertire l'ordine di offerta e domanda in riferimento al lavoro equivale a trasformare il lavoro in... una merce che il lavoratore acquista sul mercato!
Che strano. Un signore con la lunga barba nato in Germania all'inizio dell'Ottocento diceva che nel sistema capitalistico le cose stanno, in fondo, proprio così. Infatti il tempo, le energie e le competenze impiegate dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni non sono pagate come dovrebbero; questo succede perché il datore di lavoro – quello che una volta era chiamato "il capitalista" – in un certo senso "ci fa la cresta" tendendo per sé una parte del valore prodotto dal lavoratore. Quindi è come se il lavoratore "comprasse" il suo posto di lavoro, nella misura in cui rinuncia – perché la cede di fatto al datore di lavoro – ad una parte della sua legittima retribuzione.
Di nuovo, che strano. Pensavo che il signore con la lunga barba fosse un relitto del passato, e invece aveva capito tutto. In fondo, ai suoi tempi, mettere in evidenza una cosa del gere significava dare ai lavoratori un buon motivo per incazzarsi. Oggi, invece, una condizione del genere è accettata come normale. Chissà se quelli dell'agenzia interinale col cartello e quelli del giornale hanno mai letto i suoi libri...
I manuali di economia, quindi, raccontano balle. Le agenzie interinali e i giornali non ne hanno bisogno. Difficilmente qualcuno si complimenterà con loro per la sincerità e il fine senso dell'umorismo.
Ecco dunque il terzo ed ultimo assioma del libero mercato del lavoro, che formuliamo, come da tradizione, in neolingua:
(3) L'aspirante lavoratore entra nel mercato del lavoro come offerente, mentre l'aspirante datore di lavoro entra nel mercato del lavoro come potenziale acquirente. Tuttavia, è il lavoratore a domandare lavoro e il datore di lavoro ad offrirlo.
La spiegazione di questo assioma nella lingua corrente trovatevela da soli, che non è difficile.
Grazie a Don Cave per la lucidità, la rabbia e la dignità.
lunedì 12 settembre 2011
Le scuole serali, la shock economy e il regolamento di conti
Al nord non ha trovato padroni migliori, sono qualcosa di troppo raro anche lì. Forse è per questo che ha deciso di rimettersi a studiare. Quando hai trent’anni, la scuola è una cosa tremendamente seria, è il luogo dove si possono usare ogni giorno parole nuove, dove si cresce sempre, mentre in fabbrica non cambia mai nulla.
E’ una cosa tanto seria che la si ribalta da cima a fondo se è necessario, che si combatte – e si vince – contro professori pigri e incapaci, contro strutture carenti, contro direttori scolastici ostili ed inetti, che si pianta un casino ogni volta che qualcosa non va e che non si impara quanto si vorrebbe.
La genesi delle scuole serali in Italia è legata a quella del caposaldo del diritto del lavoro italiano, lo Statuto dei lavoratori. Fu quest’ultimo a istituire negli anni '70 scuole pubbliche per l’istruzione degli adulti, come parte di un progetto nato dalle lotte del mondo del lavoro che condusse l’Italia a sperimentare un benessere mai tanto diffuso. Mai i lavoratori, nel rapporto con gli imprenditori, erano stati così forti.
Ora, come tutto quello che è scritto nello Statuto dei lavoratori, anche le scuole serali sono sotto attacco, insieme alla tutela dal licenziamento e persino alla possibilità di non essere sorvegliati da telecamere e guardie giurate durante il lavoro. Insieme a tutto ciò che è emancipazione e diritto per il lavoratore.
Nella scuola del mio amico C, come in centinaia di altri istituti, quest’anno le prime classi non partiranno più. Anche qui si palesa il vero intento delle misure che, in un Italia alle prese con continui shock finanziari, vengono approvate in nome del pareggio dei conti: il pareggio, in realtà, è un tentativo di conseguire una vittoria schiacciante, quanto più possibile definitiva, contro i lavoratori. E’ il famoso regolamento di conti.
Il mio amico C. intanto si è diplomato con il massimo dei voti e ora vuole prendersi una laurea in ingegneria. E’ il suo regolamento di conti personale. Ma gli altri dietro di lui troveranno la strada sbarrata dalla riforma Gelmini e da un buio totale di prospettive, in un orizzonte in cui l’unica cosa da fare sembra arrendersi ai dettami di chi la crisi l’ha fatta per salvare non si sa che cosa. Parlare di progresso e, appunto, di emancipazione, sembra un esercizio intellettuale per filantropi che non tengono i piedi per terra.
Il fascismo, ideologia dei padroni per eccellenza, guarda caso non si preoccupò mai dell’istruzione per gli adulti, proprio perché la scuola non poteva servire all’emancipazione, ma solo a creare Italiani fascisti fino al midollo. Oggi la scuola è vista come un terreno di conquista per il mercato, scelta altrettanto ideologica di quella fascista, presa per creare generazioni di ragazzini e adulti privi dell’idea di bene pubblico e disposti a pagare per qualunque cosa. Agli operai, a quanto pare, non resta che andare al Cepu.